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Archives 2016

Last Christmas e il pop controverso di George Michael

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rosario_pipolo_blog_2La canzone beffa, “Last Christmas”, l’inno natalizio dietro cui si è nascosta un’intera generazione, alla deriva sulla zattera dei pirotecnici e vuoti anni ’80. Era scritto subdolamente nei versi di questo 45 giri da milioni di copie vendute che la vita di George Michael si sarebbe fermata sulle note di “l’ultimo Natale”. In questo perfido anno bisestile che si è portato via Bowie, Prince , Coehen, la stessa sorte è toccata anche a George all’età di 53 anni nel pomeriggio del 25 dicembre di Natale. Le fonti ufficiali parlano di infarto, ma i dubbi restano sulla scomparsa improvvisa del musicista britannico.

Il pop di George Michael ha cavalcato onde fatte di alti e bassi, addolcendo una generazione troppo distante dal rock graffiante e ribelle degli anni ’70 per ammettere che bisognava accontentarsi, che gli incentivi musicali andassero presi con le pinze.
I Wham furono pop disimpegnato nell’Inghilterra Thatcheriana che non voleva ribelli tra i piedi e la conservatrice Lady di Ferro si accorse che al numero 10 di Downing Street persino la servitù se ne sbatteva degli impolverati canti natalizi londinesi pur di canticchiare “Last Christmas, I gave you my heart but the very next day, you gave it away”.

Il canzoniere dei Wham galoppò classifiche di tutto il mondo, ma la voce di George Michael fece battere il cuore agli dei con due esibizioni che hanno scritto due pagine di storia della musica live: Don’t Let the Sun Going Down On Me con Elton John nel 1991 e Somebody to Love con i Queen nel 1992.

Geroge Michael si reinventò tra scivoloni di dance pop e soul bianco all’alba degli anni ’90, alla ricerca di una maturità musicale offuscata dalla vita privata: la morte del compagno a causa dell’AIDS, la depressione, il silenzio, il coming out arrivato soltanto alla fine del decennio. Ribadì in diverse circostanze: “Definisco la mia sessualità nei termini delle persone che amo”.

I legionari del pop oggi lo rimpiangono non tanto per la coralità di “Last Christmas”, quanto perché fecendo due conti in tasca hanno visto che anche la musica disimpegnata politicamente può spalleggiare ribellione: contro le dittature dei discografici, contro il patimento del vivere per apparire, contro chi impone l’ascolto della ragione e non del cuore per capirci qualcosa in più della vita.

Apostolo di questa ribellione controversa  è stato George Michael, morto prematuramente tra le braccia dell’Inghilterra post-Brexit frantumata in pezzi.

Natale, lettera dal Sudamerica per Mimmo Palanza

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rosario_pipolo_blog_2Le mie feste natalizie le ho lasciate in Sudamerica. Di passaggio a Firenze qualche mese fa  ho avuto la tentazione di portarti un fiore. Ho desistito, perchè la voce dell’anima mi ha assicurato che tu mi avresti aspettato lì. Questo è il viaggio che avremmo dovuto fare insieme, lo abbiamo fatto, in questo vagabondaggio on the road di 7.000 chilometri tra Argentina, Cile e Uruguay.

Ti ho ritrovato per le vie di Buenos Aires con tuo padre Camillo che leggeva il giornale agli analfabeti del paese nella Manoppello del secondo dopoguerra; ti ho ritrovato nelle albe indefinite della Patagonia ripensando alle nostre lunghe passeggiate al parco delle Cascine con il tuo cagnolone; ti ho ritrovato a Santiago del Cile sulla tomba di Salvador Allende e al museo dei Desaparecidos, perchè il tavolo della tua cucina diventò la scrivania dei miei vent’anni dove cominciai a documentarmi sulle dittature sudamericane.

Ti ho ritrovato tra Mendoza e Cordoba in mezzo al profumo dei vigneti, ripensando a quando davanti ad un buon bicchiere di vino rosso mi  raccontavi del trasferimento in Brasile con tuo fratello Roberto; ti ho ritrovato sulla nave che mi portava verso l’Uruguay negli occhi di Pablo, il fisico universitario di Buenos Aires che, negli anni della dittatura, scappò in esilio in Europa.

Eppure in questo errare indefinito ho ritrovato il nostro legame, ripensando a come tu sia riuscito a non farmi sentire mai ospite né a casa tua né nella tua vita. La prima cartolina te la mandai da Londra nel 1988, l’ultima te la mando dalla rambla di Montevideo: un tramonto condiviso con un pescatore sul Rio de la Plata.

