Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives 2014

Viaggiatore tra tempo e luoghi nel mio 2014

Rosario PipoloCi sono tanti modi per viaggiare ed io ne ho sperimentato vari in questo 2014: da questi a corto e lungo raggio per guardare negli occhi i nuovi lettori del mio romanzo – scrivere è per me il pretesto per avere la valigia sempre pronta – a quelli dell’ultimo minuto per inteccettare nuovi legami.

Viaggiare per solfeggiare la memoria perché un arrivederci sia la speranza di continuare a camminare insieme: “Non dobbiamo mai smettere di contarli i sogni, proprio come faceva Andrea. Perciò alla fine di ogni viaggio non mi piace ripetere addio, ma ci vediamo domani”.

Viaggiare per capire dopo vent’anni  quando la mia passione per la scrittura sia diventata un mestiere. L’aneddoto, una macchina da scrivere Lettera 35 fregata a mia sorella e la benedizione di un direttore di un quotidiano del Sud Italia: ““Guagliò, sei cresciuto ormai. Continua a camminare con le tue gambe”.

Viaggiare per ritrovare una scuola di periferia e chi l’abitava. “La scuola ai tempi in cui ero allievo sedimentava legami speciali tra docenti e alunni”.

Viaggiare per far ritorno nell’abitacolo dell’infanzia che ti sussurra al cuore tutto ciò che un tempo eri troppo distratto per ascoltare: le sorelle come dono di Dio o i compleanni vissuti in vacanza che fotografano l’istante dell’insostenibile leggerezza dell’essere.

Viaggiare verso Mosca perchè “per fare il futuro ci vuole impegno civile; per fare impegno civile ci vuole memoria, per fare memoria ci vuole il coraggio di uomini e donne come Anna Politkovskaja”.

Viaggiare per affogare tra le ferite della memoria, restando ammutolito salendo le scale del Sacrario Militare di Redipuglia o spingendomi fino all’altra Slovenia, quella della Caporetto che ci ficcarono in testa ai tempi in cui mettemmo mano ai sussidiari di storia delle scuole elementari: “Mangia soldato, ingoia questi bocconi amari, perché il rancio che ti passavano non aveva niente a che vedere con i cibi cotti a legna da tua madre.”

Viaggiare per essere protagonista del futuro in una lettera scritta alla piccola Noemi e lasciata nella sua culla sulla frontiera tra il bresciano e il mantovano: “Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio.”

Viaggiare per  ascoltare la voce dell’anno che verrà: Se nasce una stella in Valcamonica la chiameremo Martina.

Cuba e la farsa della caduta del muro dell’Avana

Rosario Pipolo“Continueremo ad andare avanti come fossimo insieme a te con Fidel ti diciamo: Per sempre, Comandante Che Guevara!”. Il tempo sciacqua tutto? Le parole del vecchio inno rivoluzionario cubano, Hasta siempre di Carlos Puebla, sono state seppellite dal sound di Candido Fabré e la sua orchestra, colonna sonora dell’apertura di Cuba al turismo di massa e alle “tette e culi latini”, l’attrazione vera per i maschi “arrapati” americani.

L’annuncio di Barack Obama di porre fine allo storico embargo americano verso Cuba – sembra uno slogan da campagna elettorale per recuperare punti dopo l’ultima batosta repubblicana –  vorrebbe farci bissare l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino.
La cortina di ferro tra Usa e Cuba era iniziata a sgretolarsi quando Raul Castro aveva rimpiazzato di fatto il fratello Fidel e i venti di occidentalizzazione cominciavano a far comodo ai cubani.

Più che Bergoglio in questo processo c’entra la storica visita del ’98 di Karol Wojtyla a Cuba che, non solo servì a ridimensionare gli ululati nostalgici del compagno Fidel, ma anche a ricordare al dittatore cubano che i cattolici sull’isola erano una forza numerica da riconoscere e tutelare.
Per tornare agli americani, l’inasprimento dell’embargo cubano fu l’errore più clamoroso della fallimentare politica estera di John Kennedy.
La Cuba castrista, per decenni spina nel fianco degli USA, battagliò in autonomia la sua “guerra fredda” lontano dall’ex URSS, vendendo a noi occidentali l’immagine di isola felice comunista. I dissidenti che lasciarono l’Avana andavano dicendo il contrario.

