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Archives Febbraio 2011

L’angelo caduto in volo: Yara non è un cadavere!

Un lunedì qualunque, ma a Napoli. Piove in continuazione, senza sosta e la storia è la solita: non si vede un autobus neanche a pagarlo, perché questa città ha perso il pelo, ma non il vizio mentre gli ex governatori se la godono ai tropici. Va in tilt per pochi schizzi d’acqua. Le prime pagine dei giornali, esposti all’edicola all’angolo di piazza Garibaldi, lacrimano inzuppati d’acqua. Sul quotidiano il Mattino campeggia il titolo che elegge le barbarie umane e ci ricorda che Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa il 26 novembre scorso, adesso è un cadavere. Questo non è un lunedì qualunque, perché fino a sabato scorso, abbiamo sperato che fosse da qualche parte, chissà dove a sognare, a progettare per il futuro che una ragazzina della sua età dovrebbe avere sempre a portata di mano. E l’Italia tutta è stata freddata dalla notizia, nell’ultimo sabato di febbraio che scivola via, egoista e avaro di buone notizie.
No, questa volta non ci stiamo. Non la vogliamo l’ennesima telenovela dell’orrore; non vogliamo sapere il numero di coltellate e giocarceli a lotto come se fosse un numero portafortuna; non vogliamo invadere la privacy della famiglia, rinchiusa nel bunker del dolore. Piuttosto vogliamo sapere perché non abbia fine la mostruosità dell’uomo, perché gli orchi e gli assassini, che sono tornati ad abitare la nostra quotidianità, siano ancora  divi della cronaca nell’uragano mediatico. Per favore, che la giustizia continui ad indagare per scoprire i colpevoli, ma noi vogliamo restarne fuori.
Vorremmo provare a capire cosa sia il dolore per la perdita di un figlio, la caduta che ti compromette tutto il resto della vita, come il travaglio interiore del protagonista del film “La stanza del figlio” di Nanni Moretti; vorremmo provare a capire se una canzone possa farci sperare che Yara abbia messo già le ali per diventare l’angelo della porta accanto; vogliamo capire se la storiella dell’inferno, che le suorine davano in pasto ai bambini monelli, fosse una crudele invenzione di altri tempi, perché i diavoli e gli inferi sono qui, sotto i nostri piedi.
No, non ci stiamo. Se dobbiamo coabitare con l’orrore, allora è legittimo vergognarci di appartenere alla razza umana e invidiare i nostri amici a quattro zampe che erroneamente vengono chiamati bestie. A Napoli continua a piovere, senza sosta, e chissà quante ragazzine come Yara in questo preciso istante stanno subendo un oltraggio, una violenza, mentre la comunità fa finta di niente nel guscio dell’omertà.
Allora stasera rincasando, soprattutto se siamo genitori, porgiamo l’orecchio ad un invito di Giovanni XXIII: “Cari figlioli, tornando a casa, troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini”. Facciamolo, e non perché resti soltanto un gesto d’amore, ma perché dobbiamo proteggerli a qualsiasi costo, senza compromessi. Sono loro a restituire dignità al miserabile mondo degli adulti.

