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Archives 2013

Diario di viaggio: le mie feste di Natale riflesse in un bicchiere di vin brulé

Rosario PipoloIl viaggio è l’ultima lente per esplorare il Natale in vista della chiusura di un faticoso 2013, in cui il buonismo di cartone serve a poco o niente. Una traversata solitaria, intensa tra le montagne in mezzo ai mercatini di Natale. I visitatori si concentrano sull’acquisto alle bancarelle, io a raccogliere storie sul tappeto di un’atmosfera quasi magica.
A Bolzano il vin brulé e un pezzo di Sacher scendono giù tutto di un fiato; a Trento un boccone di canederli mi riporta ai tempi in cui il cibo fatto in casa riempiva la nostra vita di famiglia; il vocio del fiume a Merano si mescola con lo stupore dei bimbi che attendono con impazienza un pezzo di strudel; il calar della sera nella piazza di Bressanone spegne la tipica meschinità del turista qualunquista e spendaccione per far spazio alle luminosità del silenzio crepuscolare.

Gli avari alla Scrooge si sono rifilati dietro le ali degli angeli Clarence, che non sanno più in quale direzione andare per mettere in salvo gli ultimi disgraziati presi a sassate dalla crisi. Si va e si viene, passando da un treno all’altro, a ritmo lento tra i paesotti che scontornano il Trentino e l’Alto-Adige. Poi all’alba tutta di un fiato verso l’Austria, con le montagne innevate, nel viaggio on the road che mi porta verso Monaco di Baviera.
L’umore dei tedeschi è sottotono e se non fosse per i mercatini di Natale la città sembrerebbe una giostra ferma. Alla larga dai turisti, a bere birra Augustiner e rimpinzarsi di wurstel bianchi senza perdere mai di vista i dettagli della città bavarese a ridosso della Vigilia di Natale. Si riparte, si continua, alla ricerca dell’essenza del Natale come accade nel racconto di Dino Buzzati “L’arcivescovo e il suo segretario”, dono impolverato della mia compianta e adorata professoressa Rosalba.

Dopo tanti giri e rigiri, trovo quel che cercavo nel meraviglioso Duomo di Trento. Il canto del coro Gruppo Amici della Montagna di Carmignano di Brenta mi avvolge, mi fa arrampicare sulle montagne, su quelle cime dove Dio sa trovare il modo per farsi trovare. Non è un concerto qualunque, è un momento per ricordare l’amico Giancarlo Frizerio che a quel coro trentino ha dato anima e passione.
Eccola la mia storia di Natale, il ricordo di un’amicizia così come dovrebbe essere: condivisione di sogni e piccoli gesti che diventano grandi quando marciano sulla strada maestra della quotidianità e si vestono come stelle comete sul dondolio dell’eternità mentre Romeo Bazzega dirige due canti intensi: La Ceseta de Transacqua e Mezzanotte trentina.

Quest’anno le mie festività sono qui, senza grandi abbuffate, senza reunion familiari, senza gli auguri di circostanza, in un viaggio che riflette il retrogusto notturno di un bicchiere di vin brulé. E non è finito, perché io a Natale resto qui, raggomitolato nel canto “Mezzanotte trentina”. Così rinasco viaggiatore del tempo e incarto piccole storie come se fossero i doni che aspettavo da quarant’anni.

Caro Babbo Natale, mi regali Dudù?

Rosario Pipolo“Trottolino amoroso dudu dadadà”, cantarono Amedeo Minghi e Mietta nel bel mezzo degli anni ’80. E noi italiani, storditi dal benessere fasullo del decennio del riflusso, non ci accorgemmo che in quella zuccherosa canzoncina in stile sanremese si nascondeva la vera star di questo Natale 2013: Dudù.

Dudù, il cucciolo di casa Berlusconi, ha spento la prima candelina. Rotocalchi e social network non fanno altro che parlar del cane di Arcore, innescando la probabile incazzatura degli animalisti che dicono basta ai “cani da salotto” e vorrebbero le copertine dedicate agli anonimi randagi.

