Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives Gennaio 2014

Quando su Linkedin e Twitter vogliamo passare per ciò che non siamo

Rosario Pipolo“Strateghi del digitale”, “social media manager”, “giornalisti enogastronomici”, “creativi”, “guru P.R.”, “fashion blogger” sono soltanto alcuni termini di cui abusiamo ogni santo giorno. Tutti siamo o abbiamo l’arroganza di sapere far tutto, soprattutto nel campo dell’intrattenimento e della comunicazione digitale. Insomma, mentre per fare il meccanico, l’idraulico o il fresatore occorre essere specializzati, basta mettere il naso tra Linkedin e Twitter per capire che l’illusione di massa può essere vista così: tutto sommato ci sono delle professioni che possiamo inventarci dall’oggi al domani e la sindrome del “tuttologo” imperversa. Prendi l’arte e mettila da parte? No, mi invento una posizione lavorativa extra-large.

E così l’impiegata strozzata dalla routine vorrebbe farsi passare per mente creativa; il bancario in prepensionamento, da “buona forchetta” che era a casa di mammà, (s)vende frustrazioni improvvisandosi giornalista enogastronomico; il piazzista del paese mette giù il megafono da “arrotino” e fa le digital P.R.; l’infermiera, dopo una vita nelle corsie degli ospedali, apre un bel blog e diventa stellina fashion tra i cosmetici che vendeva sottobanco per arrotondare lo stipendio.

Chissà quante risate si fanno quelli delle Risorse Umane sbirciando tra i profili e quanti mal di pancia diventano incurabili per le medie e grandi aziende quando scambiano piccole botteghe a gestione familiare per startup. Ah, ci fossero le vecchie botteghe di una volta, abitate dal mastro che conosceva il suo mestiere!

Finita l’epoca dei maxi bigliettini da visita, affollati di titoli e mansioni, comincia quella dell’about us nella giungla confusionaria dei social network. Le job title bizzarre durano il tempo di una stagione, perché a confermare la professionalità sono la storia e l’esperienza che ognuno di noi si ritrova alle spalle. A ciascuno il suo… mestiere!

Diario di viaggio: Andrea, ci vediamo domani!

Rosario PipoloAdoro gli album di famiglia, non quelli digitali che affollano i nostri pc. Quelle foto di carta finite nei cassetti dei nostri comò, sparpagliate, lontane dalla luce del sole. Scatti intimi, privati, discreti. Me ne porto sempre via uno dopo i miei viaggi.

A Pasqua dell’anno scorso sono finito nel lodigiano. Ero rammaricato perché non ero riuscito a raggiungere i miei. Da qualche parte c’era scritto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. Ho condiviso quella domenica con Andrea, stessa età del mio papà più o meno, storie e provenienze diverse però. Lo avevo già visto in diverse occasioni, ma quella fu la volta buona in cui condividemmo storie di famiglia che unirono il mio Sud al suo Nord. Improvvisamente la pelle della nostra memoria cambiò colore e diventò meticcia.

Andrea mi mise di buon umore, mi piaceva la sua saggezza spicciola, a portata di mano. Mi piaceva come a modo tutto suo filava i ricordi, proprio come mia nonna faceva con la lana. Mi piaceva come guardava la moglie Daniela, di sbieco, come per dire “da quando mi sono innamorato di te, non hai perso un’acca del tuo entusiasmo”.

Quella domenica nel lodigiano osservai Andrea con attenzione. In ogni suo gesto – da come si serviva l’insalata a come si guardava intorno – mi resi conto che era stato un uomo che aveva vissuto per la famiglia, vigile ai dettagli che sono il solvente dei legami intensi. Nel tardo pomeriggio ce la svignammo e finimmo a casa sua sul divano.
Accese la smart tv e mi mostrò un paio di righe che avevo scritto. Scoprii che Andrea era un mio lettore. Borbottò qualcosa guardando una vecchia foto e poi concluse rielaborando un pensiero di Martin Luther King: “Io ho davanti a me un sogno, che le mie figlie e nipoti invecchino in una zolla di terra in cui non saranno giudicati per l’apparire, ma per le qualità del loro carattere”.

Non dobbiamo mai smettere di contarli i sogni, proprio come faceva Andrea. Perciò alla fine di ogni viaggio non mi piace ripetere “addio”, ma “ci vediamo domani”.