Chiamami ancora amore: Caro Prof. Vecchioni, ti scrivo…

Oggi non ho voglia di scrivere, non mi va. Ho piuttosto voglia di scriverti perché, quando sono partito per Milano otto anni fa, avevo in valigia una tua canzone: Sogna, ragazzo, sogna. In quelle rare occasioni in cui ci siamo incrociati, continuavo a ripeterti che al liceo sognavo di avere un professore come te. In fondo è come se tu lo fossi stato, perché attraverso i tuoi dischi ho imparato a guardare il mondo diversamente, facendo sempre intromettere il cuore nel cervello. A volte mischiare i sentimenti col pensiero non è un’idea così malvagia.
Quest’anno dalle ceneri di un bruttissimo Festival di Sanremo, è saltata fuori la musica che appassiona, perchè “tra il silenzio e il tuono” c’è letteratura, rispunta la poesia, si impone la forza di ogni singola parola sulla volgarità delle inutili canzoncine che lasciamo il tempo che trovano. Chiamami ancora amore, il tuo brano che ha vinto il 61 Festival di Sanremo, è un grande inno alla vita, ma anche il canto del cigno contro le dittature invisibili che viviamo giorno dopo giorno. Che dolore far finta di niente “per il poeta che non può cantare, per l’operaio che non ha più il suo lavoro, per chi ha vent’anni e se ne sta a morire in un deserto come in un porcile”.
Io non ci sto, anche se crescendo ho capito che camminare fuori dal coro costa rinunce, ma la bramosia della libertà vale più dell’urlo soffocato dalla stupidità, che si propaga nella mostruosità dell’omologazione. “Questa maledetta notte dovrà pur finire perché la riempiremo noi da qui di musica e parole”: allora rimetto lo zaino in spalla e sai cosa ti dico? Vengo con te, professor Vecchioni, a cercare uomini e donne per condividere il nostro sogno comune “perché le idee sono come farfalle che non puoi togliergli le ali; perché le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali; perché le idee sono voci di madre che credevano di avere perso e sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo”.
In questa notte è necessario che io condivida la pagina del mio libro con quella sua, perchè anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra avrei bisogno almeno di lei per “difendere questa umanità”. E tra trent’anni, invecchiato come sarò, voglio combattere per incrociare per l’ultima volta i suoi occhi e ripeterle in una notte stellata come questa il tuo pensiero: “Anche se non mi ha capito mai nessuno, non mi sono mai sentito solo. L’importante che mi hai capito tu. Grazie, amore mio.”
Allora sì che avrò attraversato il territorio del destino, lì mano nella sua mano, con l’unica donna che avrà dato un significato alla mia esistenza. Avremo respirato assieme questo “disperato” (bi)sogno… d’amore.

Sanremo Giovani 2011, vince il jazz ruffiano di Raphael Gualazzi

Non c’era via di scampo e quest’anno non ci sono state le solite zuffe per portare una nuova proposta dell’Ariston sul podio. Raphael Gualazzi vince con la sua Follia d’amore la 61a edizione del Festival di Sanremo nella categoria dei Giovani. Badiamo bene una delle peggiori annate, perché all’Ariston gli emergenti sono passati ancora una volta in sordina, a volte troppo insipidi, per niente sperimentatori o progressisti, mandati in onda a ridosso della mezzanotte, senza uno spazio adeguato, e per giunta messi in castigo dal televoto.
In balia della melodia di Micaela o di Serena Abrami, la vittoria del timido e pacato Raphael in stile jazzato mette tutti d’accordo, anche se il dubbio assillante rimane: questo swing ruffiano vuole fare il verso a Micheal Bublé? Dovremmo chiederlo a Caterina Caselli, l’ape regina della discografia italiana, che ha arruolato Gualazzi nella scuderia Sugar. La Caselli non ha sbagliato mai un colpo e nessuno ci vieta di pensare che Raphael diventi un fenomeno jazz da esportazione.
Intanto, mentre di questi giovani “invisibili” ci dimenticheremo prima di quello che possiamo pensare, il Televoto tira l’ennesimo colpo basso: Tre colori, l’intensa filastrocca musicata di Tricarico, è fuori dai giochi, nonostante a mio parare faccia parte del tris delle migliori canzoni sanremesi assieme a quelle di Vecchioni e di Emma & i Modà. Facciamocene una ragione, con o senza il faccione buonista di Gianni Morandi, il Festival di Sanremo riflette l’Italia del suo tempo, arruffona quanto basta per ripescare la Anna Tatangelo di turno e tenersi la lagna melodica di Luca Barbarossa. Mettiamola così: le belle canzoni sono quelle che vanno via in fretta dai riflettori dell’Ariston, dall’euforia popolare, ma restano confinate nell’animo di quel pubblico che sa cogliere in flagrante l’emozione di raccontare una storia accennata, come quella della nostra bandiera.