Quando vedremo fast food americani in centro all’Avana, ci chiederemo se mai il tanfo di un hamburger sia così disgustoso da esiliare l’olfatto della storia. La rivoluzione cubana fu prima di tutto rivolta intellettuale e i primi indizi sono disseminati nei Diari di viaggio del medico Ernesto Che Guevara.
I balli, le tette e i culi cubani così come le concessioni opportunistiche degli USA non potranno mai cancellare lo sforzo di piccoli uomini che sognarono e perirono per un mondo più umano, più giusto, più equo.

Virna Lisi, stile ed eleganza anche in “Sapore di Mare”

virna_lisi_sapore_di_mare

L’attrice vera può tutto. Virna Pieralisi ha stile ed eleganza anche in una commedia degli anni del riflusso che ha girato sulla giostra cinematografica della mia generazione.

Fino al 1982 Sapore di mare era il titolo della canzone su cui mia mamma aveva ballato una miriade di lenti a quelle festicciole fatte in casa. Con il film dei fratelli Vanzina divenne il ponte dei sogni tra coloro che cazzeggiavano in spiaggia con la musica del primo Vasco e coloro che avevano preso la tintarella sulle spiagge degli anni ’60.

L’attrice vera può tutto. Può accendere una sigaretta, lanciare lo sguardo nel vuoto e sentirsi la moglie trascurata in vacanza del milanese cafone e arricchito che la raggiunge nel weekend a Forte dei Marmi. Virna Pieralisi può concedersi il lusso di vestire l’abito dell’Adriana Balestra dei fratelli Vanzina, senza perdere mai stile ed eleganza.

L’attrice vera può tutto. Può ritrovarsi all’alba degli anni ’80 nello stesso film a ballare un lento con il figlio giovane che chiede: “Mamma, ma com’era l’epoca tua?”. E Virna Pieralisi, alias Adriana Balestra, fa un leggero sospiro e risponde con stile ed eleganza: “Mi pare di ricordare che ci batteva il cuore”.

Alla mia generazione, quella che vide trionfare la Nazionale ai Mondiali di Spagna dell’82, Virna Pieralisi “ha fatto battere il cuore” proprio su quella battuta, senza sapere che nello sguardo della signora Balestra dei Vanzina c’era quello di tante altre donne vissute oltre la macchina da presa del cinema dei Mattioli, dei Losey, degli Steno, dei Bolognini, degli Zampa, dei Lizzani, dei Pietrangeli.

Invecchiando, la sua bellezza rugosa era ancora più raggiante così come l’intelligenza, lo stile, l’eleganza. Le diedero un nome d’arte e poco importa: Virna Lisi.

I Dieci Comandamenti di Benigni e il catechismo del giullare di Dio

Rosario PipoloQuarant’anni fa con la tv di Stato sul groppone della Balena Bianca, sarebbe stato impensabile vedere “il piccolo diavolo” – lo stesso che prese in braccio Berlinguer – sul primo canale nazionale.
Nel tempo in cui il Servizio Pubblico si è omologato agli standard della volgarità televisiva, I Dieci Comandamenti di Roberto Benigni sono un bel dono di riflessione per correre ai ripari tra le braccia di Dio, nei giorni che vanno spediti verso il Natale: “In Italia la politica non c’è, buttiamoci su qualcosa di più concreto, Dio”.

Certo, questo “dono natalizio” ci è costato 4 milioni di euro – sono in tanti a lementarsi tra le corsie del supermercato dei social network – cifra comunque comprensibile se pensiamo agli sprechi passati e inutili del palinsesto televisivo nazionale o di quel canone versato per vedere stellette riciclate al Festival di Sanremo. Roberto Benigni che parla della Bibbia? “La Bibbia è un bestseller perché l’autore è anche l’Autore dei suoi lettori”.

Prima di buttare lo sguarso sul libro sacro, l’incipt di attualità è immancabile: “Stasera abbiamo avuto il permesso di tutti, della Rai, della questura e della banda della Magliana”. Che smacco per i cattolici “integralisti” trovarsi in prima serata “un giullare comunista” che tiene lezioni di catechismo, aggiudicandosi il titolo di “giullare di Dio”, perché la grandezza del Padreterno non si abbassa ai luoghi comuni o alle meschinità ideologiche.
La grande bellezza di Dio, al di là delle religioni, si propaga attraverso la voce del toscanaccio dal cuore aperto: “Per parlare di Dio bisogna tornare bambini. Come diceva la mi’ mamma più si cresce, più non si capisce niente”.

