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Niente mare a Sharm El Sheik. Estate in Egitto tra golpisti militari e finta democrazia

Rosario PipoloQuesta sarà un’estate calda in Egitto. E non perché i tour operator spediranno tra gli scenari finti di Sharm El Sheik il vacanziero italiano medio con infradito e panza al sole. Persino i napoletani dalla filosofia della “mappatella”, che importarono in riva al Mar Rosso lo stile pacchiano dei lidi di Varcaturo e Mondragone con le canzoni dei neomelodici ad alto volume, dovranno tornarsene in riva alle spiaggette del litorale domitio.
Questa non è più l’estate dell’Egitto da cartolina, della luna di miele lungo il Nilo, questo è un luglio da golpe militare. Gli spettri gloriosi dei faraoni e il bagliore dell’antica civilta egizia, imprigionata tra sarcofaghi, antichi papiri e piramidi, aleggia nelle ore calde che smantellano il mito della Primavera araba.

L’America di Barack Obama, che aveva sposato il patto d’acciaio con Morsi e i fratelli Musulmani, dovrà fare retrofront. A pochi mesi dal quarantesimo anniversario del golpe militare che portò Pinochet al potere in Cile – in una geografia diversa di vicende e colpi di scena – la politica estera degli USA, dal ghigno malefico di Nixon al pacifismo di Obama, ha fatto un buco nell’acqua per il suo trasformismo. Le pagine della storia degli ultimi 50 anni ce lo ricordano. Accade a chi alterna ruoli e posizioni, stando con o contro i golpisti militari. E anche quando la bandiera a stelle e strisce sventola come un vessillo di pace e salvezza, è come quando sbarcò il primo uomo sulla luna. Sotto il casco di Neil Armstrong era scritto lo slogan: “Il piede sulla luna lo abbiamo messo noi. O con noi, o contro di noi”.

Tornando in Medio-Oriente, gli egiziani, con la fame di chi vuole abbuffarsi di “libertà, dignità e riscatto”, si stanno lanciando tra le braccia dell’esercito, perché sopravvivono ancora le dicerie che la democrazia possa indossare una divisa militare. I nuovi salvatori dell’Egitto, che hanno sotto le ascelle il sudaticcio dei vecchi raìs, nel caos dell’euforia, hanno messo già mano alle prime azioni di imbavagliamento, bloccando l’emittente televisiva di Al Jazeera. Basterà l’urlo dei social network a trasformare l’esultanza popolare in acuta riflessione? C’è un cambio di stagione. La primavera ha ceduto il passo ad un’estate piena di contraddizioni. E il Medio-Oriente lo capirà presto.

Barack Obama, il Presidente dell’altra America

obama150Negli ultimi anni qualcuno ci ha ricordato sottovoce che l’America non era solo quella guerrafondaia di George Bush, del potere dei petrolieri che si erano giocati a dado le sorti di John Kennedy, della superpotenza che voleva imporre a tutti costi il suo “regime democratico” ovunque e a qualsiasi costo. Avevamo dimenticato l’America di Joan Baez, Bob Dylan e Bruce Springsteen, quella dei raduni sotto il cielo utopico di Woodstock, quella che aveva protestato conl megafono per fermare il genocidio del Vietnam, quella incantata per “I have a dream” di Martin Luther King, quella letteraria della Beat Generation tra le pagine irriverenti di un Kerouac o un Bukowski. C’era e c’è un’altra America: è quella che oggi entra alla Casa Bianca con l’elezione di Barack Obama a Presidente degli USA. La vera vittoria non è nei confronti del soldato McCain e della sua spalla Palin, ma verso la lobby della spietata Hillary Clinton, simbolo fallico dell’ipocrisia democratica statunitense. Nessun candidato alla presidenza ha attirato così l’interesse dei giovani di mezzo mondo. La raccolta di fondi sul web, l’uso calibrato di You Tube e Facebook hanno trasformato Obama nel “Cavaliere di Internet”. Nel giorno dell’euforia, non tralasciamo un particolare. Barack Obama è il primo afroamericano, il primo “nero” ad entrare nella camera del potere americano. Un riscatto storico e sociale per “i neri” di tutto il mondo, quelli schiavizzati dall’America contradittoria che mise contro Nordisti e Sudisti, quelli discriminati dall’America razzista che fece del colore della pelle il passepartout per avanzare o retrocedere. La vittoria di Obama cambia il destino di questa America, nonostante siano tante le ferite da rimurginare in Medio Oriente, in Economia, nell’Ambiente, in Politica Estera con l’espansionismo minaccioso di Russia e Cina.  Gli americani si aspettano dal nuovo Presidente la fine di un sistema sanitario che non tutela i deboli, facendoli divorare dalla brama delle compagnie assicurative. Per adesso godiamoci l’aria di festa perché la sfida è davvero più difficile di quello che immaginiamo.