Sanremo 2011 Atto III: Roberto Benigni, il giullare sul cavallo bianco

Lo dimenticheremo presto il Festival di Sanremo di Morandi, anche in questa terza serata che ha ripescato, con il sotterfugio del televoto, la soubrettina del Karaoke Anna Tatangelo e ha confermato l’assenza musicale dei giovani: abbiamo scampato il pericolo di Marco Menechini, clone di Valerio Scanu, e gli osceni Btwins, che sembrano usciti da sotto la gonnella di Antonella Clerici.
Lo dimenticheremo in fretta il Festival di Sanremo di Morandi, in questa terza serata che da festa celebrativa per i 150 anni dell’Unità d’Italia ha trasformato il palco dell’Ariston in una sagra paesana, in cui non si è capito il senso della scaletta delle canzoni. Ancora una volta a farla da padroni di casa sono state le insostituibili Iene, Luca e Paolo, a cui va il nostro apprezzamento per averci ricordato il tempo del teatro-canzone di Giorgio Gaber, quello in cui il sipario divideva la riflessione dalla perfida leggerezza. Se Morandi ha ripreso in mano il microfono per cantare, lo spettatore si è arreso dinanzi alla speranza del miracolo dell’ultimo minuto.
Tuttavia, quando la barca sta per affondare, si ricorre al giullare dispettoso, perché lui sa sempre come trovare la via alternativa per raccontare quello che siamo. Roberto Benigni col tricolore in mano e su un cavallo bianco sembra roba da circo equestre, eppure è lui stesso il figlio bello di quest’Italia, che per fortuna non ha prodotto soltanto mostri. Certo Robertino è stato meno pungente del solito e a qualcuno è apparso come cantastorie di ovvietà. Non è così e la risposta l’ho trovata rovistando nella mia bacheca di Facebook, su cui la mia fedelissima lettrice Maria Rosaria ha postato senza pensarci due volte: “Siamo persone che si emozionano, non persone che si meravigliano dell’ovvio”.
E noi vogliamo emozionarci decifrando la millenaria storia che si nasconde nell’inno di Mameli, impastando l’entusiasmo e la passione che trasformò in eroi quella ciurma di ragazzotti che perirono per amore di patria; ammettendo una buona volta per tutte che la gloria si conquista combattendo per la libertà, con dignità, a testa alta. E pensare che ci sono ancora quattro sciocchi che vogliono convincerci del contrario, che vorrebbero l’Italia separata e ridotta ad un’accozzaglia di langhe federali. Non ci voleva il noioso Festival di Sanremo per non calpestare le nostre radici, ma quel piccolo diavolo di Roberto Begnini, che ha cantato senza avere una grande voce. Basta sussurrare le parole su un motivetto senza musicisti e così si finisce diritti al cuore, perché “se qualche volta la felicità si scorda di noi, noi non dobbiamo dimenticarla la felicità”. E questo mi sembra un atto d’amore.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.

Donne italiane in piazza, sull’orlo di una crisi di nervi

Sono italiane le donne sull’orlo di una crisi di nervi e questa volta sono uscite a viso scoperto. Niente mimosa, niente Festa della Donna, niente nastro rosa. L’urlo rabbioso femminile, anzi “femminista”, ha trascinato in ballo pure gli uomini. E questi non erano gli osceni tronisti di Uomoni & Donne, ma mariti, compagni o figli che sono scesi in piazza senza i soliti pregiudizi: stiamocene a casa a guardare la partita di pallone, perché questa è robetta per donne “radical chic”.
Altro che protesta di quattro femminucce inviperite e incazzose! “Se non ora quando?”, la manifestazione delle donne italiane che hanno chiesto una volta per tutte “più rispetto per il gentil sesso”, è stato un vero boomerang lungo tutto lo stivale. Sembrava di essere ritornati ai tempi di una domenica sessantottina, rigorosamente in bianco e nero, dove per una volta poteva andare a farsi benedire il pranzetto allegro tutti in famiglia del Belpaese democristiano. Si torna ad urlare e questa volta c’è poco da fare i furbi.
A scatenare il putiferio è stato il Ruby-gate e quella mostruosa meccanica che vorrebbe convincerci che “le donne sono nudo oggetto di scambio sessuale”. Un bel paio di tette moltiplicate per quanti sono i culi delle bamboline di corte rappresentano davvero l’immaginario collettivo dell’italiano medio, maschilista e smargiasso? Se fosse così, siamo proprio conciati male così come quando, nei battibecchi quotidiani, ci imbattiamo nell’acidità femminile che ingigantisce le piccole delusioni nel banale ta-ra-ta-ta: “Gli uomini sono una razza inutile, ne possiamo fare a meno”.
La piazza ha ancora fascino di seduzione o il potere di far cadere gli imperatori? In alcune immagini passate in tv, mi è sembrato di rivedere quel mucchietto di donne agguerrite appostate fuori alla Casa Bianca per chiedere a Nixon, il peggiore Presidente della storia americana, di farla finita una volta per tutte con la guerra in Vietnam. Eppure quell’urlo col megafono non riuscì a fargli staccare il sedere dal trono, finché il joker dal ghigno malefico non fu sbattuto sul lastrico dal Watergate. L’Italia non vuole più aspettare e urla senza megafono: Se non ora quando?