Dudù lo conosco in tanti e persino Emilio Fede ci mette la mano sul fuoco. “Lo conosco ed è molto simpatico”, ha dichiarato l’ex direttore del TG4 al Corriere della Sera. E chi non lo conosce, farebbe a cazzotti per stringergli la zampa, adesso che è una star tra cinema e tv. Maurizio Crozza lo ha inserito nel cortometraggio Berlusconi-Padrino che sta facendo crepare il popolo social nei giorni prenatalizi.

Dudù, chi era costui? Il primo pet a quattro zampe ad avere una frequentatissima pagina Facebook tutta per lui. Ahimé è stata chiusa e non sapremo mai quando arriverà la prossima scorreggia “profumata” del cane che fa più rumor nel Belpaese cialtrone.

Altro che le urla dei Forconi. Altro che legge di stabilità, Trise, rimonta dei renziani e la nuova fogna del calcio scommesse. Dudù sa come far parlare di sé e potrebbe essere la mascotte della partitocrazia che vuole tornare protagonista della Terza Repubblica con la stessa deplorevole logica degli ultimi vent’anni: scambiare la politica per una serata goliardica in compagnia, tra tette, un bicchiere di vino e quattro canzonette.

“Trottolino amoroso dudu dadadà”, cantarono Amedeo Minghi e Mietta nel bel mezzo degli anni ’80. E adesso come replichiamo a chi ha scritto “Caro Babbo Natale, mi regali Dudù”?

I fumetti di Bitstrips e l’odioso buonismo natalizio dei social network

Rosario PipoloAhimè, non ci chiamiamo tutti Mina e abbiamo il privilegio di finire in una striscia a fumetti disegnata da Giorgio Cavazzani. Chi di noi non ha sognato di diventare un tratto a matita a fianco di personaggi come Paperino? Un posto nella storia di Paperopoli è impensabile, ma nello stream social di Bitstrips sì.

Il prossimo Natale lo trascorreremo tutti sulla “comics app”, inventata l’anno scorso da due ragazzi canadesi. Bitstrips sta invadendo le bacheche di Facebook, rendendoci protagonisti di migliaia di simpatiche vignette a fumetti. Ci costruiamo un avatar fumettoso e cominciamo a scrivere storie, coinvolgendo persino i nostri “amici social”, che hanno deciso di far parte di questa simpatica sarabanda.

Si sa che i social network si animano con sbalzi d’umore tra mode e tendenze. Per giunta lo sdolcinato buonismo natalizio ha già preso d’assalto profili e fan page di Facebook. Bitstrips è l’app giusta per “i pigroni”, ovvero coloro che resistono al coinvolgimento di trascorrere un bel pomeriggio assieme, facendo quattro chiacchiere al bar sottocasa.
Bitstrips è l’app perfetta per chi pensa che l’intensità di un legame affettivo si misuri con i “mi piace” e “i commenti”, lasciati alla deriva di una bacheca di Facebook. Bitstrips è l’app per tornare a “fare comunella” in una vignetta senza l’ansia dell’agenda sullo smarphone che ci segnala l’imperdibile appuntamento dell’ultimo minuto. Bitstrips è l’app azzeccata per ritrovare con fantasia le persone che non appartengono più al nostro destino da un bel pezzo.

Vi presento il mio avatar su Bitstrips. Tento invano di scrivere per il quarantesimo anno di fila a Babbo Natale. Persino lui non ci risponde più, se non attraverso le finte letterine svendute sui mega siti dei coupon. Forse anche Santa Claus è finito su Bitstrips. Il suo avatar a fumetti si degnerà mai di rispondermi senza l’odioso buonismo natalizio dei social network?

Diario di viaggio: l’elogio alla lentezza del fabbro Campana oltre “la masseria dei ricordi”

Rosario PipoloOltre lo steccato del mio libro, c’è la “masseria dei ricordi”. Uno, due, dieci, cento istantanee in fila indiana. Hanno ragione Eugenia Russo e Anna Riva di Emeis che, in occasione della presentazione di “L’ultima neve alla masseria” alla Feltrinelli Point di Pomigliano, puntualizzano: “Pietro è come Rosario, è come ciascuno di noi che senza la sua storia, la sua armonia, il suo passato ed i suoi progetti futuri non avrebbe senso, significato, importanza. Noi siamo quello che raccontiamo. La narrazione è un modo per dare forma alle proprie emozioni.”

