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Ci mancherà Enzo Bearzot e l’Italia che faceva squadra

Prima ancora che il calcio fosse annebbiato dalla tangentopoli dei pallonari, c’era la compostezza di Enzo Bearzot. Prima ancora che gli stadi fossero affollati da grezzi sbruffoni, c’era lo stile di Enzo Bearzot. Prima ancora che le rincorse emotive dietro un pallone si riducessero ad una ingordigia di violenza, c’era la sportività di Enzo Bearzot.
Come calciatore se lo ricordano in pochi, quei quattro gatti legati alle cronache sportive in bianco e nero del Belpaese del secolo scorso. Come Commissario Tecnico se lo ricordano in tanti, perché nel 1982 ci fece sognare ai Mondiali di Spagna con la Nazionale Italiana Campione del Mondo. In quell’occasione ci sentimmo eroi invincibili per più di una stagione, perché è vero quando si dice che tra gli spalti di uno stadio si assiepa lo specchio sociale. Quest’Italia di oggi, furbetta e cinica, è figlia di un’Italia che tentava di rifarsi la faccia attraverso il sorriso sornione del partigiano romantico, il Presidente tifoso Sandro Pertini. Questione di stile, in politica come nel calcio?
Allora Bearzot c’entra con Pertini. C’entra perché fu testardo a credere nei nuovi campioni – i Tardelli, i Rossi, gli Zoff, i Cabrini – non attraverso l’edonismo degli allenatori globalizzati, bensì nel vero gioco di squadra che si fa bilanciando il tatticismo della testa con la passione del cuore. Quello di Vecio era un altro calcio, quello dello stare assieme. Enzo Bearzot ci mancherà perché oggi ognuno vuole vincere da solo, ad ogni costo. Lui ci ha dimostrato che, nel gioco come la vita, lo scintillio di una vittoria condivisa vale più di qualsiasi altra gloria subordinata al becero individualismo.

L’11 luglio della Spagna campione: “Nonno, adesso non ci prendono più!”

Le date tornano e i calendari fanno i loro giri. L’11 luglio del 1982 l’Italia di Bearzot vinceva il Mondiale in Spagna. L’11 luglio di 28 anni dopo la nostra Nazionale consegna la sua coppa del mondo alla Spagna, per la prima volta campione del mondo. La furia rossa è entrata nella storia del calcio e adesso è giusto che questa fiesta vada avanti senza sosta, da Madrid a Barcellona.

Eppure quell’11 luglio era anche il mio primo Mondiale, stavo per spegnere nove candeline. Quando Alessandro Altobelli tirò dentro la porta della Germania il terzo goal, mi colpì il sussulto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini: “Adesso non ci prendono più”. Nonno Pasquale mi abbracciò e mi prese in braccio, dicendomi: “Nel campo come nella vita è tutto un gioco fatto di rigori, punizioni, illusioni, sconfitte, vittorie, calci d’angolo”. Poi aggiunse: “Vedrai che quando tuo zio Massimo arbitrerà a livello internazionale, altro che una confezione di Orangina, ti porterà sul quel campo assieme a lui”. Poi arrivò il fischio finale e fu una grande festa.

Eravamo in vacanza a Fondi, in provincia di Latina. Nonno mi aveva regalato una bandiera a misura di bambino, plastificata, acquistata nell’unico bazar della zona: Peticone. Eravamo in aperta campagna. Mi prese per mano e corremmo giù, attraversammo i campi, ci nascondemmo per fare uno scherzo agli altri. Fu allora che mi ricordai della frase del Presidente e gridai: “Nonno, adesso non ci prenderanno più”. In quell’urlo c’era l’illusione infantile che nessuno ci avrebbe separati mai, che avrei condiviso con lui chissà quante cose ancora.

Da allora mi ostino a seguire ogni Campionato di Calcio, nonostante sia uno sportivo distratto perché dietro quel pallone i ricordi diventano più lucidi, costanti. Chi non ha memoria è solo un “morto vivente”. Ieri, dopo la vittoria della Spagna, a casa mia è tornata ad essere domenica. Il Dolby surround sparava al massimo l’euforia dei tifosi ed io sono corso alla finestra con una consapevolezza. Il Mondiale è un momento di condivisione, fatto di incontri, di persone che ritornano per farci ritrovare l’essenza della condivisione.