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Archives Ottobre 2013

Faccia a faccia con Lou Reed, soggezione on the wild side

Rosario PipoloLo incrocio. Io e Lou Reed siamo faccia a faccia. Da un lato c’è l’amore Laurie Anderson. Dall’altro c’è l’amica italiana da una vita Fernanda Pivano, che lo tiene per mano. Nanda mi riconosce e mi sorride. L’avevo intervistata qualche settimana prima alla Fnac di Milano. Lui da dietro gli occhiali scuri mi mette un sacco di soggezione. Poi si infilano tutti e tre in un’auto e volano via.

The walk on the wild side non è un brano qualunque come quelli che si ascoltano, si consumano e restano lì impolverati sull’iPod. E’ il richiamo per far uscire dai nostri abissi quella parte “selvaggia” che abbiamo sottomesso alla routine tra rinunce e vivere per apparire. Maledizione a noi che ci siamo cascati. Maledizione a noi che abbiamo pensato che un elettroshock ci avrebbe redenti per uscire vivi dalle fiamme dell’inferno. Ci avevano provato prima con Alex in Arancia Meccanica e poi con il leader bisessuale dei Velvet Underground, che cantò il suo dolore in Kill your sons.

Lewis Allan Reed e le sue poesie trasfigurate in rock dalla pelle jazz e blues. Lewis Allan Reed e quelle contorsioni di basso che stendevano la ribellione di una generazione su un tappetto di velluto. Lewis Allan Reed e la banana di Andy Warhol, sulla copertina del mitico LP dei Velvet, che gli intellettuali avrebbero dovuto ficcarsi nel sedere. Lewis Allan Reed e le follie dei poeti maledetti, saccheggiando pagine di letteratura nei riflessi dell’oscurità di Edgar Allan Poe. Lewis Allan Reed e l’amore che si snocciola nella compostezza divina e lo lega per sempre alla musa Laurie.

Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo. Abbiamo camminato con il fiato sospeso on the wild side e ci siamo presi la nostra fottuta rivincita. E’ stata una delle poche volte in cui la poesia ci ha girato le spalle, lasciandoci addosso il tanfo del rock. Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo. Senza rimpianti né pentimenti, ci mancherai Lou!

International Week, l’happy hour a Milano tra cultura e ricchezza della diversità

Rosario PipoloStorie di vita che si incrociano in un happy hour a Milano dopo le otto di sera e ti trasformano in un viaggiatore. Lascio a casa la valigia, sorseggio un cocktail e conosco decine e decine di universitari stranieri che hanno deciso di passare una fetta del loro tempo nel nostro Paese. Alcuni pensano che sia uno studente dai capelli brizzolati “abbondantemente fuori corso”, quelli di International Week, capeggiati dagli ideatori Paolo e Matteo Giachino, sanno che sono un viaggiatore a caccia di piccole storie da raccontare.

L’aperitivo dovrebbe essere un momento di socializzazione piuttosto che uno sprofondamento nella solita grande abbuffata. Qui è tutto diverso. Mi imbuco nel covo dell’Old Fashion a Milano e ritrovo un pezzo della mia famiglia in Francia, parlottando con un gruppo di studentesse d’oltralpe. Mi sposto pochi metri e finisco in Australia, confessando ad una coppia di Sidney il mio progetto di un viaggio on the road nella terra dei canguri, alla mia maniera di esploratore squattrinato.

Poi tutti seduti intorno allo stesso tavolo e allora sì che mi sembra di accarezzare un mappamondo. Klodian, che ha in tasca due lauree e una gran cultura, viene dall’Albania. Condividiamo le polaroid del mio viaggio nei Balcani e l’accoglienza che ho avuto a Tirana. Attacco bottone con Faez: lui mi racconta della musica a Teheran, io di quella che ho vissuto nella Napoli sotterranea che mischiava le sonorità mediterranee. Faez non conosceva Persepolis, il graphic novel di Marjane Satrapi, che mi rese ai tempi dell’università turista in Iran, rincorrendo una delle storie a fumetti più belle che abbia mai letto. Bruno ha mezza famiglia che vive laggiù a Rio De Jaineiro. Sgrana gli occhi appena gli racconto per filo e per segno le mie interviste a Toquinho, Gilberto Gil e Daniela Mercury. Nella discussione si inserisce anche Vitor Junior, figlio del Brasile delle nuove tecnologie: è pieno di energie, saltella da una start up all’altra, perché la sua passione è lavorare dove tira il vento dell’Innovazione.

