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Ricomincio da Massimo Troisi vent’anni dopo

Fonte: Repubblica.it

Rosario PipoloDi quel 4 giugno del 1994 ho un doppio ricordo: da una parte la telefonata ricevuta a casa dalla redazione, in cui mi comunicavano che sarei stato io a scrivere un pezzo sulla scomparsa prematura di Massimo Troisi. Dall’altra il concerto di Pino Daniele, Eros Ramazzotti e Lorenzo Jovanotti allo stadio San Paolo di Napoli aperto così: “Sono passato a casa di Massimo ma mi hanno detto che lui era già qui”. Il lungo applauso e la commozione sulle note di Quando.

Detesto gli anniversari che il più delle volte concimano nostalgie canaglie come le ricorrenze obbligate a cui è quasi irrispettoso sottrarsi. La maschera di Massimo Troisi, rivissuta all’ombra del Vesuvio sotto tante sembianze e a volte sottomessa alla volgorità del kitsch, resta quella dell’ultimo Pulcinella dell’età contemporanea. Me lo ricordò in un’intervista Ettore Scola, che lo aveva diretto in Il viaggio di Capitan Fracassa. Il cinema ci rende ombre immortali, il palcoscenico ci consegna nelle mani degli dei che sanno come farsi beffa di noi comuni mortali, il cabaret ci libera dagli schiamazzi dei populisti.

Troisi in effetti non ha bisogno di commemorazioni, perché non se n’è mai andato. Quando chiacchierai con Lello Arena ed Enzo De Caro, in occasione della pubblicazione di Enaudi della Smorfia nella collana Stile Libero, notai che i due compagni di viaggio di Massimo ne parlavano sempre al presente. E persino all’anteprima del film Il Postino al Festival del Cinema di Venezia, intravidi negli occhi commossi di colleghi ed addetti ai lavori in Sala Grande un Troisi in essere.

Massimo Troisi resta ispirazione necessaria per lasciarsi alle spalle la Napoli chiassosa e volgare, depressa e minacciata dagli stereotipi. Persino quando lo incrociamo disegnato sul cartone di una pizza da asporto, Troisi sa ricordarci la sua napoletanità sottovoce che, attraverso uno scalpitio garbato, sa ancora come illuminarci scrollandosi di dosso l’odioso vittimismo. Meriterebbe di essere studiato a scuola nelle ore di filosofia. Perciò noi figli di quella generazione in esilio da Napoli dalla fine degli anni settanta, per rincorrere i sogni e le illusioni del Nord industrializzato, ci chiamiamo Ugo e non Massimiliano. Abbiamo imparato la lezione.

Sophia Loren, da un autografo alla fiction

Si dice che dalla grafia si possa capire l’anima di una persona. Vale anche per l’autografo di una diva? Guardando ieri sera la prima puntata di La mia casa è piena di specchi, la fiction di Raiuno che racconta una parte della vita di Sophia Loren, mi è tornato in mente l’unico incontro con lei, nel 2002 al Festival del Cinema di Venezia. Mi ha fatto tenerezza la Loren in quell’occasione: teneva per mano il figlio Edoardo e gli faceva da “mamma-madrina” per la presentazione del suo film. Di quell’incontro mi resta un autografo su una vecchia videocassetta, quella del film “Una giornata particolare” di Scola a cui mi sento particolarmente legato.  In quella firma tremolante non riesco a leggere niente più di Sofia Scicolone, perchè è come se gli anni da diva d’oltreoceano avessero offuscato la persona. Eppure nel film televisivo diretto Vittorio Sindoni la vera eroina si conferma la mamma di Sofia, donna Romilda Villani. Dietro un’attrice di successo c’è una grande mamma (Romilda) o un grande uomo (il produttore Carlo Ponti)? La fiction si inceppa in qualche stilema troppo edoardiano, tra i traumi di Napoli Milionaria e la leggitimità dei figli di Filumena Marturano, ma ci lascia un interrogativo: Oscar per la Ciciora nel 1962. Sarebbe mai accaduto se dietro la macchina da presa non ci fosse stato un grande regista come Vittorio De Sica? Nel “ph” di Sophia ci sono davvero allora dei grandi uomini, altrimenti forse quella ragazza di Pozzuoli sarebbe rimasta un volto dimenticato di un fotoromanzo in bianco e nero. E non c’era bisogno di questo tributo televisivo per scoprire l’acqua calda!