Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives Ottobre 2016

Viaggio al Club Tenco, in quello scalo merci della vecchia ferrovia

viaggio-club-tenco-sanremo

rosario_pipolo_blogA Sanremo improvvisamente gli spifferi autunnali sono diventati miti. Mi sembra di rivedere mia madre quando ne approfittava per ristendere fuori il bucato. Da qualche anno la nuova sede del Club Tenco, fondato da Amilcare Rambaldi nel ’72 insieme a tanti missionari della cultura per la canzone d’autore, è l’ex scalo merci della vecchia stazione ferroviaria sanremese. Preferisco questa a quella nuova con i binari seminterrati, anonima e amorfa.

Entrando in sede senza pass, nessuno mi riconosce da addetto ai lavori. Sono tutti indaffarati con gli incontri del programma del Premio Tenco. Mi fermo nell’angolo dove ci sono un divano e una libreria. Mi sembra di esserci tornato dopo chissà quanto tempo, In realtà è la mia prima volta al Club Tenco.
Quando non esistevano i blog, noi giornalisti chiudevamo a chiave nello sgabuzzino i nostri diari di viaggio, come se articoli o reportage non avessero un backstage. In realtà non è mai stato così, soprattutto per noi che abbiamo scritto di spettacolo. Nei miei archivi inzuppati di carta giacciono interviste e tra foto e locandine appese alla parete del Club Tenco ritrovo gli incontri con Gaber, Vecchioni, Guccini.

Da una parte su un giradischi danza un vinile con le canzoni di Luigi, sugli scaffali della parete opposta ci sono l ultime annate di Il Cantautore, la monografia che da quarant’anni accompagna il programma del Premio dedicato alla memoria del cantautore scomparso il 27 gennaio del ’67.
La carta ingiallisce, ma non va mai a male, come le riflessioni sulla Resistenza in un numero di qualche anno fa. Tutti “partigiani della cultura” gli affiliati al club Tenco perchè hanno fatto della Resistenza una condizione del divenire, a difesa della canzone d’autore in un’Italia smemorata, che spesso dimentica, a volte addirittura rinnega.

In un certo senso lo è stata anche mia madre partigiana di questa Resistenza musicale: Alla fine degli anni ’70 tra profumi di bucato e detersivo aprì nella mia infanzia il varco sul canzoniere di Luigi Tenco, distillando a misura di bambino la rivoluzione di questo cantautore del futuro. Se non fosse stato per lei, le mie stagioni musicali si sarebbero arenate, per questioni anagrafiche, sul pop degli anni ’80 e sugli ingorghi musicali del riflusso.

Dall’altra parte del divano incrocio lo sguardo di Toni, il papà dell’Ala Bianca che salvaguarda il patrimonio musicale del Tenco. Lo ricordo ai tempi dello Smeraldo a Milano – allora un teatro valeva più di un food store destinato alla Milano radical-chic – in camerino che parlottava con Enzo e Paolo Jannacci.
Tra una polaroid e l’altra, mi avvisano che devono chiudere la sede. Il tempo è volato. Mi sarei fatto rinchiudere dentro, avrei continuato a divagare tra letture o chiacchierando con Enrico De Angelis per farmi raccontare per filo e per segno questo viaggio quarantennale.

All’uscita, mi ritrovo fronte mare sulla riviera ligure tra gli ultimi fili di luce. Ci sono tre coppie su una panchina che chiacchierano. Tiro fuori lo smartphone, colgo uno scatto al volo, lo pubblico senza filtri su Instagram. Mi piace questa foto e la titolo “Ho capito che ti amo”, proprio come la canzone di Tenco che veniva fuori dal giradischi nel vecchio magazzino dell’ex stazione ferroviaria di Sanremo.

“Ho capito che ti amo” non è soltanto la consapevolezza di un sentimento longevo e duraturo alle intemperie del tempo, è anche un lucido riconoscimento verso chi ha nutrito amore nei confronti di una cultura musicale che ci ha fatti tutti militanti dell’esistenzialismo, guardandoci dentro senza i filtri fasulli della vita digitale, prima di approdare a quella gaberiana della “libertà è partecipazione”.