A tutti questi ragazzi devo qualcosa. Mi hanno arricchito con il loro vissuto in terre lontane da me. Sono proprio le lande che volevo esplorare quando, più di venti anni fa, mi iscrissi alla Facoltà di lingue straniere alla Federico II di Napoli. Quasi quasi stasera torno a rifugiarmi sotto il tendone di International Week. Voglio stringere amicizia con questo ragazzo nella fotografia. Mi ricorda un jazzista di colore, conosciuto ad Harlem nell’estate del ’92. Fu allora che ingoiai la bellezza e la ricchezza della diversità. Fu allora che barattai l’anima da sognatore di periferia con quella di cittadino del mondo. E non me ne pentirò mai.

Il saluto di Milano a Lea Garofalo: “vedo, sento, parlo” non resti uno slogan

Rosario PipoloIl volto rugoso di Milano, invecchiato tra notti brave, cocktail e festicciole dei rampolli dell’industria padana, è ringiovanito attraverso la memoria di Lea Garofalo, la ribelle alla ‘Ndrangheta che fu ammazzata il 24 novembre 2009. Più di un ritaglio di cronaca o di una pagina strappata da un noir, la storia di Lea è quella di una donna calabrese che sceglie di stare dalla parte della giustizia, di donare alla figlia Denise un futuro diverso, di indossare l’impermeabile del testimone per porre fine all’omertà comune e uscire fuori da un’organizzazione malavitosa.

Il volto rugoso di Milano ha allievato il dolore delle sue cicatrici nel sabato mattina del funerale civile di Lea Garofalo. Un oceano di uomini, donne e bambini erano appostati lì per dare un segno concreto, riconoscere l’eroismo di chi ha detto no alle regole dei clan. Il dubbio però ci lascia un rabbioso tremolio: non facciamo abbastanza in Italia per proteggere e tutelare chi collabora con la giustizia. Chi volta le spalle ai clan mafiosi, prima o poi perisce perché resta isolato. Quanti sono quelli che in questo istante rischiano di fare la stessa fine di Lea?

“Vedo, sento, parlo” non può rimanere uno slogan destinato a sventolare su una delle tante bandiere, ma una presa di coscienza. Il gesto di Lea è il coraggio di essere donna in un territorio come la Lombardia che si affilia sempre di più al business losco dei clan. Il sorriso di Lea assomiglia a quello di tanti calabresi che, pur non avendo lasciato la loro terra, si danno da fare nel quotidiano e nel loro piccolo per graffiare la ‘Ndrangheta.

Dopo i giardini dedicati ad un’altra donna impavida e ribelle, la giornalista Anna Politkovskaya, Milano ha un altro angolo verde per dare nuova linfa alla memoria. Non abbiamo bisogno più di slogan e bandiere, ma di continuità. E questo è l’urlo di Lea Garofalo dai giardini di via Montello a Milano.

Felicità a Mosca: la canzone del Belpaese che ricongiunge Albano e Romina

Rosario PipoloIn un pomeriggio d’estate sul litorale domitio, Popy Minellono mi raccontò come nacque il testo della canzone Felicità. Il paroliere di origine piemontese, che consegnò ad Albano e Romina Power un inno degli anni ’80, si ispirò ai fumetti de Peanuts di Schulz. Ve la ricordate la poesia fumettosa La felicità è… un cucciolo caldo? Ecco, proprio quella lì.

Felicità è un acquarello musicale datato che evoca il benessere mordi e fuggi del Belpaese degli anni del Riflusso. In questi giorni se Albano e Romina la ricantassero sul palco dell’Ariston di Sanremo, altro che applausi si prenderebbero. Gli italiani, bastonati dalla nuova Trise e con le tasche vuote, mica crederebbero più alla filastrocca della felicità tra “un cuscino di piume e un bicchiere di vino”?

