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La rabbia di Scampia per Ciro Esposito, il tifoso ucciso dalla coppa della vergogna

Rosario PipoloLa lettera di Blatter, il numero uno della Fifa che si è scomodato per scrivere alla famiglia di Ciro Esposito, mi lascia indifferente. Provocano in me tanta rabbia i sermoni degli uomini delle istituzioni: si lavano la coscienza salutando come eroe dei nostri tempi il povero tifoso napoletano, ferito a morte prima dell’incontro della finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli.

Fa bene il Presidente del Napoli De Laurentiis a presentarsi ai funerali a “mani vuote”, senza quella “coppa della verogna”, che la società non ha avuto il coraggio di restituire alla fine della partita. Lacrime, rabbia, dolore, Nino D’Angelo che canta “Il ragazzo della Curva B”, striscioni, icone, fotografie giganti. E adesso cosa succederà? Quanto tempo passerà prima che dimenticheremo tutto?

Questa è l’Italia, il Paese in cui vivo. Tutti eravamo preoccupati a lanciare pietre ai Balotelli, ai Prandelli e agli Azzurri schiaffeggiati ai Mondiali in Brasile, dimenticando che questa “Seconda Repubblica” sul viale del tramonto non ha una legge che regolamenta gli stadi. Dopo lo scempio a Roma, in un Paese civile e democratico, sarebbero saltate teste ovunque. Facciamo a scarica barile perché nel DNA del Belpaese vige “l’immunità taciuta” per i vertici di qualsiasi piramide.

Ciro Esposito era andato a Roma per godersi una partita di calcio e non è tornato più. Noi ci siamo ancora per farci sentire dentro e fuori gli stadi con il megafono. Di tutta questa porcheria non ne possiamo più, perché il tifo è tutt’altro. Ciro ci ha rimesso la pelle, noi ci abbiamo rimesso la dignità, il calcio ha avuto la sua meritata sconfitta. Su uno striscione dovremmo appendere un pensiero saggio di Trapattoni: “Il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticata una cosa: che è gonfio d’aria”.

Ci mancherà Enzo Bearzot e l’Italia che faceva squadra

Prima ancora che il calcio fosse annebbiato dalla tangentopoli dei pallonari, c’era la compostezza di Enzo Bearzot. Prima ancora che gli stadi fossero affollati da grezzi sbruffoni, c’era lo stile di Enzo Bearzot. Prima ancora che le rincorse emotive dietro un pallone si riducessero ad una ingordigia di violenza, c’era la sportività di Enzo Bearzot.
Come calciatore se lo ricordano in pochi, quei quattro gatti legati alle cronache sportive in bianco e nero del Belpaese del secolo scorso. Come Commissario Tecnico se lo ricordano in tanti, perché nel 1982 ci fece sognare ai Mondiali di Spagna con la Nazionale Italiana Campione del Mondo. In quell’occasione ci sentimmo eroi invincibili per più di una stagione, perché è vero quando si dice che tra gli spalti di uno stadio si assiepa lo specchio sociale. Quest’Italia di oggi, furbetta e cinica, è figlia di un’Italia che tentava di rifarsi la faccia attraverso il sorriso sornione del partigiano romantico, il Presidente tifoso Sandro Pertini. Questione di stile, in politica come nel calcio?
Allora Bearzot c’entra con Pertini. C’entra perché fu testardo a credere nei nuovi campioni – i Tardelli, i Rossi, gli Zoff, i Cabrini – non attraverso l’edonismo degli allenatori globalizzati, bensì nel vero gioco di squadra che si fa bilanciando il tatticismo della testa con la passione del cuore. Quello di Vecio era un altro calcio, quello dello stare assieme. Enzo Bearzot ci mancherà perché oggi ognuno vuole vincere da solo, ad ogni costo. Lui ci ha dimostrato che, nel gioco come la vita, lo scintillio di una vittoria condivisa vale più di qualsiasi altra gloria subordinata al becero individualismo.