La televisione dei Dieci Comandamenti di Roberto Benigni non è paragonabile alla densità e alle suggestioni dell’anima nel cinema di Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Resta comunque un momento emozionante di televisione che bacchetta la nostra rincorsa frenetica verso un Natale svuotato del suo significato, dimenticando che “Dio ci ha ha allargato la testa, mettendoci dentro l’infinito”.
E la bestemmia umana è “aver combattuto in tremila e passa anni di storia più guerre in nome di Dio che per qualsiasi altra cosa”, calpestando e oltraggiando un comandamento, chiave di lettura dell’evoluzione dell’umanità: “Io sono il Signore Dio tuo. Il patto d’amore è tutto in quel tuo”.

Roberto Benigni ci ha fatto venire una voglia matta di stare zitti, perché “il senso di Tutto è nel silenzio e non nel frastuono”, e di tornare a leggere quella Bibbia, scrigno della “voglia dell’Onnipotente di trasmettere amore a più generazioni”. Scemate le polemiche, i casi sono due per “il piccolo diavolo”: o lo spediscono al rogo o lo fanno cardinale. Non escluderei la seconda ipotesi, perché al fianco di un Papa Francesco ce lo vedrei bene un giullare alla Benigni.

Diario di viaggio: se nasce una stella in Valcamonica la chiameremo Martina

Rosario PipoloChi appartiene come me alla salsedine del mare può cogliere nell’introversa montagna lo stimolo per fotografare un aspetto più introspettivo. Così, mentre cammino sul Tonale a 2.500 mertri d’altezza insieme al maestro della Scuola di Sci Ponte-Tonale Mauro, ripercorro la storia della scuola sciistica più antica della Valle Camonica.
Osservare Laura che insegna ad un bimbo a muovere i primi passi sulla neve, mi riporta a mio padre che mi aiutava a liberarmi dalla prigionia dei “braccioli” per la prima nuotata da bimbo a mare.

Questo per dire che il mito della settimana bianca potrebbe essere capovolto e allungato in un viaggio sulla neve in vista di un dettaglio della memoria: da quell’ex sindaco che rese Ponte di Legno la prima stazione sciistica ad avere la neve artificale – un pioniere visti i recenti sgambetti del meteo -al sacrario militare del Tonale che si spartisce il confine tra Lombardia e Trentino, conficcando nei nostri cuori la commozione per i caduti camuni della Grande Guerra.

Per dialogare con la Valcamonica invernale, può capitare di tutto: un buon piatto sostanzioso al Maso Guera, il sorriso di Elisa alla reception del Residence PontediLegno, una cena con tour operator di mezza Europa alla Sosta dei Sapori di Vezza D’Oglio e una torta fatta in casa da Carla per una colazione da Raggio di Luce.
Qui il tempo sembra essersi fermato e non c’è quella frenesia da smartphone che ti impedisce di guardare negli occhi le persone: Giovanni, il macchinista del trenino che porta grandi e piccini tra le stradine di Ponte di Legno, diventa conducente nei mie spostamenti, negli incontri casuali che mettono a tacere il campanilismo, ostacolo per vivere a pieno le emozioni dei luoghi.

Qui a Ponte di Legno la strada è ancora il luogo privilegiato per condividere il filo delle amicizie che uniscono l’Italia: dalla Sicilia di Antonio alla Calabria di Salvatore, dal Po piacentino di Antonio alla Valcamonica di Gianfranco, quest’ultimo autista della linea di autobus Milano-Ponte che mi riconosce e mi fa festa. E la neve? Quella arriva con la musica di SnowBeat e l’attesa dei bimbi che muoiono di scrivere sulla neve “felicità è affrontare la vita col cuore di noi piccoli”.

Corriamo maledettamente con la frenesia di sempre verso Natale. Qui in Valle Camonica i ritmi rallentati mi fanno tornare la voglia di far famiglia, di condividere ritagli di storie locali, come quelle che da quarant’anni Romano filma e trasmette attraverso le antenne di TelePontediLegno, con la complicità dell’operatore video Valerio.

Sulla strada del ritorno incrocio i volti felici di una coppia che canticchia: “Se nasce una stella in Valcamonica, la chiameremo Martina”. Nella loro gioia di diventare mamma e papà aumenta la mia voglia di tornare tra queste montagne. Questo non è un racconto immaginato. Questo è l’inchiostro di un viaggiatore convinto che le storie autentiche dovrebbero tornare a circondare il nostro stile di vita per farci sentire la vera sostanza di essere umani.

