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La Fiat di Pomigliano, la classe operaia non va in Paradiso

Pomigliano vota e Torino risponde. Va ancora avanti il tira e molla sulle sorti dello stabilimento Fiat. Non ci voleva il pugno di ferro dell’Imperatore Marchionne per ribadire l’amara massima che un cinefilo può rubare dalla filmografia di Elio Petri: “La classe operaia non va in Paradiso”. Tramontata l’illusione operaia del rampantismo degli anni ’80, ora ci sono i figli di quella categoria a pagare le colpe degli assenteisti e degli sfaticati, di coloro che abusavano del fasullo benessere di allora. Si davano ammalati, svolgevano la seconda attività in nero per arrotondare e nei fine settimana fuggivano in Calabria, a Scalea, dove avevano realizzato il sogno del “borghese piccolo piccolo”: avere la casa a mare. In spiaggia, spaparanzati al sole, speravano di annientare la tortura della catena di montaggio, ascoltando i figli cantare in coro “Sei forte, papà”, come se la stupidotta canzoncina di Morandi del ’76 potesse lenire il dolore, la fatica. Per un beffardo gioco degli dei, i figli di quella classe operaia sono condannati a pagare il ricatto della globalizzazione. Pomigliano d’Arco, da piccolo paesotto di provincia che era, a partire dal 1972 ha vissuto l’illusione ottica di diventare un piccolo centro metropolitano, come se poi quel mucchietto di dirigenti torinesi sbarcati allo stabilimento Gianbattista Vico avesse avuto la bacchetta magica per darle le sembianze di una piccola colonia nordista.
Tra la fine degli anni di Piombo e la prima metà degli anni ottanta Pomigliano d’Arco è stata aggredita dal boom edilizio che ha fatto balzare alle stelle i prezzi degli immobili, dallo snobbismo della jeunesse locale che aveva trasformato un trafficato incrocio nel punto di ritrovo, dal via vai del laboratorio pasticceria Antignani che addolciva le festicciole casarecce della middle-class. E tutti si sono illusi che ad incrementare l’attività commerciale delle vetrine pacchiane del centro, pardon radical-chic, fossero i businessmen dei piani alti. Non era così, erano gli operai  e le loro famiglie a far girare l’economia locale. Ce ne siamo accorti accorti sì o no? 
I Sindacati sono spariti. Nella belle époque degli sprechi facevano finta di non vedere, oggi parlano “il politichese” perchè poggiare il culetto su uno scranno in Parlamento è più salottiero.  Nelle sorti di questo stabilimento c’è in gioco il destino di un’intera comunità e il compromesso non può superare la logica della dignità.

1 maggio, quale Festa del Lavoro?

Per chi se ne ricorda il 1 maggio è la Festa del Lavoro. Nonostante le urla dei sindacati, la tarantella finisce con i soliti bla bla bla. Del resto pure chi un lavoro ce l’ha, non ha tutta questa voglia di stappare lo spumante. L’aria che tira è deprimente tra disoccupazione, incertezze, precarietà e le morti bianche dimenticate. Come fai a confortare chi ti viene incontro, di qualsiasi età, e ti racconta la sua triste storia? Ci siamo passati un po’ tutti. C’è chi ha perso il posto di lavoro; c’è chi passa il giorno ad inviare curricula e si vede sbattuta la porta in faccia; c’è chi non ce la fa ad arrivare a fine mese; c’è chi a 50 anni si sente dire che è troppo vecchio per reinventarsi (Fabio Concato docet nel suo bel pezzo Oltre il giardino) o c’è chi vive lo stress per la scadenza  di quel maledetto contratto a tempo determinato. Il lavoratore di casa nostra  era mio padre e il 1 maggio a modo nostro gli facevamo festa. Nonostante la sua attività ce lo sottraesse continuamente, da ragazzo credevo che il lavoro fosse un diritto di tutti. Banalmente mi sono reso conto che non è così. L’unica consolazione di questo 1 maggio è il concertone di piazza San Giovanni a Roma, che quest’anno ci trasmette “il malumore dell’incertezza”, nel senso che a pochi giorni non conosciamo il programma definitivo. Nel 1998 ero di passaggio a piazza San Giovanni, ma quello fu un concerto piovoso. Nel backstage incrociai  Julian Lennon, il figlio di John, che ad un certo punto mi disse: “Quanta gente sotto al palco. Tutti fanno festa per il lavoro”. L’erede dell’ex Beatles non aveva capito che quell’entusiasmo nascondeva altro, rabbia e amarezza, che oggi sono le stesse intraviste nel mio ultimo anno da spensierato universitario, in quella piazza. Il volume alto della musica stordisce e la speranza non è mai abbastanza.