I ricordi non sono mai stantii, anche se restano fuori dal perimetro del racconto stesso. Sbircio tra il pubblico in libreria. Tra loro c’è una faccia nota e il suo sorriso mi riporta ai tempi del liceo. Ha gli occhi luminosi come quelli del fabbro Campana. Nelle tiepide mattine di maggio andavo a scuola in Vespa. Papà della mia compagna di classe, il fabbro di Pomigliano d’Arco aveva la bottega a pochi passi dal liceo. Mi lasciava parcheggiare il motorino nel suo giardino e lo teneva d’occhio.

Una mattina non entrammo in classe, perché a scuola mancava l’acqua. I miei compagni se la diedero a gambe ed io mi trattenni nella bottega del fabbro. Mi piaceva osservarlo a lavoro. Mentre riponevo i quaderni nel bauletto della vespa, l’uomo taciturno mi disse: “Ti meravigli che io continui ad usare lo stesso arnese da quando sei arrivato? Bisogna essere lenti come una lumaca per mettere l’anima in ciò che facciamo”.
L’elogio alla lentezza del fabbro Campana ha anticipato il mio incontro da giornalista con Luìs Sepúlveda. Durante l’intervista lo scrittore cileno insistette su quanta saggezza ci fosse nel ritmo lento di raccogliere i dettagli della vita. Forse Sepúlveda aveva già in cantiere di regalarci le pagine di Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza.

I ricordi non sono mai stantii se modellano l’interiorità del nostro futuro. Lo sussurravano già allora gli arnesi del fabbro Campana. Oggi nel bauletto della mia Vespa rossa ho trovato la carezza che mi lasciò in occasione del nostro ultimo incontro. Nella “masseria dei ricordi”, quelli miei, c’è anche il fabbro Campana ed ho riconosciuto la sua carezza, attraverso l’abbraccio della figlia Rachele, nell’ultimo viaggio alla Feltrinelli Point di Pomigliano d’Arco.

Diario di viaggio: la mia festa del Ringraziamento con Ronnie Jones

Rosario PipoloLa mia prima Festa del Ringraziamento. Pensavo di essere finito in un music club del Village tra i polmoni della Grande Mela. Invece mi sono infiltrato al Memo a Milano. Cena assieme a Ronnie Jones, voce black trapiantata In Italia una miriade di anni fa. Rigorosamente senza “tacchino”, ma tra un boccone e l’altro, mi faccio raccontare le atmosfere del ThanksGiving Day. Lui è stato troppo “vagabondo” per essere un cronista impeccabile della landa che lo ha partorito. Ronnie Jones è il tipico musicista randagio, ma gli brillano gli occhi quando ricorda la sua Springfield, sperduta nel lontano Massachusetts.
“Ringraziare sempre, tutti i giorni per il grande dono che abbiamo ricevuto: la vita”
, dice Ronnie. Sembra un ringraziamento laico, invece è la condensa dello spirito di un discjokey che, nell’Inghilterra degli anni ’60, non smise mai di flirtare con un il soul, spiaccicandolo sulle piastrelle incollate con il funk.

Mi va un boccone di traverso quando, prima di arrivare al secondo, mi racconta che, cinquanta anni fa, pure i Beatles andarono ad ascoltarlo. I quattro sbarbatelli di Liverpool, che avrebbero tatuato la pelle della musica, si fecero trovare in un locale dove Ronnie suonava. Era il 1963, lo stesso anno in cui fu fatto fuori JFK. Morì l’America quel 22 novembre? No. Per Ronnie anche John Kennedy fece i suoi errori, ma quel giorno fu doloroso per tutti, americani e non. Dove viveva allora si fermò tutto e sentiva come “se le gambe si fossero paralizzate”.

