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3 serie tv cult di Netflix da vedere almeno una volta nella vita

Netflix, la piattaforma americana di streaming più famosa del pianeta, ha frantumato il perimetro del piccolo schermo tradizionale. Negli ultimi dieci anni ci ha offerto serie televisive che hanno lasciato il segno.
Non siete stati ancora in Spagna, Corea del Sud o Gran Bretagna? Prendete il telecomando, radunate un gruppo di amici per una bella maratona e buon viaggio.

LA CASA DI CARTA

Netflix e la Spagna alla riscossa con La casa di carta (2017-2021), una delle serie tv più amate che in 48 puntate ha conquistato il pubblico di mezzo mondo. Non mi dite che non avete sentito dei colpi alla Zecca di Stato e alla Banca Centrale a Madrid per opera di folli rapinatori mascherati da Dalì e capeggiati dal geniale Professore Salvador?
Gli episodi sono da mandar giù tutti d’un fiato e in una decina di giorni riuscite a farli fuori tutti, o quasi. I protagonisti, interpretati da un cast di alto livello, si portano con loro storie di vita intriganti e commoventi che filano un plot pieno di colpi di scena. Così questa ciurma di criminali, agli occhi dell’opinione pubblica, diventerà uno nuovo squadrone di “partigiani” alla ricerca della libertà lontano dalle logiche di potere e dalle contraddizioni dello Stato. La versione spagnoleggiante della nostra antifascista Bella Ciao sarà un vero hit della colonna sonora, con impliciti riferimenti agli anni bui della Spagna franchista.
La casa de papel, questo è il titolo originale, ha dato via allo spin-off Berlino (2023) del quale è disponibile già la prima stagione interpretata dal bravissimo Pedro Alonso.

SQUID GAME

Netflix vi farà preparare il bagaglio per un viaggio in Corea del Sud con Squid Game (2021), la pluripremiata e criticata serie tv. Nove episodi mozzafiato da vedere in una giornata scritti e diretti magistralmente dal sudcoreano Hwang Dong-hyuk. Con un ottimo cast asiatico, Il gioco del calamaro – questo è il titolo tradotto in italiano – ha alzato un polverone di polemiche ovunque perché colpiva il target fragile adolescenziale, istigandolo ad uccidere.
Cosa succede se c’è in palio un premio da quasi 5 milioni di dollari per partecipare a un gioco spietato dove vince chi prevarica sull’altro, ammazzando tutti gli altri concorrenti? Una fotografia contemporanea che denuncia la sfrenata competetività che sta mettendo tutti noi stupidi essere umani gli uni contro gli altri. Chi guarda la serie con il solo focus del game si perde il risvolto critico verso la società sudcoreana e i suoi fallimenti di politiche sociali tra collassi economici e inflazione sulla coda del ‘900.
Squid Game ha il merito di far tornare a galla la rinascita della cinematografia coreana tra stile e poesia a partire dagli anni ’90, da A Petal di Jang Sun-Woo al più recente Parasite di Bong Joon-ho.

BLACK MIRROR

Black Mirror (2011-2023) è tra le serie tv più longeve trasmesse da Netflix e ogni episodio è autoconclusivo. Pertanto, potete mandarli giù come mini film di poco più di un’ora nell’ordine che volete. Un viaggio in Gran Bretagna per la maggior parte delle sceneggiature che affrontano il tema dell’invasione delle nuove tecnologie e l’impatto che stanno avendo sulle nostre vite.
Black Mirror è una vera e propria sfera di cristallo perché diverse puntate sono state profetiche rispetto ai tempi con finali che ci hanno lasciato a bocca aperta.
Le prime due stagioni, arrivate in Italia tra il 2012 e 2013, sono quelle rimaste nel cuore degli appassionati: girate a budget ridotto attirano per quella fotografia grezza che, solo in apparenza, li fanno apparire come dei vecchi B-Movie. Ecco la mia playlist da “vedere assolutamente”: The National Anthem (Stagione 1), Be Right Back (Stagione 2), White Christmas (Speciale 2014), San Junipero (Stagion 3), Black Museum (Stagione 4), Striking Vipers (Stagione 5) e Joan is Awful! (Stagione 6).
In tutto questo tempo Black Mirror è cambiata molto passando dalle remote minacce dei social network a quelle più attuali dell’Intelligenza Artificiale, che può rendere l’unicità della persona umana nella frantumazione di uno, nessuno e centomila. Le riflessioni abbondano, nonostante la serie abiba perso la fragranza degli esordi, così come i dubbi su ciò che sia etico.

