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Archives Dicembre 2015

Natale in casa De Filippo senza Luca: A nuje ce piace ‘o presepe

Rosario PipoloSe apprendi la notizia triste e inaspettata dall’altra parte del mondo, preferisci posticipare la riflessione al rientro. Delle tante interviste fatte a Luca De Filippo tra il 1994 e il 2009, mi è rimasta impressa quella all’Augusteo di Napoli, in occasione del reading “Penzieri mieje” nel decimo anniversario della scomparsa di Eduardo.

Riavvolgendo il nastro di un’audiocassetta mi torna in mente questo: “Il teatro è una cosa seria ed è la lezione più grande che mi ha lasciato papà. Dal letto mi disse di andare perchè il pubblico non poteva e non doveva aspettare. Quella fu l’ultima volta che lo abbracciai”.

Luca De Filippo non mi ha trasmesso mai soggezione, questo no, quanto la serietà e l’etica che fanno dell’uomo calato nella quotidianità la reversiiblità dell’uomo del palcoscenico.
Luca non è stato soltanto il figlio accorto, fattosi missionario della complessa e sterminata opera del padre, ma l’attore che ha fatto della napoletanità la congiuntura tra memoria e futuro, tra Eduardo e il mondo. Non a caso Peppino Patroni Griffi mi disse alla prima del suo remake di Sabato, domenica e lunedì: “Eduardo è il mondo”.

I messaggini e le banalità confezionate e spalmate sui social network, nel giorno della scomparsa prematura di Luca De Filippo, mi hanno fatto pensare.
Se tutte quelle persone fossero stati realmente pubblico assiduo nei nostri teatri, non avremmo subìto il vuoto tra le platee dell’ultimo decennio e potremmo ancora parlare del ruolo civico del teatro di prosa.

“Nun me piace ‘o presepe” è diventato l’assillante tormentone per la scena guitta e amatoriale che il più delle volte ha soffocato la drammaturgia eduardiana nella macchietta divoratrice di prospettive. In pochi conoscevano la formula magica: dietro la celebre battuta di Natale in Casa Cupiello c’era il “Non mi piace il teatro” del piccolo Eduardo ripetuto a papà Scarpetta, perchè da grande avrebbe voluto fare un mestiere utile alla società, il pompiere, il medico.

Noi andiamo controcorrente. A nuje ce piace ‘o presepe perchè il teatro resti la corteccia dell’esistenza. Senza Luca De Filippo c’è il vuoto intorno, ci sentiamo più soli.

Cartolina da Graceland: Elvis Aaron Presley abita ancora qui

Rosario PipoloI colori dell’autunno incorniciano la casa come se fossi capitato sul set di un film di Douglas Sirk degli anni ’50. A Graceland il tempo sembra essersi fermato. Sulla strada, che mi porta dal downtown di Memphis a qui, il traffico scorre. Non c’è la folla solita di pellegrini venuti alla “Mecca della Musica”.

Le penne del Tennessee, che la mattina del 17 agosto 1977 titolarono “Se n’è andato il monarca del Rock ‘n Roll“, sono le stesse che anni dopo avrebbero raccontato Graceland come un immenso luna park.
C’è qualcos’altro oltre lo steccato di quest’abitazione, oltre lo scintillio dell’icona che incarnò l’ascesa e la fine dell’American Dream. C’è una prospettiva di intimità che sfugge alla massa accorsa qui per mummificare la memoria.

Gli addobbi natalizi, la sala da pranzo, una camera da letto per i genitori, la cucina, il soggiorno, l’angolo bar, tutto ha sobrietà, niente sfarzo. Alzo lo sguardo, c’è lo scalone dal quale scendeva. Sosto lì, nella mano sinistra ho il taccuino e la penna come se dovesse concedermi un paio di risposte per l’intervista.
Poi mi sposto nel giardino. Mi sembra di vedere la piccola Lisa Marie tuffarsi sull’erba con il papà.

Sento il fruscio dell’acqua di una fontana. Mi sposto. Lì ci sono le spoglie mortali, senza chiasso, nel silenzio dell’intimità. Niente messaggi, niente graffiti, solo parole scolpite sul marmo e un minuscolo mazzolino di fiori.