Tra gi ultimi fili di luceti ho ritrovato alla stessa maniera di Manolin con Santiago in Il vecchio e il mare di Hemingway. Un giorno ci ritroveremo non come zio e nipote, ma come due esseri che hanno condiviso sogni e utopie di generazioni diverse. Tutto ciò ti ha reso uno dei punti cardinali della mia crescita, della mia esistenza.

Buon Natale, ovunque tu sia.

Il mio legame con la Francia in dieci anni di lavoro in Europ Assistance

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Martin Vial, CEO del Gruppo Europ Assistance dal 2003 al 2014.

rosario_pipolo_blog_2La Francia mi appartiene da sempre, prima della nascita, fin dai tempi in cui parte della mia famiglia paterna si era trasferita nel Sud del Paese. Questo legame fu sigillato quando mi iscrissi a Lingue Straniere all’università e il francese fu il passe-partout per le porte d’oltralpe.
Furono viaggi continui, fughe che mi spinsero tra Tolone e Marsiglia, facendomi diventare parte di quella comunità; furono canzoni, quelle di Gainsbourg, Brassens, Dalida, Ferré, Brel, Piaf, Pagny; furono quintali di romanzi e chilometri di pellicole cinematografiche francesi tra Cannes e Venezia; furono chili di pain au chocolat a colazione e litri di Perrier; furono interviste a Charles Aznavour e Juliette Greco; furono scarpinate a Parigi e la mia prima volta nel ’96 da giornalista accreditato al Moulin Rouge; fu la mia penna che firmò un articolo sul quotidiano francese Le Corse-Matin.

Quando dieci anni fa Europ Assistance, la compagnia d’assistenza di Generali fondata da Pierre Desnos nel 1963, spalancò le sue porte al mio percorso professionale, mi sembrò una beffa del destino: la Francia tornava nella mia quotidianità.
In questo lungo tempo di attività tra le file della comunicazione digitale, c’è uno scatto inedito che oggi tiro fuori dal mio archivio e mi ritrae con il CEO del Gruppo Martin Vial, in carica dal 2003 al 2014. In vent’anni e passa di attività giornalistica le mie frequentazioni sono state personaggi dello spettacolo e della cultura e non di certo grandi manager della portata internazionale.

Ebbi modo di conoscere Vial in occasione di un viaggio a Parigi nella sede del Gruppo per il lancio  di NetGlobers, primo portale online sulla sicurezza in viaggio. Mi colpì l’attenzione data anche a “risorse invisibili” come me, che per ruolo e mansione restavano lontane da vetrine e riflettori, passando  del tutto inosservate.

Ritrovai allora la Francia luminare, quella della Quinta Repubblica guidata da François Mitterand, capace di cogliere nel talento di un manager umanista come Martin Vial l’equilibrio tra Pubblico e Privato, la congiuntura tra l’alta carica istituzionale e le sfide di un grande gruppo aziendale. La Care Revolution dell’ex numero uno delle Poste d’oltralpe ha rappresentato la visione lungimirante per trasformare il brand francese di Europ Assistance, inventore assoluto dell’assistenza, in patrimonio dell’umanità.

Questa è una polaroid che conserverò dopo dieci anni di lavoro in Europ Assistance. Al di là di quelle che saranno le mie scelte future, la Francia, in quel viaggio di ritorno da Parigi, mi restituì la piena consapevolezza che sul posto di lavoro non ci saranno intelligence artificiali o algidi algoritmi che rimpiazzeranno mai il valore di una risorsa umana. 

Cartolina da Buenos Aires

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rosario_pipolo_blog_2A Buenos Aires tira un forte vento di italianità. L’ho capito subito, appena messo il piede in Argentina. Si va oltre il cantico di Ivano Fossati dedicato agli “italiani in Argentina”. Lo capisci come ti guardano, come hanno voglia di condividere con te perché sanno che negli occhi di noi viaggiatori troveranno il ricordo di un papà, di un nonno, di uno zio, arrivati qui con la valigia da emigrante e rimasti per il resto della vita con la dignità di un argentino.

Buenos Aires si è staccata di dosso l’etichetta che l’avrebbe voluta sposa della Guerra sucia, ovvero quella “guerra sporca” che l’infame dittatura degli anni ’70 adottò come sanguinaria repressione.
Buenos Aires è una principessa scalza, come le donne argentine ancelle di bellezza e anima latina, che con disinvoltura sa come farsi rincorrere, afferrare, stringere in un abbraccio lungo quanto l’affacciata sul Rio della Plata.