Fottuto “cuore” ci porti via Mango, gran bella voce della musica italiana

pino_mango_saremo

Rosario PipoloLa notizia di Mango stroncato da un infarto mi è apparsa come uno scherzo di cattivo gusto. Non volevo crederci. Forse ha ragione Enrico Ruggeri a tuonare dalla sua pagina Facebook: “Ora leggo belle frasi da giornalisti che non andavano da anni a un suo concerto, radio che non passavano le sue nuove canzoni e discografici che non avevano più voglia di investire su di lui”. Parto proprio da questo misto di dolore e rabbia.

Giuseppe Mango, una delle vocalità più interessanti del panorama musicale italiano, è rimasto l’outsider per eccellenza al tempo in cui la musica si è liquefatta e Lei verrà, che fece fare un botto di soldi ai potenti della Fonit Cetra, conserva nel suo isolamento musicale i canoni della ballata pop che si veste di world music.

Ho conosciuto Mango al Festival di Sanremo del 2007. Ci incrociammo per strada e mi restò impressa questa sua dichiarazione: “Devo molto al palco dell’Ariston. Penso che chi faccia il mio mestiere debba tenersi alla larga da ogni forma di snobismo”. In questo Mango aveva proprio la veracità dei lucani che sanno apprezzare le occasioni della vita. Mango si era portato con sé la Basilicata, proprio in quella vocalità capace di smuovere i sassi di Matera per fare della sperimentazione il punto di congiuntura con la voce che si fa strumento.

Detesto i famigerati “coccodrilli”, che fanno a volte di noi giornalisti, allevati nello spettacolo, dei viscidi avvoltoi. Lo tiravi fuori appena giungeva in redazione la triste notizia e ti affidavi a parole surgelate piuttosto che a riflessioni postume. Nel caso di Pino Mango il “coccodrillo” è stato utile a tutta quella ciurma, a cui Ruggeri in parte faceva riferimento, che lo ha dimenticato strada facendo.

Pino Mango non ha bisogno del rimorso post-mortem che scatta tra gli addetti ai lavori. Le dimenticanze si pagano e a caro prezzo. Perciò è giusto che le sue canzoni ora stiano alla larga dalle penne avvelenate dei giornalisti, dai microfoni delle radio distratte o dagli elogi funebri dei discografici che prima o poi ti lasciano crepare nella fossa dei leoni.

Le canzoni passano in eredità al pubblico che lo ha amato, che ha colto la spiritualità dietro la sua maniera di fare il musica, che ha legato gioie e dolori del privato ai versi di Mediterraneo, Oro, La rondine o agli atti di generosità come Io nascerò per la Goggi.

E pensare che Pino Mango il suo testamento lo aveva filato nei versi di questa poesiola musicata: “Nella mia città c’è una casa bianca con un glicine in fiore che sale, sale, sale su. Sulla mia città c’è un cielo grande che ti spalanca il cuore e non ti delude mai”. Ed è proprio in direzione di tale città che ricomincia il suo nuovo viaggio. Ci mancherà.

Gaffe oltre il cinema: La scuola “più bella” del mondo non è ad Acerra?

Rosario PipoloQuando nel 1998 fui inviato dal giornale sul set del film Ferdinando e Carolina di Lina Werthmuller, nella mia intervista alla regista ci fu un’intrusione relativa al precedente Io Speriamo che me la cavo: “Signora, ci pensa al patatrac se nel film avesse lasciato Arzano al posto di Corzano?”. La Werthmuller sorrise. Per il film tratto dal libro del maestro Marcello D’Orta fu apparente questione di diritti d’autore, anche se qualche valutazione fu fatta tanto che la suscettibilità degli arzanesi non fu intaccata.

L’uragano mediatico dei social network ha amplificato la voglia spasmodica di apparire, passando con disinvoltura dal Berlusconismo retrò della tv commerciale al Renzismo “a bordo piscina” nel salotto di Barbara D’Urso del digitale terrestre. La community, pur di avere un posto di rilievo sotto i riflettori, è pronta a svendere la dignità superstite.
Una volta si ricorreva alla “madonnina che lacrimava” per sperare che il luogo in cui abitavamo si trasformasse, dall’oggi al domani, in un luogo di pellegrinaggio, mistico o folk poco importava. Oggi si ricorre al Cinema: è accaduto a Santa Maria di Castellabate, location del film Benvenuti al Sud, che ha fatto botto nel turismo estivo grazie al beneficio della macchina da presa.

Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Infatti, ad Acerra, la città alla periferia di Napoli protagonista del film di La scuola più bella del mondo, è andata davvero male. La comunità locale, smaniosa di specchiarsi sul grande schermo, si è ritrovata intrappolata nel gioco goliardico del tiro alla fune tra Nord e Sud. A pagarne il prezzo è stata soprattutto la scuola pubblica locale, che nel film non è di certo quella frequentata da me negli anni ’80.

Prima di dare ospitalità alle riprese, chi ha letto la sceneggiatura – o forse è legittimo avere il dubbio che  mai sia stata visionata – avrebbe dovuto mettere in secondo piano quel “divismo” di cui siamo tutti vittima. Questo per non infangare la memoria degli “insegnanti di frontiera” che, nelle aule della Scuola Pubblica alla periferia di Napoli, donarono l’anima pur di essere seconda casa e punto di riferimento per tanti ragazzi provenienti da contesti familiari disagiati, oggi stemperati nello stereotipo del film di Luca Miniero.
Ed io ho avuto la fortuna di crescere nella scuola pubblica con gli insegnanti, che mi tennero alla larga dai bamboccioni e polli d’allevamento dei banchi della piccola scuola privata di paese, inclusa quella delle graziose suorine, dove si ovattava il disagio sociale.

All’alba del cinema, la scivolata su una buccia di banana era il motore per una fragorosa risata. Oggi invece, nella cornice del Renzismo “a bordo piscina”, la scivolata su una buccia di banana è un fallimento riconoscibile e la risata è di cattivo gusto.

Aznavour Anthologie, un bagno di musica nel legame con Lilina Bazin

Rosario PipoloE’ complicato mettere mano al repertorio musicale di Charles Aznavour, monumento della musica francese e d’oltralpe. Universal Music Francia è riuscita nell’ardua impresa, raccogliendo nel meraviglioso cofanetto Aznavour – Anthologie, prodotto in soli 10.000 esemplari numerati, i 45 album del cantautore francese arricchiti da altri 15 cd tra inediti, rarità, duetti e interpretazioni di classici in italiano, spagnolo, inglese e tedesco.

Ci sono due momenti del mio lavoro che mi riportano all’autore di successi come A ma femme, Il faut que savoir, Tous le visages de l’amour (She): la recensione del concerto del 2010 in piazza San Marco a Venezia e l’incontro a Milano di alcuni anni prima. Del concerto ho il ricordo di un’ugola che, in prossimità dei 90 anni, castigò l’orchestra che non riusciva a stargli dietro, regalando un memorabile canto a cappella.
A Milano invece Aznavour era venuto a presentare un libro. Mi feci strada tra la gente e, a pochi metri da lui, spalancai la copertina apribile di un vecchio disco Barclay. Interruppe il rito degli autografi. Fece cenno di farmi passare. Gli occhi gli brillavano. Io e Charles Aznavour restammo in silenzio faccia a faccia. Mi tolse il pennarello da mano e mi firmò il vinile senza che aprissi bocca.

In quel silenzio, così come in questo bagno di musica, la voce di Charles Aznavour si lega inesorabilmente a quasi un secolo di storia francese, dalla grande illusione della Quarta Repubblica alla dolorosa Guerra d’Algeria, dalle contraddizioni del Gaullismo al socialismo machiavellico di Mitterand, dalle ombre di Chirac sulla rivolta delle banlieue parigine ai gossip di Sarkò.

Il tempo barerà pure ma non riuscirà mai ad importi le canzoni. Quelle di Charles Aznavour hanno accompagnato la vita di tanti francesi adottati come Lilina Bazin, il cui ricordo mi restituisce legami e affetti che non hanno bisogno di inutili schemi.
La musica non inganna. Ti aiuta a superare i momenti difficili, perché una canzone non si ascolta mai da solo. La spartisci sempre con qualcuno o con il ricordo di un momento vissuto ma con la piena coscienza che l’intensità dell’attimo è fuggiasca. Aznavour era figlio dell’Armenia, Lilina era figlia del Sud Italia, concimato nella famiglia messa al mondo nel Sud della Francia.

E oggi questo bagno di canzoni francesi, da cucire e ricucire, da tradurre e ritradurre, è un buon pretesto per ricordarla non solo come zia sensibile e premurosa ma come punto di riferimento per chi come me trovò, proprio grazie a lei, una parte delle radici perdute nella Francia cantata da Charles Aznavour.

