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Archives Luglio 2014

Selfie da Mosca: Roman e i sogni di due generazioni lontane

Rosario PipoloUn autoscatto sul confine dell’anello di Mosca, lontano dal tam tam dei turisti e dei loro discorsi da “macchinetta del caffè”: ci siamo io e Roman, moscovita, classe 1987. Due generazioni diverse, lontane geograficamente e divise da quella cortina di ferro che andava ben oltre l’ideologia. Quando Roman piagnucolava nella culla, io ero trai banchi del liceo a chiedermi che cosa ne sarebbe stato di noi se fosse caduto il Muro di Berlino.

In quegli anni Mosca era così lontana per me da farmi credere che i monti Urali fossero le colonne d’Ercole del XX secolo. Roman era troppo piccolo per ricordare quel 25 dicembre del ’91: fu la fine della Perestrojka, il Cremlino perse l’inquilino sognatore e illuminato Michail Gorbacev e la Russia acclamò il populista Yeltsin.

Roman è un ragazzo sveglio, un gran lavoratore. Dopo aver viaggiato e vissuto anche nel Nord Europa, ha deciso di ritornare nella sua Mosca, perché ha voglia di vivere nel suo Paese. Dalla gestione di un lavaggio d’auto è passato a quella di un ostello, dove si sforza di far sentire tutti a proprio agio.
Impiega poco a capire che non ho niente a che fare con gli italiani in viaggio qui per allacciare relazioni sentimentali con le ragazze russe.: “Non ho mai visto un divoratore di città come te con questa voglia matta di mescolarsi alla comunità locale”.

Io e Roman ci ritroviamo in piena notte sotto le stelle dell’area periferica di Tishinsky. Io, stanco morto dopo le mie scorribande nella capitale russa, e lui, sul ciglio della porta con la birra, condividiamo ritagli di vita vissuta. Roman ride a crepapelle quando gli racconto che, nella mia Italia degli anni ’50, i preti diffondevano la notizia che “i comunisti in Russia mangiavamo i bambini”. Su un punto io e Roman concordiamo: i “luoghi” non li fanno “i governanti” ma le “persone” che ci vivono.

Roman rappresenta la nuova gioventù russa che ha voglia di rimboccarsi le maniche, di costruire un futuro diverso, duellando contro quella corruzione che insidia il sistema. Un giorno chissà i nostri figli si incontreranno sulla piazza Rossa a Mosca, culla di una memoria storica di cui non si può far finta di niente, senza sentirsi così distanti. Toccherà a loro liberarci dall’odioso pregiudizio che ha impedito alla mia generazione di far famiglia con quella dell’Est Europa? Il nostro selfie è di buon auspicio.

Diario da Mosca: il mio 41° compleanno alla Novaja Gazeta per Anna Politkovskaja

Insieme a Vitalij Jaroshevskij, vicedirettore di Novaja Gazeta, nell'ufficio di Anna Politkovskaja.

Rosario PipoloMosca è sveglia e il sole è spuntato da un pezzo. Butto l’occhio in un’edicola della stazione dei treni di Belorusskaja. Guardo la data dei quotidiani: è giovedì 17 luglio. Lo stesso giorno di quarantuno anni prima ero sbucato fuori dal pancione di mia madre. E’ il mio compleanno. Sono irragiungibile. Niente auguri, niente regali, niente candeline. Mi congedo giusto una doccia pr togliermi di dosso la stanchezza del viaggio e poi subito a vagabondare tra le strade della capitale russa.

Al numero 3 di Potapovskiy Pereulok c’è un volto scolpito accanto a una targa che mi indica l’arrivo a destinazione. E’ il viso sorridente di Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata nel 2006 che, attraverso le pagine del periodico della Novaja Gazeta, si fece notare per l’impegno civile, per le scomode inchieste sulla Cecenia, facendo tremare il Cremlino di Vladimir Putin. Ad accogliermi nella redazione del famoso giornale moscovita c’è Nadehzda. Lo sguardo si posa su ritagli di giornale, su i colleghi in riunione con la porta semiaperta, su una vecchia foto in bianco e nero che ritrae un’intervista a Michail Gorbačëv.

Nadehzda apre la porta di una stanza. Mi coglie di sorpresa. Mi trovo accanto alla scrivania di Anna. Tutto è rimasto come allora: gli attrezzi del mestiere, alcuni postit attaccati alla parete, il telefono in un angolo. Appoggio i gomiti su quella scrivania, resto in silenzio e mi tornano alla mente alcuni passaggi del bel libro Anna è viva di Andrea Riscassi, a cui l’Italia deve tanto: fondando l’Associazione AnnaViva, il giornalista milanese custodisce la memoria della Politkovskaja e ci mette in condizione di lasciarci a più riflessioni.

