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Gli 80 anni di don Peppino Gambardella, prete ribelle e filosofo delle periferie

Un compleanno speciale racconta in 80 candeline la luce diffusa da un prete di frontiera per la sua comunità. Giuseppe Gambardella, noto a tutti nella sua Pomigliano D’Arco come don Peppino, nel giorno del suo ottantesimo compleanno viene riconosciuto patrimonio della comunità.
Originario di Visciano, nel fazzoletto di terra del nolano di Giordano Bruno, don Peppino ha messo il suo sacerdozio al servizio della periferia di Napoli, diventando il simbolo delle lotte a fianco di operai, emerginati, senzatetto e dei tanti bambini e ragazzi abbandonati a sé stessi a cui aprì le porte della sua Casa Famiglia a loro dedicata.

Seminario di Nola (Na), 1981 (Archivio Privato)

DON CAMILLO ALLA PERIFERIA DI NAPOLI

I miei studi e la sua formazione in filosofia si incrociarono di sbieco e saltuariamente negli anni del liceo ma poi lo persi di vista per ritrovarlo miracolosamente anni dopo. Dico “miracolosamente” perché la mia generazione ha visto frantumarsi i suoi punti di riferimento nel tempo della sopraffazione della contemporaneità tra individualismo, competizione, rincorsa sfrenata verso il futuro.

Terme di Castellammare di Stabia (Na), 1970 (Archivio Privato)

Giuseppe Gambardella è stato l’autentico don Camillo della periferia di Napoli, in simbiosi con il personaggio delle pagine di Guareschi e con le sequenze del piccolo gioiello cinematografico di Duvivier: testardo, impavido, sfrontato, intelligente, umano come il parroco di Brescello nella sfida con “il don Peppone di turno”, che nella sua arroganza da primo cittadino si illudeva di tenere in pugno tutta la comunità accecato dalle schede elettorali e non dalla luce di Dio.

Loppiano, Città dei Focolari (1971) (Archivio Privato)

SACERDOTI PRONTI A DARE LA VITA PER TUTTI

Gambardella ha attraversato il Novecento tenendo a mente le parole di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari a cui aveva aderito fin dagli anni ’60: “Una Chiesa arricchita di sacerdoti-Cristo, sacerdoti-vittime per l’umanità; autentici Cristo, pronti a dare la vita per tutti.”
Il parroco di San Felice in Pincis non si è lasciato illudere dal boom industriale che contagiò il suo territorio alla fine degli anni ’70, tenendo un occhio di riguardo per gli ultimi. Il digiuno a fianco degli operai dello stabilimento dell’ex FIAT di Pomigliano D’Arco negli anni bui della globalizzazione mi ha spalancato un portone di riflessioni, ispirando il sacerdote del mio romanzo L’ultima neve alla masseria. Durante un reading alla Malzfabrik di Berlino ho spiegato che il mio Francesco Giuseppe Gambardino omaggiava un parroco italiano della provincia di Napoli:

Il gesto di Francesco Giuseppe Gambardino fece ripartire parte della produzione, seppure a singhiozzo. Da quel giorno al mio paese si dice che molti operai, al mattino, abbiamo preso l’abitudine di farsi il segno della croce prima di mettere mano sulla catena di montaggio (…)

Potenza, 1970 (Archivio Privato)

IN QUESTA GRANDE IMMENSITA’…

Don Peppino Gambardella è stato un punto di riferimento per tante generazioni, compresi i laici come il sottoscritto. Ciascuno ha intravisto nel cuore del “parroco operaio” di San Felice in Pincis un interlocutore sempre a passo con i tempi tra spiritualità e dialogo, incluso l’uso intelligente dei social media per tenere i contatti con chi vive lontano. Mi tornano in mente le parole del miscredente, amico dei tre pastorelli di Fatima, che rilasciò ai miei colleghi cronisti del tempo, dopo il prodigio in Portogallo, questa dichiarazione: “Solo gli sciocchi continuano a sostenere che Dio non esista”.
In questo 12 ottobre passeggio per una Milano soleggiata e mi sembra di sentire le voci della mamma e della cara sorella di Giuseppe Gambardella, scomparse in giovane età in un incidente stradale, che da lassù sussurrano: “Peppino, Peppino, siamo fiere di te e ti siamo sempre accanto, anche in questo giorno speciale”.