Riverdale e il giorno dei morti nell’addio commovente a Luke Perry

La celebrazione del giorno dei morti del 2 novembre ci appartiene come ai messicani e neanche l’infatuazione dei più piccoli per Halloween potrà convincerci del contrario. Riverdale, la serie tv americana disponibile su Netflix e ispirata ai fumetti d’oltreoceano di Archie, fa spesso i conti con il dolore per la perdita di una persona cara. Perché vale la pena rivedere la prima puntata della quarta stagione, addio commovente all’attore Luke Perry?

DA BEVERLY HILLS 90210 A RIVERDALE

Per quelli della mia generazione Luke Perry, scomparso prematuramente nel 2019 all’età di 52 anni, ha prestato il volto al Dylan di Beverly Hills 90210. Chi non ricorda la serie televisiva ambientata in California che in dieci memorabili stagioni ci ha fatto cavalcare gli anni novanta?
Prima di vestire i panni di Fred Andrews in Riverdale, Perry ha reso cult l’interpretazione giovanile di Dylan. Il suo personaggio in Beverly Hills 90210 aveva contribuito a far tornare in noi giovani di allora la voglia di continuare ad essere noi stessi. Sì, perché da ragazzi di periferia potevamo starcene alla larga dai primi ricatti dell’altra vita in Internet, felici anche senza i soldi, le macchine e le bellezze di plastica che circolavano sulle strade californiane della televisione di allora.
Per i teenager di oggi il ricordo di Luke Perry è ancora vivo nella fisionomia di Fred Andrews, il papà premuroso e onesto di Riverdale, che gli autori della popolare serie hanno dovuto cancellare dalla sceneggiatura per la morte improvvisa dell’interprete.

DOLORE TRA FICTION E REALTA’

La penna dello sceneggiatore di Riverdale Roberto Aguirre-Sacasa è stata abile, per tutta la durata della puntata commovente dedicata alla scomparsa del papà di Archie, a farci chiedere per l’ennesima volta: è legittimo provare dolore per la perdita di qualcuno mai conosciuto di persona che ha dato vita ad un personaggio che non smetteremo mai di amare?
Sì e questo va oltre l’espediente narrativo di far apparire per l’occasione Shannen Doherty, la Brenda protagonista di Beverly Hills 90210, che in Riverdale interpreta la donna per cui è corso in aiuto Fred ed è stato investito da un’auto.
Gli attori Luke e Shannen, vecchi compagni di set, non si incontreranno mai in Riverdale e questo poco importa. Ciò che conta è aver ufficializzato il legame e l’eredità tra due serie televisive, tra due generazioni che, dentro e fuori il piccolo schermo, oggi giocano a ricoprire i ruoli complicati di genitori e figli.

IL GIORNO DEI MORTI NELL’ADDIO A FRED/LUKE

I funerali di Fred Andrews in Riverdale e la partecipazione commossa di tutta la comunità ci ricordano quelli di Luke Perry e di tutti i papà che sono andati via, lasciando noi figli senza il braccio e la gamba supplementari per affrontare meglio la vita.
Fanno bene gli sceneggiatori a suggerirci che un funerale di un padre come il 2 novembre, il giorno dei morti, può diventare una festa quando un figlio si sente il più fortunato del mondo per avere avuto un papà che lo ha reso migliore. E così un addio resta un arrivederci.

