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Vincenzo e l’ultima ricetta del medico della mutua

Il medico della mutua dalle mie parti era destinato a diventare un amico di famiglia. Mica è come al di là del Po che ti danno l’orario, giusto il tempo di visitarti con la ricetta alla mano e poi chi si è visto si è visto? Bisogna ottimizzare i tempi mi ripetono continuamente. Dal mio medico al Sud d’Italia c’era sempre coda: diciamoci la verità, ci scappava pure uno scambio di opinioni e questo rendeva più “umano” il rapporto tra l’eloquenza della medicina e i pazienti fifoni come il sottoscritto. Il dottor Vincenzo Bianco è entrato nella mia vita nei giorni caldi della mia adolescenza. In un certo senso ha seguito buona parte delle mie bravate finché, in una mattina di otto anni fa, lo hanno depennato dalla scheda sanitaria e me ne hanno assegnato uno dove abito adesso.
Nessuno lo ha mai cancellato, perché per mia fortuna non assomigliava né al Guido Tersilli di Alberto Sordi né al Nick Riviera dei Simpson. Lo rivedo passare a casa mia nel primo pomeriggio, per la visita domiciliare,  nel suo cappotto marrone e l’inseparabile borsa, senza essersi ancora ritirato o aver pranzato, già pronto per correre allo studio. Io tra me e me mi dicevo: “Come mai un medico così scrupoloso, preciso e appassionato non fa una bella scalata ai piani più alti della Sanità?”. Una persona onesta come Vincenzo non ce la vedevo proprio a fare il Tarzan nella giungla della mala Sanità locale, tra le grinfie dei feudatari potenti della vecchia Balena Bianca, nelle cui mani era deposto il destino tra salti di poltrone, trasferimenti e compagnia bella. Sbarcando nel suo studio, lo trovavo lì alla scrivania, con quell’umiltà e timidezza nascosta dietro gli occhiali. Mi rammentava Charles Bovary, il personaggio di Flaubert che però di professione faceva il veterinario. Vincenzo era uno che difendeva le strutture pubbliche, perché nel cuore era in prima linea al fianco del paziente, con le dovute distanze da chi si era tuffato a capofitto nel feroce business dello “studio privato”.
Tra qualche giorno Vincenzo lascia i pazienti per intraprendere una nuova sfida professionale. Ogni tanto, nel nostro bizzarro Paese, i riconoscimenti arrivano pure a chi fa il proprio lavoro con coerenza e determinazione senza troppi rumori.  Mi piacerebbe che dedicasse “l’ultima ricetta” ai genitori, alla moglie e ai figli, perchè un figlio, un marito o un papà “col camice bianco” è una grande gioia dopo una vita spesa a favore della comunità. E anche per un paziente “anarchico” come il sottoscritto che, mescolati ai ricordi furfanti della provincia, si è portato via l’ultima polaroid di quel medico della mutua del Sud Italia. E forse in quell’ultima ricetta ci sarà anche un po’ di me.

Lo gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta

Qualche settimana fa mi sono fermato a Sabbioneta per seguire the Lonely Planet Bike Party. Ho riscoperto il piacere di godermi quell’Italia casareccia fatta dai posti invisibili che non metteresti mai nei tuoi programmi vacanzieri. Internet e il turismo globale ci stanno abituando a l’idea che l’intensità di un viaggio si basi su i chilometri percorsi. Dovremmo tornare seriamente a pensare al contrario: agli itinerari non troppo lontani da casa, che ti fanno decidere di partire all’ultimo momento, lasciandoti al tuo ritorno una bella cartolina del Belpaese caciarone e sincero.
A Sabbioneta, deliziosa località a ridosso tra il mantonavo e il cremonese, ho scovato un personaggio che sembra uscito dal film Amarcord di Federico Fellini. Ciano – così lo conoscono tutti in paese – gestisce il delizioso bar Ducale all’angolo di piazza d’Armi. Lui sì che ti convince a sostare su i gusti tipici del posto: gnocco fritto e spalla cotta e chi si è visto si è visto. Alla faccia dei secessionisti che tentano invano di spaccare l’Italia, qui la posizione di Graziano Contesini (così è registrato  Ciano all’ufficio anagrafe) lo gnocco fritto è autentica perché per lui la vera regina è la pizza fritta. E così lungo tutto una sorsata di Lambrusco, l’accostamento con il calzone fritto napoletano è autentico e ci sta.
E cosa ci fa quel dipinto della Beata Vergine di Pompei all’entrata del bar? Un’icona in bilico tra religiosità popolare e folclore sta ad indicarci che Ciano è un “terrone” finito per sbaglio al di sotto del Po? A tutto c’è una spiegazione, anche quando il Sud fa il ficcanaso nel Nord Italia: “Mia madre restò viva per miracolo dopo il crollo di una casa – mi spiega Ciano – Attraverso una trave vide quell’icona religiosa che non conosceva. Chiamò un pittore e la face dipingere in segno di devozione”. Che strana coincidenza, era la stessa immagine che ritrovai stropicciata nel mio jeans nel 1994. Quello doveva essere il mio ultimo viaggio: colpo di sonno, auto fuori strada, vivo per miracolo. Per fortuna, non è stato così e sono ancora qui a scrivere. Qualche volta i viaggi brevi possono essere altruisti. Il Lambrusco mi ha stordito, lo gnocco fritto mi fa fatto leccare le dita, ma la bonarietà di Ciano mi ha accompagnato per tutta la strada del ritorno con una colonna sonora. Quella grezza e provinciale di Ivan Graziani, con l’immagine di Agnese, che da una vaporosa canzone è finita sulle mie ginocchia.

Paradiso di Stelle, un gelato sulla Route 66 del Sud Italia

Quella sera mi sono ritrovato con l’ultimo paio di dollari in tasca. Ero sulla Route 66 e l’autista del bus della Greyhound diretto in Arizona ci aveva concesso una breve pausa. Entrai in questo posto, afferrai un bicchierone di Coca-Cola e Louise, la ragazza di colore che mandava avanti la baracca, mi raccontò un pezzetto della sua vita. Prima di andar via mi lasciò un sacchetto con un paio di Donuts come a dire “il viaggio è lungo”. Entrando a Paradiso di Stelle, ho ritrovato la stessa atmosfera di quella sera americana. Non se ne sono accorte né Amalia e né Elisabetta, che dal 1996 gestiscono questa deliziosa gelateria-cornetteria, né Carmen, la ragazza che mi ha preparato una crêpe al cioccolato davvero intrigante. Carmen come Louise parla l’inglese fluentemente e ha detto basta alla solita aria ammuffita di provincia quando se n’è andata a vivere a Londra per cinque anni. Mentre guardavo i forni a forma di juke-box , mi sono detto: se Paradiso di Stelle fosse rimasto un franchising – sono ancora sparsi tra Rimini, Bologna e Messina – sarebbe una location anonima. Amalia ed Elisabetta le hanno dato una fisionomia e non può essere soltanto questione di gusti e ricordi. Se Marcel Proust si intromette tra un cornetto alla Nutella e un gelato al pistacchio, allora sì che sono guai. Forse guai per me: all’uscita non ho trovato la Route 66, ma il ricordo di Ada e di quella volta che l’ho vista sparire nel buio, raggiante come una stella cometa, ma nessuno se n’è mai accorto. Forse neanche io che mi nascondevo dietro Charlie Brown, aspettando che la “ragazza dai capelli rossi” capisse di che pasta fossi fatto davvero. La mia crêpe al cioccolato era finita e fuori avevo ritrovato la strada giusta per tornare a casa, casa mia. E questa volta a sparire nel buio sono stato io.