Diario di viaggio: l’autenticità degli sposi in un autobus in Valle Camonica

Rosario PipoloNel giorno del matrimonio il cerimoniale vuole che gli sposi siano imprendibili e irraggiungibili. Baci e abbracci dopo il fatidico sì, pochi momenti durante la festa e poi il saluto con relativa fuga d’amore.
Capita pure che, nel giorno del proprio matrimonio, si mandi al diavolo il noiosissimo protocollo. Così gli sposini si mescolano agli invitati, diventando quasi irriconoscibili.

Anzi, la riconoscibilità da festeggiati non sta tanto nell’abito fiabesco, nella pettinatura impeccabile o nella scarpetta rubata al principe di Cenerentola ma in quella voglia matta di condividere con gli invitati ogni instante di questo giorno speciale, senza eccessi formali, senza l’ansia che il menu rientri nei canoni della grande abbuffata o negli obblighi mediocri che, il più delle volte, ci rendono prevedibili.

Perciò, il giorno dopo le nozze, non diamo così per scontato che gli sposi siano in luna di miele. Potreste ritrovarli, come è accaduto a me, in un autobus, di ritorno a casa con un gruppo ristretto di amici ed invitati. Questa scena ha qualcosa dello psichedelico del Magica Mistery Tour  dei Beatles perché, in fin dei conti, anche un viaggio come questo può essere visionario.

Visionario nel senso che indica il percorso per recuperare la massima del mio amico Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. E su questa traiettoria si inserisce la perla di saggezza della nonna del mio amico Filippo: “L’autenticità delle persone si vede nei dettagli, nella loro spontaneità e non nei discorsi costruiti a tavolino”.

Anna e Luigi, nel viaggio che ha segnato il mio ritorno in Valcamonica, ci hanno dato una bella lezione: si può continuare ad essere sé stessi persino nel giorno del matrimonio.
Al termine di questo viaggio on the road con gli sposi – avrei voluto non finisse mai – ho sentito il riverbero della voce di Lucio Dalla che canticchiava Anna e Marco per l’occasione: “Anna avrebbe voluto morire, Luigi voleva andarsene lontano. Qualcuno li ha visti tornare, tenendosi per mano”.

Just Married al Castello di Bevilacqua e l’artigianato locale per gli sposi

Rosario PipoloNon mi piacciono le fiere dedicate ai matrimoni. Le trovo noiose, a volte volgari, con quel prurito che contraddistingue il mercante, disposto a venderti qualsiasi cosa. Perciò credo che sia riduttivo definire Just Married, la domenica di novembre che il Castello di Bevilacqua dedica ai futuri sposi, come evento o fiera matrimoniale.

Mi sembra piuttosto il raduno di artigiani appassionati che, sulla frontiera veneta tra il veronese, il vicentino e il padovano si incontrano in una cornice incantata – quella di un vero castello appunto – per provare a dare al matrimonio un tocco di autenticità. Per me è artigiano chiunque contamini il proprio lavoro con le radici che lo legano al territorio.

Da questo punto di vista lo sono anche Roberto Iseppi e Miresi Cerato, padroni di casa al Castello di Bevilacqua, portatori sani dell’artigianato nello stile che fa essere questa location del Veneto un punto di ritrovo e riferimento di memoria per tutta la comunità locale.
Mi infiltro a Just Married, mescolandomi tra quelli dello staff, per capire se l’organizzazione di un matrimonio affoghi soltanto nel becero business.

Cambio idea quando vedo la matita magica di Giulia Gazzani disegnare la coppia – scelta come immagine di questo post – che, con lo stesso garbo dei fidanzatini di Peynet, incornicia lo spirito di Just Married: i sogni di Ester e Ime guariti nel loro inconfondibile cake design; il make up di Chiara dallo slogan “il trucco c’è ma non si vede”; la serigrafia di Valentina e Alice tra idee eleganti; l’occhio fotografico di Vinicio, il flauto traverso di Chiara o l’esuberanza di Giorgia che farebbe ballare anche la coppia di sposi più ingessata.

Valorizzare la creatività e l’unicità dell’artigiano locale è il piccolo grande valore aggiunto di Just Married. Ed è giunta l’ora che lo riconoscano anche le istituzioni provinciali e regionali, perché non basta canticchiare all’occorrenza “Oh che bel castello, Marcondiro ndiro ndello”. E scusate, se insisto.