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Archives Giugno 2012

Italia-Germania 30 anni dopo: Mario Balotelli e il riscatto dell’Africa nella vittoria azzurra

La partita Italia-Germania di ieri sera sarà ricordata come il match del riscatto: da una parte la generazione over 40 che voleva l’attacco nostalgico dei Mondiali di Spagna dell’82; dall’altra la generazione degli over 20, pronta a dare una bella lezione alla Germania della Merkel, che tiene in pugno l’amaro destino della nostra economia.

Eppure il vero riscatto sta nei due goal di Mario Balotelli, l’italiano adottato, figlio di immigrati ghanesi. Trent’anni fa il nazionalismo del Belpaese era tutto lì, nei tiri di Paolo Rossi. Oggi nel 2012 tra le fila della nostra Nazionale c’è un ragazzotto della pelle nera, che è un italiano vero.
Qualche anno fa, in un giro notturno a Brescia, mi ritrovai in mezzo ad una comunità di giovani ghanesi. Pensavo tra me e me agli scherzi bizzarri che fa la storia: una delle città più razziste nei confronti dei meridionali era completamente abitata dagli stranieri. Del resto, basta poco per vomitare la nostra anima razzista, fare di tutta un’erba un fascio.

L’abbraccio di Mario alla mamma Silvia, dopo il passaggio degli azzurri alla finale degli Europei 2012, fotografa una paginetta da romanzo d’appendice, che avrebbe fatto gola a Charles Dickens e agli scrittori vittoriani simili: il bimbo africano abbandonato in un ospedale e affidato ad una coppia di italiani che lo alleva, lo circonda d’amore e gli ricorda che nella vita basta restare se stessi per essere campioni.

Sono tornate tutta una serie di coincidenze, proprio lì nella Varsavia – una delle capitali europee che hanno segnato i miei vagabondaggi – che affila la lama nel laccio che unisce l’Europa dell’Est a quella dell’Ovest. Nell’ultimo giovedì di giugno, in quello stadio, il Belpaese ha ritrovato la sua anima di paese meticcio, riconoscendo all’Africa, che scorre nel sangue di Mario Balotelli, tutto il merito di questa vittoria. E sarebbe bello che a Brescia, ad aspettare Super Mario, si ritrovassero in festa abbracciati bresciani e ghanesi: saremmo tutti più italiani.

  Orgoglio d’Italia

C’entra la Parrocchia di Paperino con la morte del piccolo Franco?

Maledetto inizio d’estate con i suoi sbalzi d’umore meteo. Se non fosse stato per il caldo minaccioso, forse il piccolo Franco non avrebbe perso la vita. Dopo tutto cosa c’era da stare in pensiero? Una delle tante gite parrocchiali lì sul monte Calvana, a pochi passi da Prato.
Eppure è accaduto e adesso tocca alla Parrocchia di Paperino rispondere. In Italia ci sono migliaia di operatori “volontari” che dedicano il proprio tempo alle attività parrocchiali, agevolando l’integrazione di tanti ragazzini che resterebbero ai margini. Questo non è il caso di Franco, 11 anni, morto per un arresto cardiaco.

I partecipanti all’escursione, in cui c’è scappato il morto, dicono di aver camminato tanto, sotto il sole. Adesso è inutile peccare di pressapochismo puntando il dito contro il parroco o gli accompagnatori, però neanche possiamo cavarcela – come farebbe qualche penna della stampa cattolica – invocando una preghiera per la vittima innocente. Se fosse accaduto in una scuola avremmo chiesto giustizia. Cosa si fa in questo caso? Omicidio colposo, sì o no?

Ripartiamo da un punto: organizzare una gita fuori porta non è l’attività più banale di questo mondo. Dovrebbero esserci delle precauzioni logiche, come essere sicuri che i partecipanti non abbiamo particolari patologie. Per questa o altre faccende non è la suorina di turno che se ne deve preoccupare.
Gli errori grossolani si commettono anche nel corso di un’escursione: la primavera scorsa mi è capitato di vedere un gruppo di scolaretti camminare sul ciglio di una provinciale come se fossero in spiaggia così come tempo prima un gruppetto di boy scout sull’orlo di un precipizio, senza destare l’attenzione degli accompagnatori.