Carlo e Camilla, The Crown, Netflix

Quali segreti ci riserva The Crown di Netflix sull’incoronazione di Carlo?

Occhiali

L’incoronazione di Carlo a sovrano d’Inghilterra di sabato 6 maggio scrive una nuova pagina nella storia della monarchia inglese. Mi chiedo: quali segreti ci riserverà The Crown di Netflix?
Ormai è risaputo che la seguitissima serie tv, giunta alla quinta stagione, sia una spina nel fianco a Buckingham Palace. Vi vorrei vedere nei panni di un reale inglese, inclusa la compianta Regina Elisabetta, a litigare dal 2016 con il vostro alter ego sul piccolo schermo tra verità e immaginazione.

SESTA STAGIONE E POI THE END

Scusate l’impazienza. Quanto tempo dovrò aspettare affinché gli sceneggiatori di The Crown spifferino i retroscena dell’incoronazione di Carlo?
La sesta stagione, di cui sono in corso ancora le riprese, dovrebbe essere l’ultima della serie. I battenti si chiuderebbero sui primi anni Duemila fino all’incontro fiabesco tra William Kate.

CARLO, CAMILLA E GLI INCIUCI DI THE CROWN

Se così fosse Re Carlo III tirerebbe un sospiro di sollievo. Nella quarta e quinta stagione, tra il divorzio dalla principessa Diana e l’amore clandestino di una vita con Camilla non ne era uscito un figurino.
Spulciando tra gli aneddoti di palazzo mi è giunta voce che ormai Carlo sia stufo di guardare la serie tv di Netflix. Dall’altra parte mi sembra preoccupato. Re Carlo avrebbe detto a un gruppo ristretto di parlamentari scozzesi “di non essere la persona raccontata nella serie televisiva di The Crown“. A differenza sua Camilla ci ride su. Pagine di tabloid l’anno scorso la hanno ritratta al fianco della sua fotocopia televisiva, la brava e affascinante attrice Emerald Fernell, che ha constatato quanto la futura regina consorte fosse una donna di spirito.

PANE DA SCENEGGIATURA

Quale dito nella piaga si teme di più a Buckingham Palace sull’incoronazione di Carlo? Io non mi preoccuperei tanto dei 100 milioni di sterline spesi per la cerimonia che ricadranno fitti fitti sulle tasche dei britannici. Piuttosto sarei vigile sul prossimo brutto tiro di Henry e Meghan.
Del resto l’ultima sconcezza del principino ribelle non è andata proprio giù a Re Carlo: veleni e veleni messi nero su bianco nel libro Spare. Lo avete letto?
Questi ultimi farebbero l’acquolina in bocca a qualsiasi sceneggiatore.

NETFLIX, RIPENSACI!

Sul set di The Crown hanno appena finito di girare le scene del matrimonio di Carlo e Camilla, che potremmo vedere solo nel 2024.
Nel frattempo godetevi in tv l’incoronazione di Carlo, con una speranza, l’ultima a morire: che il nuovo Re sia quantomeno all’altezza della mamma Elisabetta e convinca quelli di Netflix a non chiudere l’amata serie tv con la sesta stagione.

federico salvatore

Azz, non voglio dire addio a Federico Salvatore!

Occhiali

La notizia della scomparsa prematura di Federico Salvatore, apprezzato cabarettista e chansonnier partenopeo, addolora ogni napoletano che si rispetti. Le luci della ribalta si accesero per Federico una trentina d’anni fa sul palco del Maurizio Costanzo Show. La partecipazione nel 1996 al Festival di Sanremo con il brano Sulla porta fece il resto. Io trascorsi un pomeriggio insieme a lui dentro e fuori gli studi di Radio Club 91, tempo dopo il rientro sanremese. I funerali sono previsti il 20 aprile alle ore 12.30 nella Basilica di San Ciro a Portici. I fan e le persone che gli hanno voluto bene gli daranno l’ultimo saluto.