Mi volto e avvisto un bellissimo tramonto che folgora Graceland in un tiepido pomeriggio di dicembre. Ripenso a mia mamma, casalinga alla periferia di Napoli, che alla fine degli anni ’70 teneva buono il suo bimbo con le sue canzoni.
Elvis Aaron Presley, il bimbo sulla copertina dell’album Elvis Country, il ragazzo del Tennessee che bussò alla porta dei Sun Studios per cercar fortuna, abita ancora qui per tutti coloro che non sono i predatori avidi dell’icona ma i cercatori dell’esistenza umana fatta di sogni, fragilità, amore.

Aniello Montano, l’ultimo apostolo tra socialismo e laicità che fece brillare l’Università Federico II di Napoli

Rosario PipoloSossio Giametta, luminare di filosofia, mise nero su bianco una verità scomoda al mondo accademico napoletano: “Se penso alle invidie che popolano l’Accademia, Aniello Montano è un santo per l’assoluta assenza nella sua anima irenica, pura e francescanamente semplice e umile, di ogni segno di bassezza e meschinità”.

A poche ore dalla scomparsa del Prof. Aniello Montano (1941-2015) continuiamo a chiederci come abbia fatto l’Università Federico II di Napoli, punto di riferimento dell’istruzione pubblica in Europa e tra le istituzioni laiche più antiche del mondo, a farsi scippare da un ateneo di periferia questo talento germogliato all’ombra del Vesuvio.
Persino chi si limitava ad osservarlo o a viverlo a distanza senza per forza essere suo allievo, aveva capito che il promemoria della sua storia era trascritto nei suoi occhi chiari di ghiaccio: negli anni ’80 instancabile ricercatore alla Federico II di Napoli; poi le traversate dell’Italia per raggiungere l’università di Genova in veste di docente di filosofia e infine l’approdo a Salerno, dove fu anche direttore del Dipartimento di Filosofia.

Negli anni in cui, all’interno dell’ateneo dove mi sono formato e con cui ho collaborato, padroneggiavano le lobby marxiste, quale terreno fertile sarebbe stato riservato ad un anti-accademico perbene come Montano?
E’ stato lui l’ultimo apostolo dalla visione laica e socialista che, sceso dalla cattedra accademica, ha portato la filosofia tra la gente comune e nella vita di tutti giorni, dando una gran bella lezione di umiltà alla presuntuosa classe docente di provincia.

Aniello Montano portò tra studenti, operai, casalinghe, appassionati, il verbo di Giordano Bruno, l’eretico ammazzato dalla stessa chiesa che secoli dopo avrebbe sparso, attraverso prelati spregevoli, arretratezza nella feudale landa nolana.
Mentre i faraoni di provincia si facevano erigere monumenti, intitolare strade, costruire cappelle cimiteriali per autoproclamarsi eroi e nascondere mezzo secolo di malefatte politiche, l’umanista Montano schiodava dal torpore più generazioni, lasciando in eredità una verità: l’amore per la cultura e per la filosofia ci salveranno così come la bellezza del mondo classico.

Oggi sventoli un drappo nero nel cortile della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II di Napoli in memoria di Aniello Montano, punta di diamante dell’Istruzione Pubblica del nostro Meridione.
Chinino il capo mortificati i baroni e gli accademici miopi. Noi cresciuti qui, anche se abbiamo fatto ricerca su discipline diverse, ci arroghiamo il sacrosanto diritto di riprenderci ogni parete del Dipartimento di Filosofia e dedicarlo al prof. Montano.

Le onorificenze e la gloria appartengono alla nostra umanità. Resta la memoria sedimentata tra le persone. E se “Dio è anche mamma”, come ci scandalizzò Papa Luciani, allora vorrà dire che lo studio e l’evangelizzazione filosofica di Aniello Montano varranno il doppio. Lassù avrà finalmente conosciuto di persona Giordano Bruno.

Cartolina da Ground Zero: Io cristiano e lei musulmana nella preghiera del silenzio

Rosario PipoloChi non c’è stato prima dell’11 settembre non può capire l’effetto dirompente del pugno allo stomaco.  A fine luglio del 1992 arrivai dalla Long Island University sotto le Torri Gemelle: alzai lo sguardo verso il cielo, tirai fuori la macchina fotografica con un rullino da 36 e cominciai a scattare.

Dopo ventitré anni, ritorno nello stesso punto in un lunedì mattina di fine novembre e vi trovo un fossato gigante nel perimetro di un marmo con una sfilza di nomi scolpiti.
Ground Zero non è soltanto la ferita dell’America dissanguata dal Terrorismo, ma è soprattutto la zolla di terra bruciata da cui ha ripreso a muovere i passi New York.