Parrocchia o non parrocchia, bisogna seguire un percorso affinchè una bella giornata non diventi una tragedia dolorosa. La Diocesi di Prato faccia una riflessione in materia di prevenzione e sicurezza assieme a tutte le Diocesi d’Italia. Chi ha sbagliato si assuma le responsabilità, perché il piccolo Franco non tornerà più tra le braccia di mamma e papà. Per una volta mettiamo da parte preghiere, rimpianti o rimorsi.

  Gita Tragica in Calvana

Modifica i commenti di Facebook: La matita dell’illusione ottica

E’ inutile girarci intorno. Le timeline di Facebook sono diventate per la maggior parte di noi il riflesso della vita. E non solo perché ci sono lapilli cronologici della quotidianità, ma perché il fazzoletto dell’imbarcazione del social network più famoso del pianeta è anche il nostro sfogatoio. Nonostante le resistenze emotive, zac che ci scappa il commento di troppo e lasciamo traccia dello stato d’animo corrente.

Mentre gli update non possono essere modificati – se piangete sul latte versato dovete solo procedere all’eliminazione – i commenti di lunghe e lunghe conversazioni posso cambiare. E così quelle piccole storie da bacheca – ironiche, strappalacrime, smielose, fate voi – da adesso posso ritrovarsi con nuove tonalità di colore. Insomma, facendo un viaggio indietro sulla vostra linea del tempo, troverete sul box del vostro commento una matitina: basta un clic, modificate e il gioco è fatto.

Dal quartier generale Zuckerberg e compagni ci (s)vendono la nuova funzionalità come la grande opportunità per lasciarci alle spalle figuracce imbarazzanti e nascondere sotto terra strafalcioni grammaticali. Il popolo di Facebook è più strafottente – il commento sgrammaticato ha più appeal secondo il breviario social – e quindi potrebbe utilizzare la “matita magica” per modificare riflessioni, pensieri, rinnegando addirittura ciò che è stato.

Attenzione però, Facebook i “rinnegati” non li perdona: resterà per sempre traccia della cronologia delle modifiche. Insomma, sarà un po’ come nella vita reale: modificare resta soltanto un’illusione ottica.

Sul finto posto di lavoro: L’ultima favola di Pomigliano D’Arco

1maggio

Rosario PipoloI compagni di classe di mia figlia sono andati a visitare il posto di lavoro dei genitori. E’ una bella iniziativa, quando io ero piccolo non si usava. La prima volta che misi piede nello sgabuzzino dove lavorava mio padre, lo feci clandestinamente. Appena lo vidi appeso ad un palo della luce, andavo dicendo a tutti che fosse un eroe, faceva il trapezista. Per quanto riguarda mamma, che errore imperdonabile avevo commesso. Mi lamentavo di non aver mai visto il suo posto di lavoro. E pensare che io ci stavo tutto il giorno lì, perché mamma era una casalinga, lavorava h24 e nessuno le riconosceva la reperibilità o gli straordinari.

Insomma, questa volta a mia figlia non ho potuto dire di no. Gli stessi insegnanti mi hanno rimproverato, perché era un’azione educativa. Capisco, chi ha perso il lavoro come me, cosa si inventa? Ho 39 anni. Nessuno lo sa che sono disoccupato da due anni, neanche mia moglie da cui mi sono separato di recente. Lei la mattina si alza comodamente per andare in ufficio e io non volevo che mia figlia pensasse a suo padre come un poco di buono!
Ho tirato fuori tuta dall’armadio e ho detto alla bambina: “Oggi niente scuola, papà ti porta a vedere il suo posto di lavoro”. Non stava nella pelle. Arrivati dinanzi alla fabbrica, sono riuscito ad entrare con il vecchio badge. Scampato il pericolo della sicurezza, salutavo a destra e sinistra, mentre mia figlia era così orgogliosa che conoscessi tutti. In realtà non conoscevo nessuno, li salutavo a caso: da quando lo stabilimento era stato smembrato, molti colleghi erano stati licenziati o trasferiti altrove.