Ogni quartiere vive una vita propria senza calcare la mano sulla smania di essere cosmopoliti a qualsiasi costo. Buenos Aires è anche l’eleganza latina di Recoleta, il vezzo naif di Palermo, la popolarità di La Boca, il palleggio della memoria di Placa de Mayo, il brusio del mercato di San Telmo, il pugno nello stomaco dell’Espacio de la Memoria che rende giustizia ai desaparecidos.

Ha un mantello che si chiama tango perché, come scriveva Carlos Gavito, “non è una danza ma una ossessione. Erotica e appassionata, inquietante e malinconica, che coinvolge non solo il corpo ma anche l’anima”.  Buenos Aires non smetterà mai di tirare calci ad un pallone, proprio come i bambini incrociati sotto lo stadio di La Boca. Questo è il riscatto della strada che può trasformare uno scugnizzo come il piccolo Diego in un dio del pallone chiamato Maradona.

Buenos Aires sa come mettere a tacere il turista invadente lungo i dock di Puerto Madero, sa trasportare il viaggiatore verso nuovi incontri nello scantinato di una milonga, sa come sorprenderti in quel sussurro appassionato che fa di “pace, amore e libertà” la lunga avenida che la attraversa in diagonale i vari strati sociali.
La napoletanità veste bene la capitale argentina, perciò il mio primo viaggio in Sudamerica è partito da qui.

Esercizi d’amore: (meglio) sposare la persona “sbagliata”

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rosario_pipolo_blog_2Tra i ritagli della mia rassegna stampa avevo messo da parte un articolo di Alain de Botton, apparso a fine maggio scorso sul New York Times e poi ripreso in Italia da Il Post. Lo scrittore senza troppi fronzoli metteva in risalto come l’idealizzazione e la nube tossica del romanticismo ci portino a sposare la persona sbagliata.

Non mente la penna svizzera quando elenca la quotidianità della vita matrimoniale tra rate del mutuo da pagare, bambini da portare a scuola o barcamenarsi in quella routine che non ci farebbe riconoscere neanche i bigliettini che scartavamo a prima mattina dai baci di cioccolato.
Privo della saggezza e acutezza di uno scrittore alla portata di de Botton, mi sono piazzato sull’altra sponda ad osservare coloro che saranno nelle condizioni di sposare la persona giusta: calcoleranno tutto per filo e per segno; si pavoneggeranno nel benestare degli altri con il meritato “come state bene insieme”; faranno della logica la planimetria di un progetto di vita insieme.

Il rischio, a mio modesto parere,  è che dietro la logica si nasconda una felicità di cartongesso. Chi si accontenta gode, sillabavano dalle mie parti. Chi non si accontenta?
Chi non si accontenta finisce per sposare la persona sbagliata perché, mettendo da parte la saggezza di Alain, tutto parte dall’unico muscolo, custode del nostro innamoramento da evoluzione della specie: il cuore.

Caro Alain, sa cosa le dico? Nell’era dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi di Facebook che vorrebbero mescolare le carte; nello sproloquio degli schermi digitali che ci fanno camminare con gli occhi bassi; nel tempo divoratore che deve mettere alla prova per forza chi dovrebbe camminare al nostro fianco, abbiamo dimenticato l’essenzialità.
Quando un dì ci libereremo delle vecchie carcasse dei nostri corpi ingombranti, non saremo zombie perché ci siamo ostinati ad essere anime che hanno vissuto.

Sì, sposeremo la persona sbagliata con il rischio che ci tiri appresso il mazzo di fiori per San Valentino o ci lanci dalla finestra il regalo di Natale, senza neanche il tempo di sbraitare “che caratterino”. In quel momento ci torneranno in mente le sagge parole di Papa Francesco: “Tiratevi pure i piatti, ma alla fine fate pace”.

Sposeremo la persona sbagliata, non per partito preso, ma con consapevolezza irresponsabile, ovunque essa sia sulla strada della felicità.

Gallarate: la sicurezza in strada fa la dignità del cittadino

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Rosario PipoloIn un bar di Gallarate, in provincia di Varese, raccontavano che il papà di Valentino passava lì tutte le mattine a prendere le brioche. Di rado c’era anche il figlio e mi viene il dubbio di averlo incrociato qualche mattina. Da oggi Valentino non farà più colazione nel piccolo bar del varesotto, perchè ieri mattina è stato travolto da un autoarticolato con la sua bicicletta e ci ha rimesso la vita.