Poi arriva Vitalij Jaroshevskij, vicedirettore di Novaja Gazeta. C’eravamo conosciuti a Milano l’anno scorso in occasione dell’inaugurazione dei giardini dedicati da AnnaViva e Comune di Milano alla giornalista moscovita.  Mi abbraccia, mi fa gli auguri di compleanno e, regalandomi un libro che raccoglie tutti gli articoli di Anna, sottolinea: “Questa è una buona occasione per imparare il russo”. Io e Vitalij chiacchieriamo in privato per più di un’ora. Elena ci fa da interprete. Sembra un’intervista ma in realtà non lo è. Parliamo di Anna, del suo lavoro, delle sorti dell’editoria al di là degli Urali, ripercorriamo a stralci gli ultimi quarant’anni di storia di quella che oggi chiamano Federazione Russa.

Che strano modo di festeggiare un compleanno, da solo in una città che non mi appartiene. “L’unico dovere di un giornalista è scrivere quel che vede”, ribadiva Anna Politkovskaja. Quanti si sforzano di farlo davvero nel tempo in cui il giornalismo politico è colluso con il gossip? Camminando per le strade di Mosca, mi chiedo perché mai ci sottomettiamo al gioco crudele dei poteri forti, pronti a corromperci per tagliare il filo che ci lega agli eroi invisibili. Perciò ho scelto di dare un significato a questo mio 41° compleanno e condividerlo con il ricordo di Anna, nella stessa Mosca che dovrebbe calpestare l’omertà. Piantare un alberello dedicato alla Politkovskaja in ogni angolo della città mortificherebbe il mandante di questo pietoso delitto politico e culturale.

Per fare il futuro ci vuole impegno civile; per fare impegno civile ci vuole memoria, per fare memoria ci vuole il coraggio di uomini e donne come Anna Politkovskaja. Non ho più paura di questa fitta solitudine a Mosca, perché è una forma di strana libertà.

 

Selfie e privacy in spiaggia: il Garante ha visto mai gli italiani sotto l’ombrellone?

Rosario PipoloApprezziamo lo sforzo del Garante della Privacy per la pubblicazione delle “buone regole in spiaggia a difesa della nostra sfera privata“, ma con le pinne, fucile ed occhiali ci viene un dubbio: ci siamo mai guardati noi italiani sotto l’ombrellone? Con questa smania vanitosa dei social network sarà davvero dura metterci a regime in materia di discrezione o riservatezza.
Figuriamoci se rinunceremo mai al selfie di turno per far vedere a tutti la nostra meta vacanziera. Basta buttare gli occhi nei feed di Facebook per catturare il trash di questa  ingordigia nazional popolare, di cui le maggiori vittime sono i bambini. E se nel nostro selfie finirà il vicino d’ombrellone, per giunta “incazzoso”, il povero Garante si troverà sulla scrivania una pila di lettere di protesta.

Correremo volentieri il pericolo di trovarci  i ladri in casa, pur di non rinunciare al check-in che  compone la lista di ristoranti e locali “fighi” che frequentiamo. L’epidemia del food è così contagiosa che prima o poi dovrà toccare pure a noi finire su Real-Time? Questa è la massima aspirazione delle vecchie massaie del Belpaese in bianco e nero, oggi trasformate dalla globalizzazioni in nevrotiche donne bioniche.
Alcuni hanno la sveltezza di geocalizzarsi persino alla toilette o nella location creata ad hoc su facebook “A casa mia”. La sfiga ci mette del suo e, a furia di scroccare Wi-Fi da un lido ad un altro,  beccheremo pure il virus nello smartphone che ci farà sentire sconnessi dal mondo. Se non abbiamo fatto il backup dei dati prima di partire, possiamo dire addio ad una buona parte della nostra vita, destinata ormai a finire spiaccicata sull’isolotto dell’icloud.

Morale della favola sotto l’ombrellone: il Garante ci suggerisce di “gestire le nuove tecnlogie con cautela”, soprattutto di non essere sbadati a lasciare password e accessi a destra e sinistra. Ah, ecco dimenticavo. Mia moglie, incallita spendacciona in questi giorni di saldi, me lo aveva detto che in fondo il pin del mio bancomat è più al sicuro se lo impara a memoria lei. Perché memorizzarlo su uno smartphone?