L’alluvione di Modena e la barzelletta delle “nutrie”

Rosario PipoloPer quelli come noi cresciuti ad ascoltare i Modena City Rumblers e ad incollare figurine Panini, Modena è la città che vorremmo continuare a vivere senza l’opportunismo tipico di chi è di passaggio. “Per sempre, Modena”, brindò un anziano signore in una vecchia osteria modenese in uno dei miei vagabondaggi nella città emiliana.

Se non fosse per l’occhio vigile dei social network, nessuno ci racconterebbe l’altra Modena: quella travolta dal fango di queste ore dell’alluvione di cui si sa davvero poco. Convivere con un fiume è complicato e le urla del Secchia i modenesi le conoscono bene così come i piacentini quelle del Po.

Siamo all’ennesima ripetizione. L’Italia non è un paese di “prevenzione”, non lo è mai stato e non riesce ad esserlo oggi in cui le casse degli enti locali si svuotano per “i rimborsi truccati” di qualche scellarato che collezione scontrini di carta igienica e albi a fumetti. Mentre chi ci governa è indaffarato a rimescolare le carte della legge elettorale in prossimità dell’elezioni, diamo la colpa alle “nutrie” e così la piccola tragedia si riduce ad una barzelletta. A proposito, i nostri politici sanno cosa sono le nutrie?

Ieri l’hashtag su twitter era #AllertaMeteoSAR, oggi è #AlluvioneMO. Domani a chi toccherà? Non ne possiamo più dei soliti omogeneizzati e qui non si tratta di essere ambientalisti o no. Il titolo dell’ultimo album dei Modena City Rumblers sembra quasi profetico: Niente di nuovo sul fronte occidentale!

Michele Liguori, il vigile eroe della Terra dei Fuochi che multò l’omertà

Rosario PipoloMeglio soli che male accompagnati. Da oggi Acerra, il paesotto alla periferia di Napoli che diede i natali a Pulcinella, sarà ricordata come la terra avvelenata baciata dal coraggio di Michele Liguori, il vigile urbano che si fece sentinella dei rifiuti tossici. In tanti pensavano che il settore ambientale della polizia municipale locale fosse affollato da “eroi”, invece ce ne era uno solo: Michele Liguori appunto che, flagellato da due tumori, se n’è andato dopo una lotta continua per difendere la sua madre terra.

Se dietro una sterpaglia c’era veleno, Liguori faceva di tutto per approfondire, capire, denunciare. Ha sottratto molti della sua categoria al cliché del vigile, esasperato abilmente da Zampa nell’omonimo film con Alberto Sordi. Poteva restare tranquillamente a fare il suo mestiere con fischietto e paletta, invece no. E’ stato “capa tosta”, come ripeterebbe ogni impavido napoletano scampato alle minacce dell’omertà.
Sì, Michele “capa tosta” che ha sfidato le ecomafie, gli imprenditori e i politici connessi direttamente o indirettamente con la criminalità organizzata. I dispetti e le minacce non gli sono bastati per fargli appendere al chiodo la divisa.

Tutto sommato questo vigile impavido ne poteva fare a meno di divisa e stellette, perché lui apparteneva ad un’altra razza, figlia di un altro tempo: quella degli aborigeni che avrebbero difeso a spada tratta la propria tribù. Non sempre la tribù è all’altezza di comprendere i sacrifici e così ti volta la faccia quando meno te lo aspetti.

Tutti i vigili stasera dovrebbero alzare la paletta in contemporanea per le strade di ogni città d’Italia, piccola o grande che sia. Il cielo è avvolto dal mistero della magia delle stelle, la terra ammantata dai sogni degli uomini di buona volontà. Il vigile Michele Liguori ha fischiato fino all’ultimo respiro, multando quell’omertà che vorrebbe il Sud prigioniero di una terra senza libertà.
Si dedicano strade, piazze e lapidi agli eroi fasulli della provincia in maschera. Finalmente Pulcinella si è tolto la maschera e non assomiglia a quei quattro tripponi che pensano di muovere i fili del potere.

Meglio soli che male accompagnati. Michele Liguori solo, lui e la sua madre terra, che da oggi custodirà le sue spoglie da cui germoglierà una nuova e più umana speranza.

Il Capitale umano e la Brianza ferita nell’onore da Virzì

Rosario PipoloQuando nelle sale uscì il film “Benvenuti al Sud”, i brianzoli se la ridevano sui pregi e difetti dei simpatici terroni. I protagonisti della divertente commedia non misero giù il muso, anzi ne apprezzarono il colore. Non a tutti veste bene l’umorismo e così l’ultimo film di Paolo Virzì ha suscitato il patatrac. Non l’avessero mai visto “Il capitale umano” i monzesi e i politici locali. Non l’avessero mai proiettato nel feudo della Brianza, in cui l’isolamento dalla milanesità è così marcato da voler apparire un piccolo cantone svizzero in terra lumbard.