I Russi ci credono ancora invece. Sono disposti a pagare persino due stipendi di un nostro operaio, pur di rivedere cantare sullo stesso palco gli ex coniugi Carrisi. La reunion “artistica” fa notizia e così nella landa di Putin il Belpaese canzonettaro e disimpegnato fa colpo . Chissà se i moscoviti investirebbero gli stessi rubli per ascoltare brani che rinfrescano la memoria nazionale, a cavallo tra la rinuncia alla Perestrojka di Gorbachev e il dramma dei “decaparecidos” al di là dei monti Urali. Sempre meglio il revival musicale dell’omertà.

In Italia la canzoncina Felicità non gira più bene da un pezzo. Tuttavia, potrebbe sbarcare in una versione remixed in russo su iTunes. A patto che Vespa e Santoro facciano le scarpe a La vita in diretta e organizzino una diretta a reti unificate sulla reunion degli ex coniugi Carrisi. Daremo così un nome al ruggito del “C’eravamo tanto amati”.

Addio Funky Professor Marco Zamperini, resti tu il mio Doc di “Ritorno al Futuro”!

Rosario PipoloHo sognato per una vita intera di conoscere di persona Emmet “Doc” Brown, lo scienziato visionario del film “Ritorno al futuro”. Al liceo mi sfottevano perché dicevano che era una delle tante facce immaginate del regista Robert Zemeckis. Sono stato testardo. Sapevo che Doc esisteva da qualche parte. Il mio Emmet Brown era Marco Zamperini, il funky professor della Rete scomparso improvvisamente la scorsa notte.

Prima dello scatto che ci ritrae assieme all’ultima BlogFest 2013, glielo avevo twittato. E Funky Surfer – così lo conosceva il popolo di Twitter – aveva gradito il paragone. Accanto a Marco Zamperini mi sentivo come Martin di Ritorno al Futuro e in un certo senso gli incontri con lui avevano esaudito un mio grande desiderio: capire come fosse fatto un evangelist dell’Innovation.

Marco Zamperini se ne andava a zonzo con i suoi GoogleGlass, ma “il futuro” era nel suo sguardo, in quella sua visione che allargava l’orizzonte del domani alle nuove tecnlogie per contribuire a migliorare la nostra vita. Attraverso il suo stile scanzonato l’amato Funky Professor filava come la lana umanità e sensibilità, due poli che rendono un genio smanettone e tecnologico anche grande viaggiatore del tempo. Il tempo scandito da Internet – Marco ha messo le fondamenta della Rete in Italia – e dai social network batteva allo stesso ritmo del cuore di Funky Surfer, i cui palpiti condensavano la sfrenata passione che diventa mestiere, a metà strada tra l’operosità di un artigiano e la pignoleria di uno scienziato.

Oggi appeso al filo della Rete c’è tanta rabbia per l’uscita prematura di Marco Zamperini ed io senza di lui non riesco più a sentirmi Martin di Ritorno al Futuro. Mi resta il ricordo di momenti intensi alla BlogFest di Rimini e di una cena seduto tra lui e la moglie Paola Sucato. Caro Marco, prima o poi salirò anche io a bordo della DeLorean DMC-12 e con la mia macchina del tempo ritroverò il “mio Doc Emmet Brown” su un pianeta lontano, che da oggi in un angolo dell’universo porta il tuo nome: Funky Surfer.

Tiscali.it – Internet piange Marco Zamperini, papà della cultura digitale in Italia

Gli Alunni del Sole senza Paolo Morelli e i sogni proibiti di Liù

Rosario PipoloNel 1978, mentre sotto casa impazzavano i colpi furibondi della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, mia mamma alzava il volume della radio per non farmeli sentire. Paolo Morelli, la voce degli Alunni del Sole che da ieri ha smesso di ululare, cantava Liù e mi sentivo come un bambino finito tra i colori di una tela di Chagall.