Manhattan non è più la stessa, lontana anni luce da quella della celebre canzone cantata da Sinatra; dalle sequenze dei film di Woody Allen; dalle pagine culturali del New York Times che la ritraevano scintillante nella sua nudità riflessa nello skyline.
Il rumore del cantiere e delle ruspe è in netto contrasto con il silenzio e la compostezza di chi passa qui per riflettere senza cadere nella tentazione turistica della toccata e fuga come per dire “ci siamo stati anche noi”.

Ground Zero mi regala un incontro: Ghadeer, splendida ragazza di origine irachena, proveniente dalla Danimarca. A poco più di una settimana dagli attacchi di Parigi, condividiamo piccoli ritagli della nostre vite e il supporto comune all’hashtag “I Musulmani non sono terroristi”, circolato su twitter nelle ore postume al bagno di sangue al Bataclan.
Le racconto dei tempi in Francia in cui zia Lilina mi mandava a prendere il pane cotto a legna in una panetteria gestita da una famiglia musulmana di origine algerina. Avevano capito che ero un mangione di farinacei e me ne facevano assaggiare zolle appena sfornate.

Io e Ghadeer ci guardiamo negli occhi: io cristiano, lei musulmana, vogliamo dare un significato speciale a questo incontro. L’uno accanto all’altra con il vento tra i capelli e raggi di sole abbagliante, attraverso la preghiera del silenzio comune, raccogliamo le nostre anime a Ground Zero.

Quest’anno il mio albero di Natale è fatto con le foglie degli alberi piantati lì, non ha luci artificiali, non ha palle variopinte ma ha i colori autunnali newyorkesi. Il mio Giubileo laico si apre qui e la “porta santa” spalancata dinanzi ai miei occhi è la voragine di Ground Zero.

Cartolina da New York: Il mio Ringraziamento

Rosario PipoloTornare a New York dopo ventitre anni ha avuto un grande significato per me. Nell’agosto del 1992 avevo lasciato sotto le Torri Gemelle i sogni post-maturità, appesi al collo dei miei vent’anni.

Nel 2005, tra l’altro, avevo percorso 6.000 chilometri negli Stati Uniti sugli autobus della Greyhound, per guardare in faccia l’America della gente che faticava, lontana dalle lobby e dai palazzi del potere.

Il turismo di massa all’italiana, fatto dall’abuso di selfie nella Grande Mela, è ancora convinto che Manhattan sia una sequenza patinata di Sex and City piuttosto che il bianco e nero della fotografia di Gordon Willis nell’omonimo film di Woody Allen?
A scanso di equivoci ho vissuto New York attraverso lo sguardo della periferia, sulla lingua di frontiera tra Queens e Brooklyn, fingendomi un italo-americano e facendomi adottare da una famiglia di immigrati argentini di Rigerswood.

Teresa, oggi un’arzilla signora ottantenne, sbarcò all’ombra della Statua della Libertà insieme ai suoi tre pargoli all’alba degli anni ’70, lasciandosi alle spalle l’Argentina schiaffeggiata dalla dittatura.
Osservando la figlia Cristina che preparava l’imbottitura per il tacchino del Thanksgiving e le fusa della nipotina Isabelle, ho ripensato a quanto gli immigrati abbiamo contribuito a raddrizzare le contraddizioni delll’America, liberandola in parte dal denigrante odio razziale, ferita incolmabile insieme al bagno di sangue del Vietnam.

Il mio giorno del Ringraziamento è andato oltre la parata del “consumismo folcloristico” di Macy, condivisa assieme a tanti newyorkesi  tra la 77a strada e Central Park.
Forse sarebbe il caso che la Macy’s Parade, nata sulle ceneri di una festa degli immigrati, mandasse in pensione qualche pupazzone e qualche majorette di troppo per far sfilare i figli e i nipoti di tutti gli immigrati che hanno fatto quest’America, mattone dopo mattone.

A tavola con Teresa e la sua famiglia non mi sono sentito un abusivo, ma il coprotagonista di un momento di condivisione delle storie appartenenti a noi gente del Sud del mondo, tra Buenos Aires e Napoli.
La famigerata Festa del Ringraziamento sta diventando un rituale a cui gli americani si stanno disaffezionando perché, forse proprio come cantava John Lennon in Cold Turkey e in tempi non sospetti, “non riesco a vedere nessun futuro, nessun cielo, il tacchino freddo mi ha preso in fuga.” Siamo nell’America in cui la follia alla Trump riesce ad impugnare un microfono.