Se la provocazione fosse arrivata da un regista milanese, i brianzoli avrebbero replicato con la solita filastrocca: “È solo invidia. Il Duomo di Monza non ha niente a che vedere con quello di Milano.” Invece arriva da un toscano, anzi no da un livornese. Come replicare? Avessero l’inguaribile umorismo in stile Vernacoliere, potrebbero prendersi meno sul serio e scrollarsi di dosso i tipici pregiudizi dei provinciali che vogliono passare per quelli senza la puzza sotto il naso.
Ricordo la battuta di un agente immobiliare di Lissone qualche anno fa: “Dopo aver visto al cinema Gomorra, non volevo più vendere case ai napoletani”. Meno male che non aveva visto il meraviglioso “Io speriamo che me la cavo” della Wertmüller, altrimenti chissà quale altra idea si sarebbe fatto di noi meridionali

La Brianza non è abitata solo da disonesti, così come la mia Napoli o la Livorno di Virzì, ma anche da tanta gente semplice e perbene. Ci mancherebbe. Tuttavia, ricordiamo a chi lo avesse dimenticato che il cinema non è un passatempo qualsiasi, ma un osservatorio privilegiato di ciò che accade intorno a noi. Il polverone e le polemiche dei giorni passati mi risultano inutili e sterili così come, negli anni del potere andreottiano, si diceva che le pellicole del Neorealismo erano state nocive per l’Italia, perché “i panni sporchi si lavano in famiglia”.

Nel 1997, al Festival del cinema di Venezia, feci sorridere Paolo Virzì. Alla mia bizzarra richiesta di mangiare assieme un piatto di cacciucco a Livorno rispose: “Quando farò un film con tanti spunti di riflessione”. E’ arrivato il momento.

I Terrasonora e la lezione di umiltà dei “discepoli” nella Napoli musicale degli imperatori

Rosario PipoloNapoli è fatta di ghetti culturali, piccoli o grandi che siano, a teatro come nella musica. I “teatri di guerra” di Mario Martone, a distanza di anni dall’uscita di quel film, ci lasciano tanti spunti di riflessione. Nei primi giorni dell’anno nuovo continuiamo a chiederci se qualcosa cambierà. Poi puntualmente, presi dallo sconforto, lasciamo tutto così.
“I baci e gli abbracci” sul palco del Palapartenope, in occasione della reunion di Pino Daniele con i protagonisti della musica degli anni ’70 all’ombra del Vesuvio, contrastavano solo apparentemente questa polaroid cinica. In fin dei conti abbiamo assistito ad una bella serata musicale, ma eravamo mille miglia distanti dall’atmosfera di una vera Woodstock partenopea.

Gli arrangiamenti musicali possono essere identici a quelli di quaranta anni fa, ma le faide artistiche, le prese di posizione, le guerre fratricide, l’arroganza, le separazioni in casa, i divorzi o il ghigno diabolico del divo non si cancellano. Giocando con le parole di un aforisma di John Kennedy, potremmo metterla giù così: “Perdona i tuoi nemici, ma non dimenticarti mai i loro nomi. Anzi, per l’occasione trasformali in amici”.

Eppure qualche volta accade che le lezioni ce le diano i “discepoli” e non “i maestri”, spesso distratti dalla maschera dell’imperatore. Eravamo troppo presi a disintossicarci dalle grandi abbuffate natalizie per dedicare la meritata attenzione ad un happening musicale dell’hinterland napoletano: i Terrasonora, la band folk emergente esplosa a Musicultura 2010, protagonisti di un imperdibile gemellaggio musicale con la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Un gemellaggio vero, fatto di umiltà e riverenza, con la grinta di chi vuole guardare al futuro rispettando la memoria. Ascoltare l’intreccio di voci e musicisti di generazioni diverse mi fa insistere su un punto. Perché i pochi minuti su un palco non possono trasformarsi in un dialogo o in una collaborazione permanente?

Napoli è fatta di ghetti culturali, piccoli o grandi che siano, a teatro come nella musica. I maestri non sono tali se mostrano incertezza nel condividere la propria arte con i discepoli. E qualche volta si ripete l’illuminazione di Dàvila: “Le incertezze del maestro sono le certezze del discepolo”.