L’ARTE DI FEDERICO SALVATORE SULLE BANCARELLE

In realtà per noi napoletani Federico Salvatore, 63 anni, è entrato nel cuore nel decennio precedente a quello della popolarità nazionale accompagnata dallo slogan “Azz”. A metà degli anni ’80 sulle bancarelle alla Ferrovia di Napoli, infatti, circolavano le audiocassette con gag e canzoni ironiche insuperabili. Ero alle scuole medie, stavo mangiando una sfogliatella con nonno Pasquale nel vico della ferrovia quando la sua voce uscì da una cassa di un ambulante. Nonno Pasquale rideva “sotto i baffi” e io corsi il rischio di affogare per le risate.
Chiamatele pure arte da bancarella ma gli esordi di Federico Salvatore avevano già chiaro il destino artistico. Diventare un arguto cantastorie e cronista della quotidianità napoletana, quella che se non sei nato all’ombra del Vesuvio non puoi capire.

APPICCICATA O VOMMERO

L’emblematica canzone-macchietta “Appiccicata o Vommero”, un litigio nel quartiere vomerese tra un “chiattillo” della Napoli benestante e un popolano, nascondeva l’amaro campanilismo tra la città bassa e la città alta, che da Posillipo serpeggiava fino in via Santa Teresa degli Scalzi del quartiere Stella, dove Federico Salvatore era nato il 17 settembre 1959. Rispetto a Tony Tammaro e alla sue parodie musicate, Federico Salvatore è stato più capace di affacciarsi in ogni quartiere di Napoli e raccontarne pregi e difetti senza perdere di vista le sfumature della diversità.

IL MIO POMERIGGIO CON FEDERICO SALVATORE A RADIO CLUB 91

Nella primavera del 1996, dopo il trionfale rientro dal palco del teatro Ariston, trascorsi un bellissimo pomeriggio con Federico Salvatore a Radio Club 91, in via Broggia a Napoli, a pochi passi dal teatro Bellini. Io ero agli esordi con la macchina da scrivere. Dopo l’intervista negli studi radiofonici, io e Federico continuammo con una lunga chiacchierata davanti a un caffè: mi donò tanti aneddoti della sua gavetta, i sacrifici spesso incompresi, mi raccontò della nuova casa sul litorale Domitio, del mancinismo che ci accomunava e rise a crepapelle quando gli dissi che all’asilo avevano tentato di curarmi come se avessi una malattia.
E naturalmente ci soffermammo ancora sul testo di Sulla porta, che lo aveva sdoganato dal cliché di chi vuole strapparti la risata facile. Il monologo musicato intenso, che raccontava il delicato momento di un coming out, porta anche la firma di Giancarlo Bigazzi.
Federico Salvatore, che ho rincontrato spesso a teatro – sosteneva che un bravo cabarettista “non deve digiunare del palcoscenico neanche da spettatore” – era schietto, sensibile, empatico. La sua “battuta” nascondeva l’amarezza del cabarettista appartenente a una razza davvero in estinzione, anche quando mi salutò così da fratello maggiore: “Ragazzo, ricorda che uno dei mali del nostro Paese è lo squallido tentativo di distinguere gli artisti in serie A e B.”


FARE IL NAPOLETANO STANCA…

Fare il napoletano stanca…. di Federico Salvatore è una riflessione intensa del 2009 che oggi potrebbe essere il testamento dell’artista. L’avete mai ascoltata? Ci sono due motivi per cui varrebbe la pena tornare a Napoli nei prossimi mesi: festeggiare lo scudetto e urlare sotto la finestra della sua casa a Portici: “Federì, affaccete a sta fenesta e cantece ‘na canzone.”

“Non ho titoli di Dottore
ne divisa di ferroviere
non sono ladro né carabiniere
sono un lavoro umano
che ha ingegno da ingegnere
faccio il napoletano di mestiere
E’ la napoletanità chiusa nel mio DNA
è un passpartù di opportunità.”