Questo potrebbe essere uno tra i tanti e dolorosi ritagli di cronaca che riguarda da vicino chi si muove in bici nel nostro Paese. In un report del 2012, l’ACI aveva rilevato 15.100 ciclisti feriti e 166 morti in ambito urbano, un dato che ci fa dubitare seriamente della sicurezza stradale, che tra l’altro mette a repentaglio la vita degli amanti delle pedalate.
La rotonda a Gallarate, quella della lunga e trafficata via Torino dove ha perso la vita il giovane di 27 anni, negli ultimi anni è stata teatro di tanti incidenti e sciagure.

Per giunta qui di mezzo ci sono gli autoarticolati che ogni santo giorno sfrecciano a velocità insensata verso la famosa superstrada di Malpensa, dimenticandosi di essere in un centro urbano. In orario mattutino ho visto sulle strisce pedonali accanto a questo maledetto rondò pedoni prendersi un bel vaffa dagli autotrasportatori furiosi, sgarbati e maleducati. Non sono più disposti neanche a perdere qualche secondo in più per concedere il legittimo “lascia passare”? Figuriamoci poi per un ciclista, che viene continuamente maledetto.

La sicurezza in strada fa la dignità del cittadino e ogni comune ha il diritto di farsi in quattro per garantirla. Dopo gli accertamenti delle forze dell’ordine, la triste vicenda di Valentino avrà il suo finale, ma ogn cittadino che si rispetti non vuole chiedersi più chi sarà la prossima vittima di quel rondò.
Ho sostituito la foto da cronaca del rottame a due ruote con questo mio scatto di sabato scorso. Forse proprio tra questi alberi tinti d’autunno pochi di noi si sono accorti delle ultime pedalate felici e scanzonate di Valentino.

L’America è di Trump

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Rosario PipoloFranklin D. Roosevelt, nel corso degli anni da inquilino della Casa Bianca, aveva dichiarato: “La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature”. L’America dell’incertezza, della paura e dell’economia altalenante ha scelto forca e populismo. Donald Trump è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti e mette le mani su Congresso e Corte Suprema.

Gli USA hanno sciaffeggiato l’oligarchia dei Clinton e di riflesso hanno svincolato dalla memoria il quadretto della Happy Family democratica imbarazzata dal Sexygate.
Hillary Clinton, che sembra uscita dalla saga televisiva dei Carrington – ve la ricordate la serie tv Dinasty? –  è stata messa in un angolo come la reginetta sculacciata del ballo di fine anno scolastico: ieri dal carismatico Obama, primo presidente afro-americano; oggi dal tycoon Trump, a tratti rivisitazione in stile repubblicano del generale Jack D. Ripper, in bilico tra le sfumature letterarie di Alert e le visioni del Kubrick da dottor Stranamore.

Esattamente un anno fa, mentre i sondaggisti collassati incitavano Lady Clinton all’ascesa al trono, ho intrapreso il mio viaggio on the Road negli USA per il Ringraziamento. Da allora fino all’estate scorsa ho incrociato in viaggio 43 studenti americani in età compresa tra 18 e 25 anni  (provenienza Stato di New York, New Jersey, Tennessee, vacanzieri in Giappone e in Italia). Il 25% avrebbe dato il terzo mandato a Barack Obama e il 75% mi ha risposto: “Hillary, il meno peggio? Non lo vogliamo il meno peggio, piuttosto resti vacante la poltrona”.

L’America, vissuta da viaggiatore incallito come la patria dei contrasti, è riuscita a passare con disinvoltura dallo Yes, We Can di Obama, frullato avanguardista dell’American Dream, agli slogan insolenti e volgari di Donald Trump. I veleni di questa campagna elettorale hanno messo in secondo piano lo sfratto di Obama dalla Casa Bianca.
L’America aveva voglia di virare tra le braccia di un Repubblicano? No, forse ha voluto chiudere con il lucchetto in cantina, una volta e per tutte, le canzoni di Dylan insignite dal Nobel, il sacrificio di Martin Luther King per i neri d’America, il bagno di sangue del Vietnam, le ondate di rivendicazioni pacifiste, lo tsunami per i diritti civili.