Come biglietto d’auguri ho scelto questa strofa di una canzone a me particolarmente cara, L’immensità di Don Backy, che condensa molto dell’esistenza di ciascuno, anche del don Peppino che tutti abbiamo conosciuto almeno una volta nella vita:

Sì, io lo so

Tutta la vita sempre solo non sarò

E un giorno io saprò

D’essere un piccolo pensiero

Nella più grande immensità

Del suo cielo.

Don Andrea Gallo, il prete scomodo tra gli emarginati cantati da Faber

Don Gallo recità De Andrè

Rosario PipoloUn prete non dovrebbe mai assecondare i propri bisogni, ma fiutare i limiti di far parte del coro, magari pure stonato. Don Andrea Gallo, che sembra uscito da un verso del canzoniere di Fabrizio De André, è stato una gran bella voce fuori dalla mischia. La sua visione profetica del buon pastore si è fatta portatrice di laicità per strada, tra gli ultimi e gli emarginati, tenendo gli altari e i clamori del clero alla giusta distanza. Eppure “il don” genovese, scomparso mercoledì scorso all’età di 84 anni, non è stato mai un solista. Ne aveva le capacità, ma conservava l’umiltà di chi sapeva che “lottare assieme” per il bene del prossimo era una scorciatoia per accostarsi allo sguardo del Padreterno.

La Comunità di San Benedetto al Porto Di Genova raccoglieva le Marinelle, le Bocca di Rosa e i Michè di Faber, mentre nelle pupille di Don Gallo era tracciata la spina dorsale di un pensiero: “Ce ne sono tanti, purtroppo, che sognano una casa, una famiglia, invece trovano l’abbandono, la disperazione. Non sono loro le vittime, sono io, siamo noi, perché non ci rendiamo conto dell’indifferenza”.

Don Andrea Gallo è stato amato senza distinzione da credenti e miscredenti perchè al posto della tonaca indossava umanità. I giovani sapevano ascoltarlo perché le sue preghiere, prima di alzarsi verso il cielo, attraversavano il cuore della sofferenza che ci circonda ogni giorno e che noi puntualmente facciamo finta di non vedere. Per ricordarlo non servono più i suoi inseparabili compagni di viaggio – la sciarpa rossa, la Bibbia, la Costituzione e la bandiera della Pace – ma non perdere l’orientamento per continuare a percorrere il sentiero dei preti scomodi, quello ci fa sentire accanto il soffio di Dio.

Don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che si fece “operaio”