E la musica? Non va mai fuori moda. Ormai sono finiti i tempi della tutela della grandi case discografiche. I dischi si vendono durante i concerti in Italia come negli Stati Uniti. Mannaggia, il sorbetto lo mangiucchio da solo. Ronnie Jones è già sul palco. Si spengono le luci. Dal buio il primo sussurro della sua voce. Sono al Memo music club a Milano, ma mi sento a New York.

Stop alla violenza: “donna come l’acqua di mare, c’è chi invece la prende a botte!”

Tina Turner

Rosario Pipolo“Donna come l’acqua di mare, chi si bagna vuole anche il sole, chi la vuole per una notte, c’è chi invece la prende a botte”, cantava Mia Martini. Oggi 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, ci ricordiamo che una donna può finire al macello, con o senza il benestare del maschilismo vigliacco. Ci sono modi e modi per ferire e spesso gli schiaffi vanno oltre le ferite fisiche.

In Italia le riflessioni hanno bisogno delle ricorrenze per far rumore. Stamattina, prima di uscire a lavoro, sono sbucate dal mio archivio delle fotografie che mi hanno riportato a due incontri significativi degli anni ’90: Tina Turner e Franca Rame. Tina glissò in conferenza stampa, ma il film autobiografico What’s Love Got to Do with It accennava alla figura del marito “cattivo” Ike. Franca invece avrebbe condiviso il dolore della deplorevole violenza nell’intenso monologo Lo stupro.

A distanza di tempo ho ancora impresso lo sguardo di quei due temperamenti diversi, due donne così distanti che si saranno incrociate nel grembo della sofferenza. Quanto facciamo in Italia per la prevenzione? La scuola investe poche risorse per affrontare questo argomento a più livelli, senza un fattivo contributo per eliminare l’ignoranza in cui sono affogate le generazioni precedenti: le stesse che misero “il burka sociale e culturale” alle donne, che dovevano subìre senza fiatare. Ne ho sentite di storie, appartenenti alla generazione dei miei nonni, che con il passare del tempo hanno preso la piega dell’indifferenza infame.

“Donna come l’acqua di mare, c’è chi invece la prende a botte”. Qualcuno lo sta facendo in quest’istante, mentre sopravviviamo nella ricorrenza. Il 25 novembre non scade a mezzanotte.

Ricordare John Fitzgerald Kennedy nel “mio viaggio” 50 anni dopo

Rosario PipoloVoglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy con uno scatto ingiallito del ’92 che mi ritrae a Washington di fronte a quella fiamma che arde su pezzi di marmo gelido. Voglio ricordarlo attraverso un viaggio: da fresco diplomato, figlio di una casalinga ed un operaio, che sognò di diventare Forrest Gump per mettere piede alla Casa Bianca e stringere la mano al Presidente, ammazzato a Dallas il 22 novembre di 50 anni fa.
L’anziana signora, che portava al guinzaglio un barboncino bianco nel cimitero di Arlington, aveva stretto la mano a JFK. Me lo raccontò quel pomeriggio. Era rimasta affezionata al Presidente e, appena poteva, passava a fargli un salutino al camposanto.

Voglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy, senza scomodare il mio archivio e tirare fuori alcuni ritagli di riviste che misi via una marea di anni fa. Nel 2005, durante i settemila chilometri di traversata in USA con un autobus, feci tappa a Dallas. Non fu casuale.  Cercavo persone che avevano assistito al tragico corteo texano, volevo memorie, ricordi. Non trovai niente. Pochi rimasugli erano assiepati al Museo del Sesto Piano, sorto nell’edificio da dove JFK  fu ammazzato.
Me ne tornai a mani vuote, ma con il peso in valigia delle contraddizioni che sobbarcano la coscienza degli Stati Uniti d’America. Il Presidente più mitizzato d’oltreoceano era stato partorito dal grembo delle lobby e del potere, per giunta cattolico, ma pur sempre un democratico. Finì come un martire, dando spunti a giornalisti, sceneggiatori e scrittori per sostenere la legittima teoria del complotto, che andava oltre il perimetro semplicione della Guerra Fredda.