14 febbraio, San Valentino: lo scintillio

Rosario PipoloMessaggi palleggiano da una bacheca all’altra, frasi confezionate affollano i social network e gli aforismi accartocciati dei Baci Perugina sembrano finiti in una vecchia soffitta. Ah sì, si avvicina San Valentino e persino chi non può far a meno della festicciola rubacuori commette la solita gaffe: il 14 febbraio non è la festa né dei fidanzati né degli innamorati, ma rischia di essere un giorno qualunque con i tempi che corrono. Quest’abbondanza di avance virtuali su Facebook o un solletico emotivo su Twitter ci allontana da una sorta di incantesimo, che non è prigioniero di una bella fiaba, ma è vivo nella realtà: lo scintillio.
Non si tratta né del colpo di fulmine, né della sbandata passeggera, né del fuoco di paglia che può spegnersi in una notte di passione. Lasciamo che il falò della vanità dei sentimenti si consumi nelle agorà finte dove il “mi piace” ad un foto tenta di sopraffare l’insostituibile incontro. Quello casuale, apparentemente insignificante, quello in cui ti freghi perché è lì che ci scappa lo scintillio. No, non è una scintilla, non fraintendetemi, è uno stato di benessere interiore che scivola tra le anime di due persone. E’ un equilibrio così denso da far entrare in un batter baleno il tuo essere in quello dell’altro, senza tener conto delle distanze anagrafiche, geografiche, sociali, culturali o del colore della pelle.

Lo scintillio
si manifesta in uno sguardo, nei suoi occhi e non è quella classica luminosità sul viso che può trarre in inganno. E’ una luce minuscola accucciata di sbieco tra le sue pupille, che si intravede persino se lei è occhialuta. Appena si toglie gli occhiali, lo scintillio ne approfitta e si manifesta in tutto il suo abbaglio. Al momento non ci fai caso, fai finta di niente e vai via come se nulla fosse successo. Invece è accaduto, perché lo scintillio arriva senza far rumore, a piedi nudi, come i passi silenziosi tra la neve.

E tu svampito che pensavi di restare a mani vuote nel giorno di San Valentino, hai visto come un giorno qualunque può diventare un giorno speciale.  Lei invece è lì, con la luce accesa fino a tarda notte, alle prese con l’ennesimo ripasso. Si stropiccia gli occhi, toglie gli occhiali e non si accorge che è San Valentino pure per lei, perché non vede il postit appiccicato tra le pagine del suo libro in cui è scritto più o meno così: “Mia cara, le principesse non sono quelle che hanno una schiera di servitori o vivono a corte, ma le ragazze speciali e distratte, che senza saperlo custodiscono in uno sguardo la magia dello scintillio”.

  Colazione da Tiffany, 50 anni dopo…

  Diario di Viaggio: oltre la strada della mia infanzia

  A te

Cartolina da Lussemburgo: donne alla larga dal viaggiatore low cost!

