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Al Montozzo: Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate

Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. A 2500 metri d’altezza, a cavallo tra l’Alta Valcamonica e l’Alta Val di Sole, lì nel Parco dello Stelvio. A pochi passi dal rifugio Bozzi, ci sono le trincee della Grande Guerra. Noi le abbiamo dimenticate, soprattutto in questo periodo quando ce ne stiamo con “la panza” al sole sulle spiagge affollate. L’estate montanara è ballerina perché da un momento all’altro il sole può prestare la sua voce alle nuvole, permettendo alla pioggia di lavare la terra bagnata dal sangue.
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Su quella cima, al Montozzo, ad ascoltare il coro delle voci bianche, che perirono per noi nei giorni bui della Prima Guerra Mondiale. Giovani e meno giovani, che sacrificarono la vita per un pezzo di confine, che andavano incontro alla morte martoriati dal freddo e dalla fame, come se i nostri soldati fossero giocattoli da vetrina del primo ‘900.
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Lì, ad alta quota, muovendosi come i passi silenziosi sulla neve. Quelli che non fanno rumore, ma lasciano il segno, come il grido delle donne che non li videro più tornare, che aspettarono finché il sole spegnesse la torcia. Mamme che invecchiarono all’istante senza poter più sussurrare “Figlio mio”; fidanzate che si arresero allo strazio del dolore senza poter cantare “Amore mio”.
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Lì in cima, tra la foschia, perché puntualmente la nebbia del “deserto dei tartari” ritorna in quella che dovrebbe essere la stagione più luminosa dell’anno. E’ solo nello smarrimento dell’invisibile che possiamo ritrovare le sagome di quei soldati. Quanto ci costerà restituire loro la visibilità dell’eroe, nel tempo in cui sperperiamo i valori a ridosso del mostruoso divismo del “Grande Fratello”?
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Niente più castelli di sabbia con i bambini in riva al mare. Resta lì su quella cima, a far compagnia a tutto il coro di voci bianche che si aggira per il Montozzo. E presterà per il resto dei nostri giorni la voce a quelle montagne.

L’ultimo imperatore: Tripoli, bel suol d’amor!

“Tripoli bel suol d’amor” cantava una voce femminile negli anni ’10 del secolo scorso. Vecchie reminiscenze musicali che attraversano i solchi della storia, perché spesso a farla franca è il dolore. Niente amore, niente democrazia, niente libertà. La ricchezza e il benessere sfrenato erano rinchiusi nei palazzi degli orchi, mentre fuori il popolo aveva fame. A tenerlo a bada non sarebbero servite neanche “le amare brioche” del sarcasmo frivolo di Maria Antonietta di Francia.
All’improvviso è come se Libia, Tunisia, Algeria ed Egitto si fossero risvegliate da un lunghissimo letargo e l’orrido fantasma del colonialismo fosse tornato a girovagare nell’immaginario collettivo del Nord Africa. Dai colonialisti erano finiti nelle mani degli imperatori che avevano stordito tutti, confondendo il confine che c’è tra una dittatura e una democrazia. E noi sottobanco ci abbiamo messo del nostro, dalla base del Vecchio Continente, fornendo a tempo debito armi, soldi e belle donne. E quando noi italiani facevamo i vacanzieri sulle coste del Nord Africa, preferivamo rinchiuderci nei lussuosi resort come in un paese dei balocchi: panza al sole, culi formosi e drink dissetanti, senza buttare l’occhio nei piccoli villaggi dove c’era la miseria nera.
La necessità della libertà qualche volta diventa giustamente furibonda, incontrollabile e così in queste ore si inasprisce l’ira funesta contro l’ultimo imperatore Libico, tra morti ammazzatti e gente che rischia la vita ogni minuto che passa. La storia è una trottola che gira, incredibile. Alla fine del 1942, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, due soldati napoletani, Pasquale e Tonino, furono fatti prigionieri proprio da quelle parti. Stavano per ammazzarli e il secondo fece un voto: “Dio mio, se mi salvi, quando ritorno a Napoli tolgo una donna dalla strada e sposo una prostituta”. Nel ’43 sbarcarono gli alleati e i due furono messi in salvo. Pasquale tornò tra le braccia della fidanzata Lucia e Tonino andò in una casa di prostituzione della Riviera di Chiaia, facendo fede alla sua promessa. Questi due ometti in divisa, dimenticati in una fotografia in bianco e nero del Nord Africa, non sono i protagonisti immaginari del film La Grande Guerra di Monicelli, ma due persone vere.
Pasquale era mio nonno e, appena mi raccontò questo episodio, io gettai via il fucile giocattolo che mi avevano regalato e dissi: “Nonno, non voglio più giocare a fare il soldato”. E adesso mentre scrivo, mi torna il magone, perché in Libia centinaia di persone rischiano di perdere la vita e la libertà, come allora stava per succedere a quelle due reclute partenopee. E allora, vecchia voce, non cantare più da quel grammofono “Tripoli, bel suol d’amor” perchè non ci siano più colonialisti sotto il tricolore, ma messaggeri di pace e democrazia.

Il piccolo Martin come John Kennedy jr. in quella foto…

L'ultimo saluto di John Kennedy jr. al padre

Rosario PipoloCi sono scatti fotografici che entrano nella storia e ci restano per sempre. Te ne dimentichi, ma poi ti tornano in mente e ti convinci che certi accostamenti vanno oltre l’emotività collettiva. Il 25 novembre 1963, ai funerali di John Kennedy, il piccolo John John salutò il padre sugli attenti e quell’immagine fece in poco tempo il giro del mondo. Non si è mai saputo  se quel gesto-icona fosse stato frutto di un protocollo, oppure la presa di posizione instintiva ed emotiva di un bambino che percepiva il dolore privato e collettivo per la perdita del Presidente degli Stati Uniti d’America. Il 21 settembre 2009, ai funerali di Stato dei sei parà caduti in Afghanistan, il piccolo Martin ripete quel gesto: indossa il basco, si mette sugli attenti e saluta il capitano Fortunato, fino all’altro ieri suo padre, da oggi eroe riconsciuto a furor di popolo . Tra John John e Martin ci sono distanze ultraoceaniche: il primo era figlio di un presidente “martire”, generato paradossalmente dalla mostruosità delle lobby americane; il secondo è orfano di un caduto a Kabul che gli ha lasciato il peso di una riflessione. Indossare “una divisa” non è come salire sulla passerella di una sfilata di moda, ma assumersi le responsabilità del proprio ruolo e dei suoi pericoli.  Forse questa considerazione non ha toccato per niente lo scellerato che ha scritto con spirito goliardico “meno sei”, riferendosi ai sei soldati morti dopo l’attentato sponsorizzato dai Talebani. Il saluto del piccolo Martin ci depura da quell’oltraggio offensivo. Adesso anche l’Italia ha una foto da conservare. Non è in bianco e nero, ma a colori per cicatrizzare meglio le ferite ideologiche che dividono stupidamente il nostro Paese.