C’era una volta in America in 32 giorni di viaggio senza tralasciare una storia che pochi conoscono. Lo scorso dicembre stavo per realizzare il sogno di Luisa, mia moglie, di trascorrere Natale a New York. Era tutto pronto, un mese prima mi sono accorto che l’ESTA non era valido. Cuba, da cui ero appena rientrato, era stata inserita dagli USA nella lista dei Paesi “sponsor del terrorismo”. Ho smosso mari e monti ma non c’è stato modo di anticipare il colloquio in Consolato a Milano. A grande sorpresa, dopo lamentele e disappunti, hanno esteso il mio Visto da uno a dieci anni.
Una medaglia al valore che, nei giorni in cui New York è stata stordita da una tempesta glaciale, mi ha spinto a riorganizzare il viaggio da Sud a Nord lungo la East Cost americana. Mentre gli altri brindavano al Nuovo Anno e i nostri bagagli erano in un angolo, il sottoscritto azionava i superpoteri da re del lowcost. “Donna di poca fede – le dissi a suo tempo – ho preso con una delle compagnie aeree top in altissima stagione andata su Miami e ritorno da Chicago a meno di 600 euro. E ci sono anche i tuoi amati bagagli da 23 chili. L’America non sarà più di due settimane in una città ma di 32 giorni da girovaga.”
Sette mesi dopo, nel giorno del mio 50 compleanno, come in un racconto di Henry James, Luisa ha cambiato le carte in tavole con i suoi risparmi: “Doveva essere la mia prima volta in America ma è anche la tua. Ci torni per la quinta volta e il biglietto aereo del tuo primo viaggio dei 50 voglio sia il mio regalo.”
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA
Trentadue giorni incredibili lontani dai viaggi confezionati o da catalogo. C’era una volta in America di decenni e decenni di ritorni vissuti, che volevo presentare a mia moglie, lontano dal cliché di Paese guerrafondaia o landa del cibo spazzatura. I miei Stati Uniti, attraversati in oltre 30 anni di viaggi, restano quelli dei versi di Dylan Thomas, le pagine di Kerouac, Bukowski e Hemingway tradotti sulle orme di Nanda Pivano intervistata su un divanetto milanese. E poi ancora il cinema di Chaplin, Scorsese e Allen, l’arte di Warhol, le provocazioni di John & Yoko, il rock di Springsteen, le poesie musicate di Bob Dylan e Lou Reed, il blues di B.B. King. E cosa dire dell’incontro a Chelsea con Susan Sarandon, l’altra metà delle nostre “Thelma & Louise”, o delle saette musicali e antifricchettone di Zappa? Queste ultime le dedico ai radical chic che volevano farmi andare di traverso l’hot dog in cambio di una scodella di riso delle vecchie e moderne dittature asiatiche. Sono come San Tommaso, viaggio per vedere con gli occhi, altrimenti resto a casa e sto zitto.
DA MIAMI A NEW YORK
Il nostro viaggio dalla Florida condivisa con i cubani immigrati fuggiti dalle schifezze dei regimi di Fidel e Raul Castro, all’affacciata sul balcone di Hemingway a Key West, punta estrema degli USA con lo sguardo rivolto al mare dei Caraibi. Dalla Miami speciale nel giorno dell’onomastico di Mimmo, un nostro caro amico, al terzo rientro a New York (mio padre sacrificò due stipendi da operaio per mandarmi la prima volta nel ’92). Senza l’effimera sapienza dei gruppi facebookiani, il faretto per mia moglie è stato il mio vissuto nella Grande Mela, della Statua della Libertà, di Ellis Island e del museo degli immigrati, della nuova amicizia con Vincenzo, emigrato con la famiglia a Brooklyn negli anni ‘60 da Pomigliano d’Arco, orgoglio di essere un italiano in America attraverso una vita fatta di sacrifici, onestà, lavoro e amore per la famiglia.
E quando a sorpresa ce lo siamo trovati all’aeroporto di JFK è come se mio padre da lassù lo avesse telefonato: “Vince’ mi nasconderò dietro di te, sarò la tua ombra, così gli sembrerà che sono tornato a prenderlo in aeroporto.”
GLI USA TRA VITA QUOTIDIANA E AMARCORD
Luisa, distante dalla goliardia degli odiosi “viaggi instagrammati”, si è ritrovata a cominciare le giornate newyorchesi in una stanza di Queens, a sorridere al nuovo vicinato multietnico, a passeggiare nella Brooklyn periferica di Bay Ridge assieme a Tony Manero di “La Febbre del Sabato sera”. E poi a girare tra le giostre poetiche di Coney Island e non nelle disneyane costose e affollate di Orlando, ammutolita nel silenzio di Ground Zero dopo averle anticipato che la mia New York del ‘92 non sarebbe più tornata indietro.
L’emozione di vedere Luisa, la ragazza di periferia di cui mi sono innamorato tredici anni fa, nel Village a New York nello stesso punto dello scatto della copertina di un disco di Bob Dylan, al tramonto sull’Interstate 41 del Wisconsin o con il gps a cercare i luoghi del film Rocky in un sobborgo malfamato di Philadelphia. Era lei a tifare per i Cubs ad una partita di baseball a Chicago, a passeggiare nel lungo flashback della Milwaukee di Happy Days e Laverne & Shirley, improvvisata criminologa tra le ombre dei gangster e di Al Capone nella Chicago del Proibizionismo, ad un passo dal gigante Buddy Guy in un club di blues dell’Illinois.
L’ALTRA GIAMAICA TRA PERICOLI E DISUGUAGLIANZE
E poi la virata della settimana in Giamaica, ispirata dalle canzoni di Bob Marley e Peter Tosh. Giamaica non è il mare caraibico o il confort dei resort spuntati come funghi negli ultimi decenni, oppio del turismo di massa e dei crocieristi. È la povertà vista nel nostro pellegrinaggio, un’isola stremata, pericolosa e piena di disuguaglianze, che si porta dietro ancora lo sfruttamento e gli scheletri nell’armadio del colonialismo inglese. Indimenticabili emozioni sugli spalti dello stadio di Kingston a condividere con i giamaicani la Festa dell’Indipendenza. Questa parentesi di sette giorni è racchiuso in un palmo di mano, nel gesto di generosità da parte di una famiglia di Ocho Rios: “Signora, non abbia paura. Vi riportiamo a casa. Salga in auto al posto mio, tanto nostro figlio si infila nel cofano, c’è spazio per tutti.”
VIAGGI E RINASCITE
Dopo questi episodi di generosità gratuita, in ogni rinascita e nuova vita che ciascun viaggio mi dona, torna con prepotenza la mia strafottenza verso i legami imposti perché la famiglia e le amicizie si allargano on the road, “sulla strada”.
I viaggi indimenticabili non li fanno un biglietto aereo o l’ansia di prenotare alberghi nel posto giusto ma i viaggiatori che sanno farsi passeggeri del mondo e dell’esistenza.