Trump, vestito con un soprabito sgargiante di estremismi e toppe guerrafondaie, è stato premiato dagli americani che volevano far affondare, come in una battaglia navale, l’establishment.  Riconosciamolo, in questo c’è riuscito. Si volta pagina nella storia americana perchè da oggi non esiste più l’America dei bianchi, dei neri, della working o middle class, ma quella che salirà o scenderà dal carro del vincitore. L’unica certezza resta la sconfitta storica di Hillary Clinton.

Siamo alle porte di un gelido inverno, ingabbiato nel bianco e nero cinematografico di Gordon Willis, e chissà quanto tempo impiegheremo prima di tornare a cantare Waitin’ on a Sunny Day di Springsteen, brano con cui nel 2002 danzammo magicamente sotto la pioggia allo stadio San Siro di Milano, sognando un’America che non sarà di certo quella murata di Trump.

Ciascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita

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rosario_pipolo_blogCiascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita. Chi più, chi meno, perché questa diventa una condizione dell’essere che va oltre un sisma. Dalle mie parti lo fummo dopo il terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980. Nel napoletano ce la cavammo con crepe nelle mura di casa e noi bambini riuscimmo a mettere in salvo l’unico bottino dell’infanzia, la scatola di giocattoli che numerava una per una le nostre Befane.

Ciascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita. I miei coetanei di allora furono seppelliti sotto le macerie di Sant’Angelo dei Lombardi – sarebbero potuti essere i papà e le mamme dei bimbi dell’Amatrice o della Norcia di oggi – e quello sterminato fazzoletto di terra della Campania fu condannato ad essere per anni landa desolata uscita da bombardamenti.

Ciascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita. Quando le scosse di assestamento andarono scemando e ci fecero dimenticare la nostra condizione di precarietà, iniziammo ad additare come “terremotati” il flusso migratorio che da Napoli si era trasferito in provincia.
Ancora oggi in paese li chiamano quasi con disprezzo “i terremotati”, perché ai paesani integralisti e leghisti del Sud non è mai andata giù l’invasione del territorio e dei castelli di cemento dei palazzinari locali.

Ciascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita. Io mi sono sentito terremotato decenni dopo in visita alle zone del sisma dell’Irpinia: c’erano ancora le baraccopoli con la gente in attesa di una casa in contrasto con le ville con piscina o le superstrade su misura nell’avellinese, che i feudatari della vecchia e ingorda Balena bianca si erano fatti costruire con parte dei finanziamenti mai giunti agli sfollati.

Ciascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita. Io mi sento ancora terremotato oggi ascoltando il sermone radiofonico di un vecchio prete stantio e indiavolato: “Il terremoto nel Centro-Italia è il castigo di Dio per le unioni civili”.

Ciascuno di noi è stato terremotato almeno una volta nella vita, chi più, chi meno.

Viaggio al Club Tenco, in quello scalo merci della vecchia ferrovia

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rosario_pipolo_blogA Sanremo improvvisamente gli spifferi autunnali sono diventati miti. Mi sembra di rivedere mia madre quando ne approfittava per ristendere fuori il bucato. Da qualche anno la nuova sede del Club Tenco, fondato da Amilcare Rambaldi nel ’72 insieme a tanti missionari della cultura per la canzone d’autore, è l’ex scalo merci della vecchia stazione ferroviaria sanremese. Preferisco questa a quella nuova con i binari seminterrati, anonima e amorfa.

Entrando in sede senza pass, nessuno mi riconosce da addetto ai lavori. Sono tutti indaffarati con gli incontri del programma del Premio Tenco. Mi fermo nell’angolo dove ci sono un divano e una libreria. Mi sembra di esserci tornato dopo chissà quanto tempo, In realtà è la mia prima volta al Club Tenco.
Quando non esistevano i blog, noi giornalisti chiudevamo a chiave nello sgabuzzino i nostri diari di viaggio, come se articoli o reportage non avessero un backstage. In realtà non è mai stato così, soprattutto per noi che abbiamo scritto di spettacolo. Nei miei archivi inzuppati di carta giacciono interviste e tra foto e locandine appese alla parete del Club Tenco ritrovo gli incontri con Gaber, Vecchioni, Guccini.