Arrivati sulla catena di montaggio, la piccola ha detto: “Papà, non sapevo che queste belle auto le facessi tu. Guarda quella macchina laggiù, assomiglia a Saetta McQueen di Cars!”. Tra le auto nuove di zecca, le raccontavo che da piccolo venivo tutte le sante domeniche sul piazzale della fabbrica. Saltavo la messa e il catechismo, per far correre su e giù la mia automobilina telecomandata. Da grande volevo fare il meccanico e lavorare in quello stabilimento. Tra un racconto e un altro, siamo finiti nella mensa.
Sono riuscito a rimediare un piccolo sacchetto con panini, frutta e una cucchiaiata di Nutella, spiegandole che avremmo fatto uno spuntino proprio come noi al ritorno dal turno di notte.
Quando abbiamo lasciato lo stabilimento, mi ha regalato un disegno. C’ero io e una buffa auto rossa con una scritta: “Sei forte, Papà. Se proprio il mio eroe”. Mi ha chiesto di portarlo con me tutti giorni a lavoro.

Domani farò finta di tornare in quella fabbrica, come una volta. Il suo disegno mi aiuterà a non sentirmi “un buono a nulla”. In quello stabilimento ci sono ancora i miei sogni. Ne avevo lasciato uno appeso all’insegna “Benvenuti a Pomigliano D’Arco”:  quello che mia figlia fosse fiera di me.

Vent’anni fa la mia “notte prima degli esami”: La maturità arriverà…

Fu vent’anni fa. Come se oggi si trattasse di chissà quale anniversario o ricorrenza speciale. Sì, vent’anni fa la mia maturità, che alla fine mi giocai in quella “Notte prima degli esami”. Lo cantava Antonella Venditti nella canzone che ci ha attraversati, chi più o chi meno, tatuando sulla pelle la svolta di una generazione.

Eppure rivedendo le facce sgomente dei miei compagni di classe – io passavo per lo strafottente di turno – sorrido al pensiero della convinzione che circolava: la commissione ci aveva in pugno, come se il nostro destino si fosse impigliato tra spasimi nozionistici, versioni di latino andate a male, temi scopiazzati. La sera prima degli scritti, a cavallo di una Vespa rossa PK 50Xl, mi sentivo come John Wayne in un vecchio Western.
Nella cartucciera non avevo piombo a sufficienza da spiattellare in faccia al nemico, bensì temi d’italiano in miniatura che erano passati per tante altre mani. Sarebbe bastato l’inchiostro di una biro, lo stesso che avrei sparso anni dopo per scrivere i primi articoli, per affrontare gli esami. In quell’inchiostro erano diluiti i sogni e le passioni, che avrei difeso anche fuori dalle mura di quel liceo di periferia.

Torno a ripeterlo la partita me la giocai nella “Notte prima degli esami”, nelle ore intessute di magia che segnarono il mio destino: restare un maturando a vita. Infatti, fu proprio questo stato di sospensione emotiva a convincermi anni dopo che io gli esami di maturità non li avevo sostenuti, che quel diploma non mi apparteneva. Piuttosto sarebbero stati parte di me i compagni di classe, ad uno ad uno; i professori che avevano mandato al diavolo il nozionismo per ricostruire un amarcord del pensiero; le mura imbrattate di quel liceo su cui avevamo scarabocchiato la voglia di continuare ad esistere.

Vent’anni fa come se oggi si trattasse di chissà quale anniversario o ricorrenza speciale. Sì, una ricorrenza speciale, perché gli esami di maturità devo sostenerli ancora. Chi non svuota mai la biro di sogni e passioni, avrà tante altre “notti prima degli esami” da affrontare. Nel 1992 guardavo il Monte Somma dalla finestra e mi chiedevo cosa ci fosse al di là. Oggi ho la pianura sterminata di fronte e non mi interrogo più su cosa ci sia al di là dell’orizzonte della mia esistenza, perché è tutto sospeso qui, nella magia della “notte degli esami che non sono arrivati ancora”.

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Cartolina dal Sud: Alla mia prof per i suoi 50 anni

L’ho vista scarabocchiare in una piccola stanza di un paese di periferia. La mamma accompagnò la sua mano e così quei buffi segni diventarono una “B” gigante, iniziale del suo nome.
L’ho vista mano nella mano con il papà mentre si chiudeva il passaggio a livello. E lui le disse: “La vedi questa piccola stazione? Non è mia, è di tutti. Ricordati sempre di lottare per ciò che è di tutti”. E poi fischiò e quel treno partì con lo sguardo rivolto verso il Vesuvio.
L’ho vista che si prendeva cura dei due fratelli. Quel giorno ci fu un temporale. Loro si spaventarono. Lei afferrò lo scialle della nonna e li avvolse come se fosse stata una giornata di sole.
Mentre Renato Zero cantava lo splendore delle emozioni, l’ho vista raggomitolata tra i sogni di una liceale e il peso di quei dizionari, riflettendo sulle radici e sulla memoria che sprofondavano fino all’alba di civiltà lontane.