Al di là della meta scelta, il viaggiatore low cost ha la sua insostituibile religione: “volare” a prezzi bassi. Lussemburgo non è una meta proprio comoda, perché le alternative sono due per non svuotarsi le tasche: RyanAir che atterra su Hahn in Germania o su Charleroi in Belgio. Da lì un autobus Flibco che costa piu’ del biglietto aereo. Diciamo pure che questa cartolina da Lussemburgo ha rischiato di non arrivare mai a destinazione. Quando nei miei itinerari c’è di mezzo l’auto, è meglio non avviarsi proprio. Quella mia “sbuffa” perché si è impigrita a furia di sostare nel box, quella degli altri gioca brutti scherzi.
Questa volta, per farcire il mio diario di viaggio, ero pronto a tornarmene in auto assieme al mio amico Lorenzo. Un’insolita occasione per attraversare con le quattro ruote un pezzetto d’Europa in compagnia di un “belga” dal sangue terrone, che passa dal francese perfetto al pugliese più popolare. Poche ore prima della partenza verso Lussemburgo ecco la lieta notizia. L’auto è dal meccanico e così ero senza il passaggio del ritorno.
Cosa fa il viaggiatore low cost? Calma e sangue freddo prima di tutto. Certo l’acquisto di un volo a pochi giorni dalla data fissata significa pagarlo un occhio della testa. Se poi penso a quel biglietto per Porto a 6 euro, figuriamoci se 70 euro non mi sembrano un saccheggio. Lussemburgo è  tra le capitali piu’ care d’Europa  e, se non fosse stato per Hostelbookers, col cavolo che trovavo un alloggio a poco prezzo! E senza l’aiuto di Mario, il portiere lussemburghese dell’ascensore che porta alla citta’ bassa, in piena notte non avrei mai trovato la strada.
La resa è la peggiore sconfitta per il viaggiatore low cost. Perciò con audacia ho bloccato un biglietto a 40 euro, a patto di passare mezza nottata nell’aeroporto deserto di Charleroi, nei pressi di Bruxelles.
Il viaggiatore low cost sarà pure coraggioso, ma poi si perde “le donzelle” per strada. Convincere una “lei”, abituata a portarsi dietro 10 chili di paia di scarpe, alle restrizioni di RyanAir sul bagaglio è impossibile o quasi. E pensare che c’ero riuscito con la scusa dell’auto e della possibilità di fare shopping sfrenato! Macchè, dopo la telefonata di Lorenzo, chi aveva il coraggio di dirle che anche al ritorno avremmo avuto restrizioni sul bagaglio? Il viaggiatore low cost avrà pure il suo vangelo, ma deve stare alla larga dalle femmine. Barattare il romanticismo by night di una capitale europea con una scorta di scarpe funziona solo una volta all’anno, forse a San Valentino!

Amazon Italia e il pessimo Customer Service!

Lo shopping on line ha le sue regole e la sua disciplina. Questo mi sembra logico. Tuttavia, il Customer Service* resta il fiore all’occhiello anche di un megastore on line come Amazon Italia. Badiamo bene che un bravo operatore deve sempre seguire la policy di vendita del brand, ma anche valutare caso per caso e confrontarsi con i suoi responsabili. Può non accadere e così un frettoloso “copia e incolla” delle regole di vendita è la peggiore scorciatoia per fidelizzare il cliente. Mettete il vostro acquisto nel carrello, lo depositate lì per qualche giorno, caricate la vostra prepagata e poi prima dell’acquisto vi ritrovate il prezzo rialzato. Il gioco vale la candela? Un 16% in meno su un prodotto musicale che supera abbondantemente i 200€ non è poi così malaccio. Anzi, corrisponde quasi all’ingiusta IVA che mortifica la musica in Italia e non la considera “cultura”.
Insomma, gli umori di vendita di Amazon Italia sono così lampo e le offerte così ballerine, rispetto ai cugini di UK, Francia e Germania, da sembrare specchietto per le allodole. Mentre dal marketing arrivano brillanti newsletter per dirti sottobanco “Perché continui a spendere su Amazon UK quando ci siamo noi in Italia?”, l’incauto e ingessato operatore ci mette del suo. La risposta non è poi così scontata: forse acquistiamo in UK perché il Customer Service ne sa qualcosa in materia di problem solving e valutazione del singolo caso. Le politiche commerciali sono una cosa – alziamo il prezzo del box in Blue-Ray di Harry Potter (UK import) e abbassiamo la versione italiana che c’è rimasta sullo stomaco – ma quelle del Servizio Clienti sono le più delicate perché fanno la differenza di una vetrina.
Su Amazon Italia ci sentiamo “global” soltanto nella navigazione, perché ad un passo dall’acquisto ci ricordiamo di essere in Italia, il paesotto alla buona in cui persino un anglosassone doc come sir William Shakespeare è riuscito a metterci alla porta con gusto e galanteria. Continuiamo ad acquistare musica e intrattenimento su Amazon UK? Sì, soprattutto se abbiamo la presunzione bonaria di sentirci anglosassoni e, per una volta, senza la puzza sotto il naso.

*Tengo a precisare che dal 2013 il Servizio Clienti ha fatto passi da gigante con l’efficienza di gran parte degli operatori. Rispetto a questo post pubblicato, la differenza di un operatore la fa la capacità di sapere gestire il singolo caso.