Tempo scaduto e non perché sia finito il numero di battute a mia disposizione. Devo andare a fare il selfie di questa mia giornata vacanziera, altrimenti poi dicono che sono poco “social”. Lo dite voi al Garante?

 

 

 

Il Seveso e Milano allagata: solo colpa del meteo!

Rosario PipoloIn Italia siamo abili a giocare a nascondino. Se il Tevere a Roma o il Seveso a Milano straripano, vuoi vedere che è solo colpa del meteo? Se poi aggiungiamo l’allerta della Protezione Civile, la maniera galante per scampare una figuraccia è dentro la ridicola filastrocca: “Non eravamo pronti, non immaginavamo arrivassimo a questo”.

I milanesi incazzati, che stamattina ho visto azzuffarsi sulla banchina della linea gialla della metropolitana, mi hanno ricordato che, di fronte alle emergenze, ogni mondo è paese. Ne avevano tutte le ragioni per esserlo, per amor del cielo. Se questo tiro mancino estivo fosse accaduto nella mia Napoli, avrebbero urlato che i napoletani campano alla giornata e non sanno essere previdenti.

Ci restano dieci dita per contare i mesi che ci separano dall‘Expo 2015. Siamo ancora in alto mare, nonostante uno stinco di ottimismo  vorrebbe far passare Milano in forma per il grande evento. Sarà pure una banalità: se il Seveso sbraitasse in un’altra bella inondazione, per giunta nei giorni dell’Expo 2015, chi si preoccuperebbe di reclutare prestanti gondolieri?
Atm Informa, l’account di twitter dell’azienda di trasporti imlanesi, non mi ha avvisato che, per prendere la metro, sarei dovuto uscire di casa equipaggiato, con remi e canotto.

Signori cari, Milano non è la laguna di Venezia. In queste ore il maltempo sembra averci dato tregua e, all’ombra della Madonnina, qualche timido raggio di sole ci fa ricadere nel fanfarone lassismo del Belpaese. Tutto è bene quel che finisce bene. Domani si vedrà.

Diario del testimone della sposa: le sorelle sono un dono di Dio

 

Rosario PipoloMentre l’auto della sposa corre spedita sul lungomare di Napoli, mi torna in mente una sera del ’76 in cui sedevo in una Cinquecento rosso corallo. Mamma sedeva davanti con il pancione. Il posto accanto a me era vuoto. A quei tempi pensavo che una sorellina si ordinasse al supermercato. Quando nonno Pasquale, in quella domenica del 3 ottobre, mi tirò giù dal letto di prima mattina, pensai: “I supermercati non sono chiusi a quest’ora?”. In clinica, attraverso un muro di vetro, osservavo una nidiata di neonati piagnucoloni. Pensavo potessi sceglierla come al supermercato. Puntai il dito verso quella più pacioccona. Era proprio lei, mi era andata bene. Si avvicinò Nonna Lucia e mi disse sottovoce: “Si chiama Rossella, è tua sorella e devi prenderti cura di lei”.

Pochi mesi dopo mi ricordai delle parole della nonna. Nel condominio dove vivevamo erano tutti preoccupati, perché dal palazzo vicino si sentivano spesso colpi di pistola. Nessuno osava dire niente, tutti erano ammalati di omertà. Mamma andò a fare la spesa e mi disse di badare a lei. Fuori era maltempo. Sentii un boato forte. Pensando avessero sparato, mi lanciai sulla culla della piccola Rossella e la strinsi forte a me come un piccolo soldato in trincea. Per fortuna, era solo un tuono.

Ricordo questo episodio come il punto di partenza della mia vita condivisa con mia sorella. Il più delle volte sono stato un fratello distratto, prepotente, poco premuroso. Nonostante tutto, ho maturato la consapevolezza che avere una sorella ha significato per me vivere a pieno la mia esistenza. Mia sorella è stata la continuità di ciò che non sono stato; si è rivelata il significato che la vita mi ha donato, attraverso il pancione di mia madre; è stata punto di riferimento per il mio futuro. E in questa Napoli, che ci ha partoriti ed ha custodito i ricordi più belli sulla zolla dei Campi Flegrei, oggi ritroviamo memoria e storia della nostra famiglia.

Ho finalmente imparato la lezione. Le sorelle non si scelgono al supermercato, ma sono un dono di Dio, anche per i fratelli “mascalzoni” come me. E nel giorno in cui sono proprio io “il testimone della sposa” posso urlare sottovoce: “Grazie per esserci stata a pieno, nella mia vita”.