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Sul finto posto di lavoro: L’ultima favola di Pomigliano D’Arco

1maggio

Rosario PipoloI compagni di classe di mia figlia sono andati a visitare il posto di lavoro dei genitori. E’ una bella iniziativa, quando io ero piccolo non si usava. La prima volta che misi piede nello sgabuzzino dove lavorava mio padre, lo feci clandestinamente. Appena lo vidi appeso ad un palo della luce, andavo dicendo a tutti che fosse un eroe, faceva il trapezista. Per quanto riguarda mamma, che errore imperdonabile avevo commesso. Mi lamentavo di non aver mai visto il suo posto di lavoro. E pensare che io ci stavo tutto il giorno lì, perché mamma era una casalinga, lavorava h24 e nessuno le riconosceva la reperibilità o gli straordinari.

Insomma, questa volta a mia figlia non ho potuto dire di no. Gli stessi insegnanti mi hanno rimproverato, perché era un’azione educativa. Capisco, chi ha perso il lavoro come me, cosa si inventa? Ho 39 anni. Nessuno lo sa che sono disoccupato da due anni, neanche mia moglie da cui mi sono separato di recente. Lei la mattina si alza comodamente per andare in ufficio e io non volevo che mia figlia pensasse a suo padre come un poco di buono!
Ho tirato fuori tuta dall’armadio e ho detto alla bambina: “Oggi niente scuola, papà ti porta a vedere il suo posto di lavoro”. Non stava nella pelle. Arrivati dinanzi alla fabbrica, sono riuscito ad entrare con il vecchio badge. Scampato il pericolo della sicurezza, salutavo a destra e sinistra, mentre mia figlia era così orgogliosa che conoscessi tutti. In realtà non conoscevo nessuno, li salutavo a caso: da quando lo stabilimento era stato smembrato, molti colleghi erano stati licenziati o trasferiti altrove.

Arrivati sulla catena di montaggio, la piccola ha detto: “Papà, non sapevo che queste belle auto le facessi tu. Guarda quella macchina laggiù, assomiglia a Saetta McQueen di Cars!”. Tra le auto nuove di zecca, le raccontavo che da piccolo venivo tutte le sante domeniche sul piazzale della fabbrica. Saltavo la messa e il catechismo, per far correre su e giù la mia automobilina telecomandata. Da grande volevo fare il meccanico e lavorare in quello stabilimento. Tra un racconto e un altro, siamo finiti nella mensa.
Sono riuscito a rimediare un piccolo sacchetto con panini, frutta e una cucchiaiata di Nutella, spiegandole che avremmo fatto uno spuntino proprio come noi al ritorno dal turno di notte.
Quando abbiamo lasciato lo stabilimento, mi ha regalato un disegno. C’ero io e una buffa auto rossa con una scritta: “Sei forte, Papà. Se proprio il mio eroe”. Mi ha chiesto di portarlo con me tutti giorni a lavoro.

Domani farò finta di tornare in quella fabbrica, come una volta. Il suo disegno mi aiuterà a non sentirmi “un buono a nulla”. In quello stabilimento ci sono ancora i miei sogni. Ne avevo lasciato uno appeso all’insegna “Benvenuti a Pomigliano D’Arco”:  quello che mia figlia fosse fiera di me.

La Fiat di Pomigliano, la classe operaia non va in Paradiso

Pomigliano vota e Torino risponde. Va ancora avanti il tira e molla sulle sorti dello stabilimento Fiat. Non ci voleva il pugno di ferro dell’Imperatore Marchionne per ribadire l’amara massima che un cinefilo può rubare dalla filmografia di Elio Petri: “La classe operaia non va in Paradiso”. Tramontata l’illusione operaia del rampantismo degli anni ’80, ora ci sono i figli di quella categoria a pagare le colpe degli assenteisti e degli sfaticati, di coloro che abusavano del fasullo benessere di allora. Si davano ammalati, svolgevano la seconda attività in nero per arrotondare e nei fine settimana fuggivano in Calabria, a Scalea, dove avevano realizzato il sogno del “borghese piccolo piccolo”: avere la casa a mare. In spiaggia, spaparanzati al sole, speravano di annientare la tortura della catena di montaggio, ascoltando i figli cantare in coro “Sei forte, papà”, come se la stupidotta canzoncina di Morandi del ’76 potesse lenire il dolore, la fatica. Per un beffardo gioco degli dei, i figli di quella classe operaia sono condannati a pagare il ricatto della globalizzazione. Pomigliano d’Arco, da piccolo paesotto di provincia che era, a partire dal 1972 ha vissuto l’illusione ottica di diventare un piccolo centro metropolitano, come se poi quel mucchietto di dirigenti torinesi sbarcati allo stabilimento Gianbattista Vico avesse avuto la bacchetta magica per darle le sembianze di una piccola colonia nordista.
Tra la fine degli anni di Piombo e la prima metà degli anni ottanta Pomigliano d’Arco è stata aggredita dal boom edilizio che ha fatto balzare alle stelle i prezzi degli immobili, dallo snobbismo della jeunesse locale che aveva trasformato un trafficato incrocio nel punto di ritrovo, dal via vai del laboratorio pasticceria Antignani che addolciva le festicciole casarecce della middle-class. E tutti si sono illusi che ad incrementare l’attività commerciale delle vetrine pacchiane del centro, pardon radical-chic, fossero i businessmen dei piani alti. Non era così, erano gli operai  e le loro famiglie a far girare l’economia locale. Ce ne siamo accorti accorti sì o no? 
I Sindacati sono spariti. Nella belle époque degli sprechi facevano finta di non vedere, oggi parlano “il politichese” perchè poggiare il culetto su uno scranno in Parlamento è più salottiero.  Nelle sorti di questo stabilimento c’è in gioco il destino di un’intera comunità e il compromesso non può superare la logica della dignità.