L’ho vista sgomenta, nel mezzo degli anni ’70, mentre alle falde del Vulcano il Professore assassino spargeva sangue ovunque, senza sapere che “le idee sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo”.
L’ho vista in quella manifestazione in cui distribuivano tra uomini e donne garofani rossi. In quel fiore c’era il sogno di un mondo migliore, più giusto. Lei ne impugnò uno e, alzandolo al cielo, si ricordò delle parole di suo padre: “Difendi i più deboli, anche se resterai da sola”.
L’ho vista spaesata correre per il Rettifilo a Napoli, sulla strada verso l’Università, ma così determinata a trasformare lo studio in passione, nel riscatto della volgarità umana.

L’ho vista correre giù per le scale appena lui le fece un fischio. La portò a fare una passeggiata a San Marzano e le offri un’aranciata. Poi staccò il cerchietto della lattina e glielo infilò al dito. Le diede un bacio e le sussurrò: “Vedrai un giorno diventerò ingegnere e disegnerò io stesso la casa in cui vivremo con la nostra famiglia”.
L’ho vista in cattedra in quel liceo a difendere la Scuola Pubblica e a consegnare la dignità ad ogni studente. Dietro uno di quei banchi c’ero anche io.

Ho trovato un dono nel fazzoletto di questa terra, il mio Sud: la mia professoressa di Greco e Latino che è scesa dalla cattedra e per vent’anni ha custodito, senza giudicarlo, un suo alunno, forse il peggiore, quello segnato da un “5” in Greco nel primo quadrimestre a ridosso della Maturità. Man mano che si cresce non c’è più nessuno che si preoccupa per te. Lei per vent’anni si è preoccupata di me, ovunque io fossi, in qualsiasi angolo della terra. Mi ha lasciato un grande insegnamento: non avere mai paura di ammettere di amare, perché solo l’amore rende gli uomini liberi dalle brutture della vita e li allontana dalle vigliaccherie.  Prima di ripartire, mi ha lasciato l’ennesimo dono: “Noi qui siamo sempre gli stessi. Torno quando vuoi. Va’ e non accontentarti”.

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Perchè una gran bella storia d’amore non finisce mai

In un tempo in cui si corre alla velocità della luce, vivendo sotto lo schiaffo della scadenza e dei corsi di aggiornamento, ci ostiniamo a trovare la ricetta della felicità. La coppia spesso ne è vittima inconsapevole perchè dopotutto anche una bella storia d’amore dovrebbe essere regolamentata.
Io non ho mai creduto nei percorsi indicati e guidati che dovrebbero preparare due innamorati ad una vita insieme. Ci sono coppie e coppie, legami e legami, ma non sempre si ha il privilegio di vivere una gran bella storia d’amore. C’è quella componente istintiva e irrazionale – a cui poi additiamo la fine di tutto – che consegna due innamorati nelle mani del divenire.

Tuttavia, quando finalmente si intromette la componente razionale, sbarchiamo sul lunario della disciplina emotiva e stiliamo un bel discorso per la fine di tutto. Le parole, cucite con la lucidità della razionalità, filano pure bene e sembrano una liberazione. Invece non è per niente vero. L’illusione che sia già tutto passato, ricordo, nostalgia è breve, perchè l’eternità del tempo presente abbatte ogni convinzione. La stessa convinzione, imbastita dall’orgoglio, che ci ha sottratti al batticuore di un mazzo di rose o allo stupore del ritrovarci accanto l’altro, pensando che tutto fosse scontato.

Una coppia che si è messa alla ricerca della felicità può decidere la fine di tutto, ma due innamorati che la felicità ce l’avevano accanto non possono scegliere. Il divenire, forse con qualche stonatura fiabesca, sigilla il tempo nell’eterno presente: è l’inspiegabile consistenza dei sentimenti.