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

Lino Toffolo, maschera goldoniana sciolta in una canzoncina

lino_toffolo

Rosario Pipolo“Chi ha rubato la marmellata? Chi sarà? Ed un uovo di cioccolata? Chi sarà? E chi ha rotto la vetrata con un colpo di pallon? Chi ha scaldato la cassata con il fon?”.
Dietro la canzoncina di Johnny Bassotto, che ha gracchiato sul 45 giri della mia infanzia, c’è la maschera di Lino Toffolo. Maschera goldoniana in perenne evoluzione, l’attore veneziano aveva quella versatilità straripante che lo avrebbero dovuto incollare al palcoscenico della Laguna e farlo restare osservatore della realtà attraverso la giostra delle storie di Carlo Goldoni.

“Ma il bassotto poliziotto scoprirà la verità, il bassotto poliziotto scoprirà la verità. Che poliziotto Johnny bassotto con le manette arresta la tua fantasia; ti fa svegliare e confessare tutto quel che hai combinato”. La maschera galleggia tra i versi di una buffa canzoncina, una girandola nel piccolo schermo di fine anni ’70. Ci confonde senza farci notare che il sorriso sornione di Toffolo è la lama con cui il cabarettista guerreggia  contro l’ipocrita serietà della vita.

“Chi ha giocato in ascensore? Chi sarà? Chi ha legato al palloncino la cravatta di papà che ora vola sopra tutta la città, eh?”. Persino nei fotogrammi della pellicola antimilitarista Sturmtruppen, diretta da Samperi e tratta dal fumetto meraviglioso di Bonvi, Toffolo manipola la maschera d’argilla di un abile teatrante facendoci credere di essere un caratterista.

“Il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia! il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia!”. Persino una réclame – pardon oggi si dice spot pubblicitario – diventa con lo scanzonato Toffolo territorio artistico, senza essere con prepotenza la rincorsa verso uno scaffale del supermercato per un barattolo di marmellata.

Non esistono attori di serie A o serie B. Esistono attori, punto.

Cari Giovanni e Paolo, i vostri sorrisi cancellano la vergogna degli eredi dei padrini in tv

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Rosario PipoloDa bambino mi hanno insegnato che agli sconosciuti si dà del “lei”. In modo particolare è d’obbligo agli sconosciuti che scalfiscono nella nostra dignità l’offesa di mandare in tv i figli dei padrini.

Ai tempi della Prima Repubblica i padrini si baciavano perché sigillavano il patto di complicità tra politica e mafia, tra istituzioni e mafia. A differenza della concorrenza che si limitava a mandare in onda le vicende di Tony Soprano, il più noto boss della mafia italo-americana di una serie televisiva, oggi il Servizio Televisivo Pubblico apre le porte e fa spazio sui suoi divani alla prole legittima della stessa mafia che venticinque anni fa tentò ti togliervi la parola.

La messa in onda di ieri sera non era una fiction così come non lo è stato il giornalismo che ha subìto un duro colpo, uno schiaffo alla deontologia di un mestiere in cui restano invisibili coloro che si sforzano di farlo nel migliore dei modi.
La banalizzazione della mafia nelle domande del padrone di casa mi ha fatto tornare in mente una sottolineatura, lasciata sulla prima edizione della mia Garzantina sulla Televisione. Così scriveva Aldo Grasso a proposito dell’intervistatore di ieri sera: “Sempre fedele a un modello di giornalismo ossequioso nei confronti del Potere”.

Il dolore non passa mai così come la vergogna. Voglio tenermi appartato dal fetore di questa discarica.  Voglio ricordarmi della mia ultima volta a Palermo, a piedi scalzi sulla sabbia, per mettermi alla ricerca di voi due tra i suoni e i profumi della vostra città. I colori della libertà mi hanno fatto sentire a casa.