Da una parte su un giradischi danza un vinile con le canzoni di Luigi, sugli scaffali della parete opposta ci sono l ultime annate di Il Cantautore, la monografia che da quarant’anni accompagna il programma del Premio dedicato alla memoria del cantautore scomparso il 27 gennaio del ’67.
La carta ingiallisce, ma non va mai a male, come le riflessioni sulla Resistenza in un numero di qualche anno fa. Tutti “partigiani della cultura” gli affiliati al club Tenco perchè hanno fatto della Resistenza una condizione del divenire, a difesa della canzone d’autore in un’Italia smemorata, che spesso dimentica, a volte addirittura rinnega.

In un certo senso lo è stata anche mia madre partigiana di questa Resistenza musicale: Alla fine degli anni ’70 tra profumi di bucato e detersivo aprì nella mia infanzia il varco sul canzoniere di Luigi Tenco, distillando a misura di bambino la rivoluzione di questo cantautore del futuro. Se non fosse stato per lei, le mie stagioni musicali si sarebbero arenate, per questioni anagrafiche, sul pop degli anni ’80 e sugli ingorghi musicali del riflusso.

Dall’altra parte del divano incrocio lo sguardo di Toni, il papà dell’Ala Bianca che salvaguarda il patrimonio musicale del Tenco. Lo ricordo ai tempi dello Smeraldo a Milano – allora un teatro valeva più di un food store destinato alla Milano radical-chic – in camerino che parlottava con Enzo e Paolo Jannacci.
Tra una polaroid e l’altra, mi avvisano che devono chiudere la sede. Il tempo è volato. Mi sarei fatto rinchiudere dentro, avrei continuato a divagare tra letture o chiacchierando con Enrico De Angelis per farmi raccontare per filo e per segno questo viaggio quarantennale.

All’uscita, mi ritrovo fronte mare sulla riviera ligure tra gli ultimi fili di luce. Ci sono tre coppie su una panchina che chiacchierano. Tiro fuori lo smartphone, colgo uno scatto al volo, lo pubblico senza filtri su Instagram. Mi piace questa foto e la titolo “Ho capito che ti amo”, proprio come la canzone di Tenco che veniva fuori dal giradischi nel vecchio magazzino dell’ex stazione ferroviaria di Sanremo.

“Ho capito che ti amo” non è soltanto la consapevolezza di un sentimento longevo e duraturo alle intemperie del tempo, è anche un lucido riconoscimento verso chi ha nutrito amore nei confronti di una cultura musicale che ci ha fatti tutti militanti dell’esistenzialismo, guardandoci dentro senza i filtri fasulli della vita digitale, prima di approdare a quella gaberiana della “libertà è partecipazione”.

Nessuno escluso: “Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma!”

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Rosario PipoloMi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Nel tuo sound e sulla tua pelle è tatuato l’Egitto, la terra di tuo padre e quella che io attraversai da bambino tra le pagine di un sussidiario di storia. Avessi avuto un compagno di banco come te, avremmo fatto comunella senza aspettare l’ora odiosa della merenda.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Ti avrei raccontato dei miei viaggi metropolitani a Napoli con nonno Pasquale e ti avrei portato una pastiera fatta in casa da nonna Lucia, e l’avrei barattata volentieri con i dolcetti fatti da tua nonna in Egitto. A me bastava un biglietto d’autobus per abbracciare la mia, tu non finivi mai di rompere salvadanai per metterti su un volo verso il Cairo.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Muovendo i primi passi nella vita, ad avercelo un amico di infanzia che ti rappava la vera geografia della periferia, perché ognuno ne ha una, dentro e fuori di sé.
Dalle mie parti bisognava accontentarsi di neomelodie, diffuse per radio ad alto volume da un pianerottolo all’altro, i cui drammi d’amore non sempre a lieto fine coprivano gli spari della criminalità organizzata.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Non le voglio più quelle verità nascoste, quando restavo chiuso in casa perché fuori c’era il coprifuoco per il controllo del territorio. Da me i papponi, che a messa intingevano tre volte la mano nell’acquasantiera, la sera se pigliavano ‘o cafè con una delle dita della mano di Don Raffaè.

La verità, Amir? Diventiamo subdolamente brutti, sporchi e razzisti tutte le volte che freniamo la voglia di condividere le nostre storie di periferia con chi è arrivato da una periferia più lontana, quella di una terra straniera, di un altro continente. Da bambino sognavo di fare un viaggio al Cairo. Ho la valigia dietro l’angolo, vorrei farlo in tua compagnia e partendo dalla tua Torpignattara. 

Il tuo rap frena il mio pianto. Mi chiamo Rosario, come la “Cune de la Bandera” argentina,  ma song ‘e Napule.