I colpi che fecero fuori JFK, riflessi nel volto spaurito di Jackie nelle sequenza più celebre della tv in bianco e nero, spazzarono via l’idillio degli “Happy Days” degli anni ’50 e infilarono tanti bottoni nel tunnel della guerra del Vietnam, nel diktat dei petrolieri texani, nel ghigno del rivale di sempre Richard Nixon.
L’America canterina mise al tappeto l’America sognatrice nello stesso giorno in cui, per ironia della sorte, in Gran Bretagna usciva l’album musicale “With the Beatles”. La colonna sonora dei Kennediani doveva essere il fronte del palco che si spartivano Bob Dylan e Joan Baez. Fu invece la canzoncina sensuale Happy Birthday, Mr. President di Marilyn Monroe, che affrescò la Casa Bianca con le prime pennellate di impeachment, prima ancora che la volgare Monica Lewinsky venisse al mondo.

Dopo mezzo secolo ancora mistero, fiction, menzogne, complotti, rimorsi, rimpianti. Allora non c’era Wikileaks per beffeggiare la CIA o l’FBI. Ci restano un mucchio di foto ingiallite con in cima quella in cui John John saluta il feretro del papà Presidente. E pensare che c’era il figlio di un operaio e di una casalinga che voleva stringere la mano a JFK. Forse ero io.

Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia: basta allo sproloquio su Facebook!

Rosario PipoloPiù di cinquant’anni fa sui rotocalchi di mezzo mondo circolavano gli scatti degli inquilini della Casa Bianca con i propri pargoli. Questo di JFK è uno dei tanti. Chissà se oggi, nell’epoca del consumismo usa e getta dei social network, le stesse immagini cadrebbero nella trappola che fa dell’infanzia “la merce” dell’egocentrismo di mamma e papà.
Il 20 novembre si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Sarebbe “cosa buona e giusta” far pulizia nel marasma di Facebook e rottamare l’abuso di immagini e racconti che trasformano i nostri figli in piccoli super-eroi.

I primi a farsene promotori dovrebbero essere insegnanti ed educatori. Si sa però che è arduo intromettersi, perché la paternità e la maternità si alimentano di piccole soddisfazioni che vanno assolutamente condivise. Ai tempi del telefono SIP si chiamava la suocera e si raccontava che “il pupo aveva fatto il primo caccone”.
Ai tempi di Facebook si inizia dalla gravidanza con un racconto quotidiano. Poi arrivano le foto della nascita e gli status dei primi mesi di vita, finché scatta il campanello d’allarme: le immagini del bimbo seminudo e il primo bagnetto.

Ai tempi delle scuole elementari, in attesa che suonasse la campanella, origliavo discorsi raccapriccianti. “Il mio secondo è davvero un genio. Fa la cacca profumata”, proclamava il papà di un mio compagno di classe. E l’altra mamma, dallo sguardo invidioso, replicava: “La cacca deve puzzare, altrimenti che maschio è?”.
Oggi ai tempi dei social network, i pupi si ritrovano in prima elementare un bell’account di Facebook tutto per loro, con gli elogi di mamma e papà, che li vogliono tutti bravi “cantanti, ballerini, musicisti, calciatori” e la promessa di spedirli presto dalla regina del talent show Maria De Filippi, che farà di loro una vedette.

Il primo passo potremmo farlo proprio in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: spegnere tutto questo e mandare in corto circuito la giostrina virtuale. Potremmo rincasare prima, goderci in privato il sorriso dei nostri cuccioli. Non sono “supereroi” perché sono bravi in questo o in quello, ma semplicemente perché sono la meravigliosa espressione della generosità della vita nei nostri confronti.

Diario di viaggio: la pizza di Raffaele ‘o veloce a Tavernola per sentirmi a casa

Il giorno in cui Raffaele ‘o veloce lasciò Maiori per andare a cercare fortuna nel Nord Italia, si ricordò cosa gli aveva detto una volta il papà con gli occhi sgranati sulla costiera amalfitana: “Rafé, meglio un piatto di minestra guadagnato con onestà che tutto il resto”. E lui, finito ai confini tra le province di Bergamo e Brescia, se lo ricordava tutte le volte che infornava e sfornava una pizza.