Ah, sì, a voi due sto dando del tu. Non mi sento maleducato. Volevo tenere l’ultimo fiato sospeso per voi. Ho imparato sulla mia pelle che alla belle persone si deve dare necessariamente del “tu”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, voi due restate la bellezza che nessuno ci porterà mai via, neanche la televisione che saccheggia la dignità.

David Letterman e l’America oltre la TV

Rosario PipoloL’America, conficcata tra la presidenza di Truman e quella di Nixon, si stropicciò gli occhi guardando l’Ed Sullivan Show, lo storico programma televisivo che allevò più generazioni, inclusa quella che, nella puntata del 9 febbraio del ’64, annusò che la musica degli sbarbatelli Beatles avrebbe potuto fare le scarpe ad Elvis.

David Letterman, icona dell’intrattenimento televisivo d’oltreoceano degli ultimi quarant’anni, si è fatto erede di Ed Sullivan e ha traghettato gli USA del piccolo schermo televisivo attraverso i decenni ondulanti tra la politica pirotecnica reganiana e quella pseudo-sociale di Obama.

Non state leggendo un necrologio, perchè Mister Letterman non è morto. Va a godersi semplicemente la meritata pensione e spegne un pezzo di storia della televisione americana. Anzi no, diciamocela tutta: mette per sempre il sigillo alla scatola stregata che ha fatto il bello e il cattivo tempo di un Paese.

In Italia ci siamo dovuti accontentare facendo zapping tra i siparietti nazional-popolari del Maurizio Costanzo Show. Agli americani è andata meglio di noi con il Late Show. Letterman ha scremato i ruoli del conduttore, del comico e del “giornalista” mancato, mischiandoli in un gioco sottile tra ironia, satira, denuncia.

Per chi non se ne fosse accorto, David Letterman è stato anche la rivincita di un tipo di televisione, che in Italia abbiamo scimmiotato male nella belle epoque del berlusconismo catodico.
Letterman, armato di nonchalance sofisticata e per certi versi “con la puzza sotto il naso”, è stato così abile ad abbattere la corazza e i tabù della star monumentale che la poltrona dell’ospite ha fatto anche da confessionile gonfiabile.

Tra la scrivania di Letterman e lo scottante sofà su cui si sono seduti gli ospiti c’è stata la distanza di sicurezza sufficiente per accorgersi del carisma del padrone di casa, in tante occasioni più ospitale e arguto degli inquilini potenti che si sono succeduti a Washington.
Nel 1981 Hollywood spedì un attore in pensione alla Casa Bianca. Chissà che domani non ci riesca la tv del Late Show.

Luca Ronconi, quelli che il teatro…

Rosario PipoloQuelli che il teatro lo scelsero perchè il restante fuori il recinto del palcoscenico fosse risucchiato e vissuto con lo sguardo di chi mette insieme drammaturgia, personaggi, esistenza viscerale nella lotta scomposta tra anima e corpo. Il gigante Luca Ronconi.

Quelli che il teatro lo trascinarono nella visione riflessa, dopo Giorgio Strehler e Luigi Squarzina, del terzo occhio per costruire l’impalcatura che fece della regia presa di coscienza, irreversibile rivolta al sistema, contropartita nell’Orlando Furioso, scacco matto dell’avanguardia teatrale in Italia. Il regista Luca Ronconi. 

Quelli che il teatro lo donarono con generosità agli attori e alle attrici che palparono sotto forma di argilla l’unico modo di esistere senza compromessi: dai Branciaroli alle Melato che gli riconobbero il merito di averli illuminati. Il maestro Luca Ronconi. 

Quelli che il teatro lo abitarono e fecero del sipario le tende della propria casa; del palcoscenico la quercia centenaria del proprio giardino; delle quinte gli armadi di tutte le stanze; delle luci della ribalta l’illuminazione di ogni ambiente domestico; dei camerini le tane dove fermarsi a riflettere, dall’Argentina di Roma al Piccolo di Milano. L’uomo di teatro Luca Ronconi. 