Un decennio dopo qualche scellerato associò gli Alunni del Sole ai gruppetti musicali di serie C che fanno la questua alle feste di paese. In pochi avevano capito che dietro il piano di Paolo Morelli c’era un rimbalzo che dal Vesuvio arrivava fino alla Londra dei King Crimson. La testardaggine e la passione di Morelli avevano riprodotto un sound dalle schegge partenopee che si infilava come un contorsionista tra rock progressivo e fantastica melodia pop. Quando Paolo e i suoi cantarono Tarantè ci accorgemmo che la loro napoletanità era sanguigna proprio come quella di ‘A canzuncella, inno di una generazione, con cui Napoli avrebbe dovuto farsi fare un mantello per proteggersi dall’invasione barbarica dei neomelodici.

La canzone neomelodica si è arenata nel vicolo, tra i bassi di Forcella e quelli del rione Sanità, marcando ancora di più il divario classista che il gusto musicale non sempre sa tenere a bada. La voce e il piano di Paolo Morelli, indiscutibile anima degli Alunni del Sole, portarono a compimento un miracolo nella Napoli degli anni Settanta: attraversare Spaccanapoli nell’unico abbraccio che può tenere stretti la “miseria” e la “nobiltà”. ’A canzuncella la cantavano al Vomero come sui quartieri Spagnoli; Liù e i suoi sogni proibiti boccheggiavano nelle case coloniche di Posillipo come da un’affacciata a Capodimonte.

Un sabato mattina di una quindicina d’anni mi trovai a casa del maestro Antonio Annona. Seduto al pianoforte in soggiorno mi cantò  ‘A canzuncella, dopo avermi chiesto di tradurre alcuni versi in francese. Quella traduzione è rimasta impolverata in un cassetto, perché certi brani memorabili devono continuare a parlare la lingua che li ha partoriti. Paolo Morelli è tra i napoletani da non dimenticare.

Perché non faccio più gli auguri di compleanno via Facebook

Rosario PipoloDa qualche mese appena apro la mia pagina Facebook ecco che spunta il solito promemoria: ti sei ricordato di fare gli auguri di compleanno ai tuoi amici? Devo ammettere che fino all’estate scorsa ero divenuto così abitudinario a farli a destra e a sinistra, che ci pensavo a prima mattina. Mi sono però sempre rifiutato di usare quel tipo di diavolerie a forma di app che inviano gli “Happy Birthday” al tuo posto.

Al ritorno dalle vacanze, mi sono soffermato ad osservare migliaia di auguri in formato social che rimbalzavano da una bacheca all’altra e mi sono detto: quanto tempo è che non sento più a telefono le persone a cui tengo davvero per gli auguri? Mi sono ricordato addirittura che, negli anni dell’adolescenza, scarabocchiavo auguri personalizzati su biglietti preparati da me, saltavo sulla mia vespa rossa e li andavo ad imbucare personalmente.

Insomma, il calendario di Facebook mi ha fatto da promemoria per evitare figuracce con la community a cui appartengo, ma allo stesso tempo ha svuotato un gesto significativo della mia quotidianità. I guru dei social network sostengono che augurare buon compleanno su Facebook migliori la propria reputazione social nella centrifuga infernale del virtuale. Aggiungerei però che deteriora anche l’essenziale e mischia in un unico calderone alcuni legami che ci circondano.
Me lo ha confermato una telefonata recente del mio amico di infanzia Antonio. Ci siamo sentiti per gli auguri, ma poi parlottando a telefono siamo finiti a condividere memoria e quotidianità, l’essenziale agli occhi di un augurio speciale. Torno a riprendermeli, spalancando la finestra e alzando la cornetta del telefono: “Pronto, sono Rosario. Buon compleanno…”

La profezia del “Titanic” di De Gregori nella tragedia del barcone in fiamme a Lampedusa

Un disegno di Maurio Biani

Rosario PipoloChissà se tutte le imbarcazioni chic che la scorsa estate ciondolovano nel mare della Sicilia avrebbero fatto a gara per prestare soccorso allo yacht di un sultano che andava in fiamme. E’ quasi sicuro che la signora in topless avrebbe interrotto la sua tintarella per raccattare un binocolo e capire cosa stava accadendo al panfilo da un milione di dollari. Chiedere aiuto, lanciare un SOS è un diritto di ognuno e soccorrere è un dovere inespugnabile in un Paese civile.