Abbiamo perso di vista i sacerdoti di frontiera, coloro che sanno togliersi la tonaca al momento giusto e dar voce a chi l’ha persa. In uno dei miei recenti viaggi, ne ho ritrovato uno. Il volto di don Peppino Gambardella era a me noto e non perché fosse finito alla ribalta per aver digiunato a favore degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco. In un certo senso aveva sfiorato per pochi istanti la mia adolescenza, quando a quel tempo incantava gli allievi con le sue lezioni di filosofia.
Gambardella non è il noioso predicatore che si compiace dei sermoni, è uno pratico, è uno che nelle omelie domenicali ci infila Dostoevskij perché  “la bellezza salverà il mondo”. Mentre i fatti di cronaca degli ultimi anni hanno raccontato il sacerdozio come prigione della perdizione, la bellezza di uomini come don Peppino Gambardella ne rispolvera la missione sociale. Questo prete del Sud, profondamente radicato nel suo territorio, ha restituito alla città di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli, l’identità rinnegata di culla degli operai.
Il canzoniere folk degli Zezi ci raccontava che erano stati loro a tenerla in piedi. In tanti lo avevano dimenticato, mentre “il paesotto” che ospitava Fiat e Alitalia viveva tra la fine degli anni ’70 e una parte degli anni ‘90 il suo rampantismo: come dimenicare i condomini radical-chic di piazza Primavera; i tuffi in piscina al Parco Fanfani; i raduni musicali estivi abitati dagli pseudo-intellettuali che la volevano roccaforte del jazz; la middle-class che si addolciva con i pasticcini di Antignani;  le passeggiate della gioventù alla ricerca di capi firmati tra le vetrine pacchiane del centro; lo struscio “goffo” nella nuova villa cittadina, che si vantava di essere l’Hyde Park della zona vesuviana.  E prima che finisse il regno del Bassolinismo a Napoli, si era già spento il “Pomigliano dream”. Erano stati messi nel sacco da un bel pezzo i trasformisti che la volevano alla pari di un quartiere blasonato di Napoli, senza tener conto che la provincia è condannata a rimanere provincia, con le sue contraddizioni, il falso moralismo, l’ipocrita apparenza.
Don Peppino Gambardella ha riscattato la sua comunità da questa visione distorta, restituendo nel gesto di quel “digiuno” l’ultima speranza, nonostante il quesito resti lo stesso: “La classe operaia andrà in Paradiso?”.
E la speranza è anche nei ragazzi che animano la parrocchia di San Felice in Picis, figli della semplicità di don Peppino, che già nei primi passi del suo sacerdozio indicava inconsapevolmente la strada per diventare angeli, prima che Lucio Dalla lo mettesse nero su bianco in una vecchia canzone:  “Se io fossi un angelo, non starei nelle processioni, nelle scatole dei presepi”.

Don Riccardo Seppia e i nuovi mostri: meglio Bocca di Rosa!

Non occorre essere anticlericali fino alle unghie dei piedi per strillare col megafono che don Riccardo Seppia rappresenta il disonore del sacerdozio. Il parroco di Sestri Ponente è accusato di abusi sessuali sui minori, ma peggio ancora si trema dinanzi alla notizia shock: il “don mostro” è anche sieropositivo e potrebbe aver contagiato chissà quali delle sua vittime.
E come per ogni categoria, mettendo da parte il credo religioso, sarebbe un grave errore mortificare il valore di quella ciurma di sacerdoti sparsi per il mondo a donarsi per il bene dell’umanità. Mi riferisco a quelli di frontiera nella aree disagiate delle nostre metropoli; a coloro che sono finiti in Africa devolvendo la vita ad intere comunità; a coloro che sono partiti nei territori di guerra e non sono più tornati. Fa meno cronaca, ma dovremmo tornare a parlarne, a trovare lo spazio adeguato per raccontare storie che non sono poi così banali e controbilanciano quella minoranza mostruosa che ha trasformato “la tonaca” nell’arma diabolica della miseria umana.
Chi fa abuso dei minori dovrebbe essere linciato, ma soprattutto dovrebbe essere subito intercettato da chi spesso fa finta di niente, chiude un occhio, per il bene apparente della comunità. Chi è complice di Don Seppia o chi lo ha protetto dall’alto della gerarchia merita la sua stessa sorte. A chi spetta il giudizio, a seguito della rabbia e del dolore, al tribunale o anche alla stessa comunità?
Più di quaranta anni fa un genovese cantò con la sua chitarra “Bocca di Rosa”, scandalizzando il clero benpensante che scagliava pietre contro le prostitute, ma forse già chinava il capo di fronte ai nuovi mostri. Vorrei tornare tra i vicoli di Genova a cercare quella chitarra. C’è ancora un cantastorie coraggioso che, senza aver letto i vangeli apocrifi, è pronto a difendere l’ultima “puttana” pur di smascherare l’ennesimo “sepolcro imbiancato”?