L’Italia 150 anni dopo, il 17 marzo tra unione e diversità

Quando ci siamo conosciuti, Carmine e Ciro mi hanno mostrato con orgoglio la loro bandiera della Nazionale Italiana. I Mondiali erano appena terminati e, nonostante la delusione per l’uscita dell’Italia, per entrambi è stato il primo tifo da coppa del Mondo. Ci siamo divertiti a trovare un significato per ogni colore, ma i due bambini senesi erano convinti che il verde, il bianco e il rosso si confondessero con l’atmosfera di una partita allo stadio, nonostante alla base ci fosse una sacrosanta verità: l’unità, intesa come unione e riscoperta dello stare assieme. Eppure, quasi fosse un paradosso, il significato di unità quei due furfanti, il primo di otto e il secondo di sei anni, se lo portano dietro dal giorno in cui sono stati registrati all’anagrafe: i nomi profondamente partenopei li contraddistinguono dall’accento compostamente toscano.
I due fratellini hanno imparato a riconoscere la ricchezza della diversità tutte le volte che vanno a Napoli a trovare i nonni. Tuttavia, andiamoglielo a spiegare che, quando i genitori della mamma hanno tentato di trasferirsi a Milano nei primi anni ’70, hanno ingoiato l’ennesimo boccone amaro spiaccicato sulle porta: “Non si affittano case ai napoletani”. L’Italia era già unita da più di un secolo, ma l’intuizione di Massimo D’Azeglio aveva ancora il suo perché: dove erano gli italiani?
Per questi 150° anni dell’Unità di Italia, non voglio finire in pasto alla cialtroneria tipica del Belpaese, tra i discorsi delle istituzioni, le maratone televisive o gli editoriali dei benpensanti. Vorrei nascondermi assieme a Carmine e Ciro in un libro di storia che ci raccontasse la verità su come siano andati i fatti, mettendo da parte l’emotività fiabesca. Chi glielo dice a questi due scolaretti che Giuseppe Garibaldi non fu uno stinco di santo; che le cronache locali sepolte nelle biblioteche calabresi e siciliane testimoniano le violenze dei Mille sulle popolazioni locali; che la piemontizzazione è stato l’errore più grossolano; che le teste coronate sono state degli emeriti incapaci.
La complicità dei due fratellini toscani cela sul volto la stessa fierezza della “piccola vedetta lombarda” del libro Cuore di De Amicis, perché chi ha rinunciato alla vita per quel tricolore apparteneva ad ogni fascia di età. In 150 anni di Unità abbiamo dimenticato parecchio perché, dopo il bluff monarchico e i tentativi della Prima e Seconda Repubblica di far passare il nazionalismo per patriottismo, l’Italia ha camminato sotto l’ombrello dell’asserzione gattopardiana del Principe di Salina:  “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Dopo essere passato a Torino, nella notte del  17 marzo attraverserò il mio Paese per sprofondare nel mio Sud. Sussurrerò a bassa voce l‘Inno di Mameli, come se fosse la nuova preghiera dell’Italia laica, perchè “Fratelli d’Italia” restituisca  un nome a chi si è sacrificato e spinga a nascondersi sotto una montagnetta di fango quei “sepolcri imbiancati” che vorrebbero il nostro stivale ridotto ad un’ammucchiata di staterelli, in lotta fratricida tra loro.