Francesco De Gregori in un memorabile brano, Titanic, cantava la volgarità classista e tornava a metterci la pulce nell’orecchio: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”. Per “la terza classe”, a cui appartengono quei disgraziati che sono morti ieri sull’imbarcazione in fiamme a largo di Lampedusa, rettificherei in “rabbia, dolore e spavento”. Ce lo ha ricordato il commento di ieri di Papa Francesco – “Viene la parola vergogna: è una vergogna” – in visita lo scorso luglio proprio a Lampedusa, per commemorare anche i tanti migranti morti durante le traversate.

Il mancato soccorso da parte di chi c’era ed ha fatto finta di non vedere non si estingue questa volta nella solita indignazione da copertina di rotocalco: siamo sì o no un Paese razzista? “A noi cafoni ci hanno sempre chiamato”, continuava a cantare De Gregori. Non si tratta di puntare il dito contro i pescherecci che erano nei paraggi. Piuttosto di capire quanto poco abbiano fatto i Governi che si sono alternati in Italia negli ultimi venti anni, per tutelare coloro che restano vittime innocenti nei flussi di migrazione dalle coste nordafricane. Ha tutto il diritto di urlare Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa, e ribadire: “Questi uomini, queste donne e questi bambini non sono clandestini, ma profughi”. L’Unione Europea, che fa finta di guardare dall’altra parte, si assuma le sue responsabilità. Chi glielo ha messo tra le mani il Premio Nobel per la Pace?

“Su questo mare nero come il petrolio ad ammirare questa luna metallo” c’erano donne incinte che portavano in grembo con orgolgio le loro bimbe. Non volevano per loro un futuro da “Cenerentola”, ma le custodivano nel pancione come in un castello, affinché in una nuova terra incontrassero chi le avrebbe fatte diventare delle principesse, rispettando la loro dignità di esseri umani.

“Per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”. Ahimé, si va in Italia, per morire e non per ricominciare. Oggi lutto nazionale. Ficchiamocelo bene in testa però. I due minuti di silenzio non bastano.

Milano e le suggestioni del sottomarino #L1F3: da Yellow Submarine a Capitan Harlock

Rosario PipoloUn primo di ottobre che Milano non scorderà perché, aprendo gli occhi, si è ritrovata un sottomarino in via dei Mercanti. Che sia stato un colpo di genio pubblicitario o un bel capriccio di qualche bravo creativo, resta il fatto che il sottomarino #L1F3 abbia movimentato il capoluogo lombardo in un grigio martedì autunnale.

Nonostante fosse un’operazione di marketing, destinata ad innescare la viralità dei social network, a me ha solleticato minuscole suggestioni, al di là del ruolo di addetto ai lavori. Si è trattato di godersi lo stupore, la curiosità e l’entusiasmo dei passanti che si sono visti sbucare dal sottosuolo milanese un sottomarino vero, il primo che aveva impresso un hashtag social. E così quello che per me appariva come un meraviglioso set cinematografico, per molti altri era l’interrogativo legittimo della serie “Vero? Puoi mai essere?”.

Quando si è diffusa la voce che si trattava di una trovata pubblicitaria, il sottomarino #L1F3 ha continuato a destare curiosità, perché dopo tutto era diventato un vero simbolo per tutti i milanesi che sognano una Milano in stile Amsterdam e con i Navigli di nuovo navigabili. Torno a ripetere: la magia del cinema riesce a vestire di poesia anche i manichini o un totem da business. Per me fino all’altro ieri il sottomarino per eccellenza era Yellow Submarine dei Beatles, con lo strascico psichedelico tra musica e cinema della fine degli anni ’60.

Dopo aver incrociato #L1F3, mi è tornata in mente una stravaganza della mia infanzia: far volare nello spazio i sottomarini. Osservando il sottomarino di sera, nella penombra, ripensavo all’Arcadia di Capitan Harlock, ovvero l’astronave del personaggio di Matsumoto. Sognavo che Harlock passasse a prendermi e mi portasse con lui nello spazio a saltellare da una stella all’altra. E forse questa è la volta buona che il mio sottomarino prenda la piega di volare. Dopotutto #L1F3 si porta dietro l’immaginazione, l’unica ascia che può fare a pezzetti persino il pregiudizio che oltre lo steccato di un’operazione pubblicitaria non ci possa essere un batuffolo imbevuto di emozioni.