Non le ho contate tutte le pizze che Raffaele De Rosa ha preparato negli ultimi quarant’anni. Tuttavia, quando passo a Tavernola bergamasca, mi fermo da lui perché è qui la tana sul lago d’Iseo per sentirmi a casa. Corre voce che la sua pizza sia la migliore del lago. Per me è molto più, perché azzanno tutti gli ingredienti del mio Sud, non solo sulla pizza, ma anche intorno a me. I figli di Raffaele mi trattano come fossi uno di famiglia e la moglie mi offre puntualmente un liquorino alle erbe fatto in casa.
Una volta addirittura mi hanno offerto un posto per dormire, temendo che al ritorno potessi avere un colpo di sonno alla guida.

Il randagismo è indispensabile per un viaggiatore, perché scaccia via i pregiudizi per cui certi luoghi sono spogli di atmosfere. Il Sud non è prigioniero della geografia dei luoghi, ma vive libero lì dove le persone piantano con nuove storie le proprie radici. L’ultima volta che sono partito da Tavernola, Raffaele mi ha regalato un paio di pagnotte di pane fatte con le sue mani. Quella farina e quell’impasto hanno lasciato sotto il mio palato il sapore genuino che chi emigra lascia nel posto in cui va. Per questo motivo la famosa pizza di Raffaele ‘o veloce a Tavernola Bergamasca ha un grande merito: disegna i contorni dell’itinerario che ci riporta sulla via di casa, strada maestra per essere sé stessi.

Dalla terra dei cachi alla terra dei fuochi: ‘e legnasante avvelenate

Rosario PipoloI loti li chiamavano ‘e legnasante nella striscia di terra che a ridosso della periferia di Napoli si spingeva fino alle alture dei paesotti vesuviani. Era la terra dei cachi, quelli saporiti, ai tempi in cui il potere della Nuova Camorra Organizzata ruttava dal quartier generale alla falde del Vesuvio.
‘E legnasante erano un’altra cosa, robusti come il potere dei papponi democristiani di allora, affiliati con i clan che iniziavano a seppellire veleno nelle campagne. ‘E legnasante non avevano niente a che fare con “i cachi molli”, quelli che mangiavano gli uomini di buona volontà, sognatori di una terra diversa per i propri figli. ‘E legnasante circolavano in parrocchia per zittire i preti pronti a denunciare piuttosto che a far finta di non vedere o a far sermoni sulla parola di Dio.
‘E legnasante erano il frutto dei poteri forti e occulti che, nel giro di quarant’anni, hanno messo in piedi un impero, prima di trasferirsi al Nord Italia e continuare a fare business.

E non c’era bisogno della profezia di un boss per sostituire l’insegna “benvenuti nella terra dei cachi” con quella “bentornati nella terra dei fuochi”. Non era necessario l’uragano mediatico, accompagnato dalla fastidiosa punta di commiserazione e pietà nei riguardi del Meridione sofferente, per urlare con il megafono “la vostra terra è zeppa di veleno”. Non è stato confortante scovare nel corteo delle recenti fiaccolate tante facce note. Sono le stesse che decenni fa avevano barattato ‘o posto fisso per i propri figli in cambio dell’omertà, del silenzio fradicio, di una mazzetta che toglieva sangue e sudore ai propri risparmi.

Oggi dalla pendici del Monte Somma, lo schienale del Vesuvio ancora dormiente, si scorge la terra martoriata in cui è stato fatto un piccolo genocidio di uomini, donne e bambini. A dieci, a venti, a trenta o a sessant’anni non si muore per uno “stile di vita scorretto” – come ribadì un ministro miope – ma per le sostanze tossiche ingoiate da più generazioni, stordite dall’elettroshock del “cumpà, tiramme a campa’”.

Dove sono finite ‘e legnasante saporite? Ne voglio mangiare a bizzeffe, strozzandomi con il  “mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa”. Ciascuno è stato assassino nel suo piccolo ed è inutile giocare a nascondino con i capri espiatori.