Per questo il vero controsenso è diventare prigionieri di nostalgia, facendo un domani finta di niente tra rimorsi o rimpianti. La ricetta della felicità non esiste, ma in una gran bella storia d’amore arriva sempre l’inspiegabile voglia di mettersi su una nave, un treno, in auto o su una mongolfiera per raggiungere l’altro. E non per ricominciare, ma per continuare proprio come nel finale della tragicommedia domestica di Eduardo De Filippo “Sabato, domenica e lunedì”. Il futuro è tutto lì, nella battuta finale, nella provocazione della vicina che chiede alla signora Priore se tra lei e il marito fosse tutto finito. E lei dopo la riscoperta: “No, non è finita. È appena cominciata”.

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Sterminio in Siria: Abbiamo bisogno ancora dell’ONU?

Mi manca Lucio Dalla perché scriveva canzoni intelligenti. Quando uscì “Ciao”, pochi si accorsero che dietro quel motivetto c’era l’indifferenza verso un genocidio. E noi “la spiaggia di Riccione, milioni di persone, le pance sotto il sole, il gelato e l’ombrellone” ci abbronzavamo i coglioni senza vedere lo sterminio al di là della cortina di ferro del mar Adriatico.

La distanza geografica che ci separa dalla Siria non giustifica la miopia internazionale, inclusa quella italiana, nonostante il Belpaese sia crocifisso. C’è voluto qualche picco social per farci soffermare sulla strage di Hula, che poco più di una settimana fa ha portato sotto il nostro naso gli orrori del regime di Assad. Uno sterminio senza pietà di civili, intere famiglie, e soprattutto bambini. La filastrocca gira ancora allo stesso modo: indignazione generale, interventi repentini, l’oscuramento delle informazioni e poi torna il silenzio.

Non vorrei rompere le uova nel paniere: l’Onu che cosa ci sta a fare? Non è da statuto un’Organizzazione intergovernativa, portabandiera della fine di violenze e focolai guerrafondai sul nostro pianeta?
In passato sono stati chiusi troppi occhi, senza calcolare i genocidi che potevano essere evitati. Forse è arrivato il momento di mettere in discussione il ruolo delle Nazioni Unite, tenendo conto che non siamo tra le pagine di un fumetto. Gli eroi della Marvel possono solo stare a guardare.

Terremoto in Emilia-Romagna: La sicurezza si paga con il sangue

La prima nozione di geografia appresa alle scuole elementari fu: L’Italia è un paese sismico ed quindi soggetto a terremoti”. Questa pappardella mise la pulce nell’orecchio a tutti gli scolaretti che come me vissero il disastroso sisma dell’Irpinia del 1980. Io fui un bambino fortunato rispetto a tanti coetanei: la mia casa subì soltanto qualche lesione e non ci furono vittime tra i miei familiari.

Vivo in un paese smemorato e di questo ne sono consapevole ogni giorno che passa. Ci piangiamo addosso? All’occorrenza. Non sono bastati i campanelli d’allarme degli ultimi trent’anni – i terremoti in Umbria, Marche, Molise e Abruzzo – a farci prendere coscienza di prevenzione ed intervento.

Nei giorni bui che stanno facendo tremare l’Emilia-Romagna, sarà tornata agli ambientalisti la pappardella fatta inghiottire dalle nostre maestre e continuano a civettare per la messa in sicurezza del suolo italiano. Ci vorranno 15 anni, giusto la metà del tempo che i precedenti governi hanno utilizzato per sperperare soldi e portare avanti opere pubbliche inutili. Senza contare il peso sulle coscienze dei vecchi gendarmi della Prima Repubblica, che misero i terremotati dell’Irpinia per vent’anni tra le mura impietose di una baraccopoli, mentre loro se la spassavano in ville lussuose.

Infine, però lasciamoci con un appunto in merito a “la sicurezza”: il buio era già oltre la siepe quando gli operai sono tornati sul posto di lavoro e hanno trovato la morte. Non era stato fatto alcun controllo sull’agibilità delle strutture dove erano in corso attività produttive. E non raccontiamoci frottole: chi è tornato a lavoro lo ha fatto per scacciare il terrore di restare disoccupato ancora una volta ed essere vittima dell’ennesimo ricatto sociale.
Sembra azzeccata la riflessione di John Lennon: “Lavoro è vita. E senza quello esiste solo paura ed insicurezza”. E questa volta per aiutare i terremotati dell’Emilia-Romagna non basterà un sms da 2 euro o acquistare una forma di Parmigiano che stava andando a male. Gli aquilani ne sanno qualcosa.