Quelli che il teatro lo vissero senza la persecuzione delle scadenze del tempo, convincendoci della reincarnazione dell’uomo di teatro come se, l’invecchiamento a cui siamo condannati noi comuni mortali, non li riguardasse.
A questi ultimi gli dei dissero no alla sepoltura, lasciando il legno del palcoscenico come involucro delle spoglie mortali.  Essere Luca Ronconi.

Quelli che il teatro lo fecero senza sapere che il teatro furono loro stessi. 

Sanremo 2015, il Volo “cantanti da pizzeria” e le penne con l’Alzheimer

Rosario PipoloI due giovanissimi tenori e il baritono che compongono il Volo, la formazione musicale vincitrice del 65° Festival di Sanremo, si sono guadagnati meritatamente il consenso popolare, destando però qualche perplessità nei corridoi della Sala Stampa dell’Ariston. Tra l’altro pare che Pietro Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble siano stati additati pure come “cantanti da pizzeria”.

Senza tener conto di chi non ha digerito il successo planetario dei tre mocciosetti del programma tv di Antonella Clerici e la conquista degli USA,  dobbiamo rassegnarci al fatto che in Italia abbiamo delle penne malate di Alzheimer. Si tratta delle medesime biro che, abusando del loro inchiostro, pensano ancora di vivere ai tempi in cui segnavano il bello e il cattivo tempo della discografia.

Per fortuna o per sfortuna oggi ci sono i social media, non soltanto territorio di clowneria e nefandezza ma anche di competenza, la stessa che ha l’orecchio lungo e riconosce il talento di Il Volo. Le penne malate di Alzheimer hanno esaurito l’inchiostro a supporto di mediocri pianisti contemporanei, facendoli passare come geni incompresi, e non ne hanno più a dispozione per riconoscere la bravura di questo trio?

Consapevoli da una parte che i Festival di Sanremo dei Modugno, dei Dallara, dei Latilla, dei Villa, dei Rascel, degli Endrigo, dei Tenco o dei Gaetano non torneranno mai più, dall’altra ci opponiamo a questi ciarlatani da corridoio perché Barone, Boschetto e Ginoble possono fare un miracolo con le loro romanze pop: far avvicinare i ventenni alla lirica, ricordando loro che la radice della musica è tutta lì.

La mia generazione fece il grande passo scoprendo Luciano Pavarotti, l’antesignano di quella fusione magistrale tra lirica e pop. E me ne resi conto il 30 luglio 1991 quando, all’uscita da una merenda all’Hard Rock Cafè di Londra, mi ritrovai il grande tenore che cantava sotto la pioggia ad Hyde Park. Ebbi la fortuna di ascoltare quel concerto gratuito che in parte avrebbe compromesso alcune mie scelte musicali future.

Il Volo sono l’unico sollievo di questo Sanremo avaro che dimenticheremo in fretta, forse il peggiore musicalmente di tutte le edizioni. Se proprio dobbiamo salvare una baby band, teniamo loro e buttiamo giù dalla torre i Dear Jack, flop del filone della tribù della De Filippi.
Pietro, Ignazio e Gianluca hanno talento ma devono sapere che l’umiltà è necessaria per crescere. La strada per guadarsi un posto nella storia della musica è ancora lunga, faticosa, tortuosa e il pericolo che il successo negli USA li abbia montati la testa è dietro l’angolo.

Le braccia spalancate di Mimmo Modugno sulle note di Volare fecero il giro del mondo. E questa Grande amore? Nonostante resti una romanza pop di serie B avrà il pregio di ricordare all’estero che l’Italia – ed in particolare Abruzzo e Sicilia, le regioni che li hanno partoriti – non è solo corruzione e volgarità ma è ancora culla di ragazzi entusiasti, capaci di assistere con la passione il faticoso cammino per le nuove generazioni, orfane della grande musica che fu.