Nessuno escluso: “Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma!”

mi-chiamo-amir-ma-so-de-roma

Rosario PipoloMi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Nel tuo sound e sulla tua pelle è tatuato l’Egitto, la terra di tuo padre e quella che io attraversai da bambino tra le pagine di un sussidiario di storia. Avessi avuto un compagno di banco come te, avremmo fatto comunella senza aspettare l’ora odiosa della merenda.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Ti avrei raccontato dei miei viaggi metropolitani a Napoli con nonno Pasquale e ti avrei portato una pastiera fatta in casa da nonna Lucia, e l’avrei barattata volentieri con i dolcetti fatti da tua nonna in Egitto. A me bastava un biglietto d’autobus per abbracciare la mia, tu non finivi mai di rompere salvadanai per metterti su un volo verso il Cairo.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Muovendo i primi passi nella vita, ad avercelo un amico di infanzia che ti rappava la vera geografia della periferia, perché ognuno ne ha una, dentro e fuori di sé.
Dalle mie parti bisognava accontentarsi di neomelodie, diffuse per radio ad alto volume da un pianerottolo all’altro, i cui drammi d’amore non sempre a lieto fine coprivano gli spari della criminalità organizzata.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Non le voglio più quelle verità nascoste, quando restavo chiuso in casa perché fuori c’era il coprifuoco per il controllo del territorio. Da me i papponi, che a messa intingevano tre volte la mano nell’acquasantiera, la sera se pigliavano ‘o cafè con una delle dita della mano di Don Raffaè.

La verità, Amir? Diventiamo subdolamente brutti, sporchi e razzisti tutte le volte che freniamo la voglia di condividere le nostre storie di periferia con chi è arrivato da una periferia più lontana, quella di una terra straniera, di un altro continente. Da bambino sognavo di fare un viaggio al Cairo. Ho la valigia dietro l’angolo, vorrei farlo in tua compagnia e partendo dalla tua Torpignattara. 

Il tuo rap frena il mio pianto. Mi chiamo Rosario, come la “Cune de la Bandera” argentina,  ma song ‘e Napule.

Addio a Dario Fo, giullare inviato da Dio a teatro

dario-fo

rosario_pipolo_blog Non nascerà più un altro Dario Fo. Dio ne ha mandato uno in terra e ha scelto di farlo ramificare in Teatro, come una quercia. La vita è fatta di stagionalità, l’esistenza di più vite, di rinascite e mutamenti, evoluzioni e rivoluzioni.

Fo ha sgominato il tempo facendosi maschera; ha scarnificato la letteratura saccheggiando la commedia dell’arte e ricostruendo nel nostro presente le luci e ombre medievali attraverso il “Mistero buffo”, che ci ha fatto guarire dall’alibi disonesto della rassegnazione.

Dario Fo ha celebrato  (San) Francesco come giullare di Dio, noi oggi ne riconosciamo un altro: Fo, giullare di Dio appunto, alla sua maniera di restituire “dignità agli oppressi” o contrastare il Padreterno con delle interrogazioni che hanno reso l’arte del teatro la via paradossale per tentare di capirci qualcosa del mistero della vita.

Da qualche parte sta scritto che “dietro un grande uomo ci sia una grande donna”. Franca Rame  è stata compagna, moglie, confidente, prolungamento del giullare che ha viaggiato nel ‘900 senza subire passivamente gli squilibri degli spostamenti.

Prima di essere Nobel per la Letteratura  è stato legno del palcoscenico da cui germoglia il gramelot e gli stilemi della lingua fatta di mescolanza di dialetti; prima di essere attore e drammaturgo, è stato il sovversivo contro gli atti intimidatori e censori dei poteri forti e occulti della nefasta Prima Repubblica italiana; prima di essere Dario Fo, è stato “Dario e Franca”, quel duo inscindibile che oggi si prenderebbe burla di tutti gli ipocriti che lo piangono.

Mai come stanotte non vorrei essere lontano da Milano, dal corso di Porta Romana in cui ogni sera rincasava e trovava un bocciuolo nelle piantine che gli aveva affidato Franca. Chi ha fatto del teatro una ragione di vita non deve vergognarsi di versare lacrime, perché Dario Fo è stato il faro nel buio che ha smascherato le nostre coscienze, facendoci vedere in quale “merda” mettevamo i piedi.

Negli ultimi ventidue anni della mia vita ho condiviso diversi momenti con lui tra camerini e teatri, chiacchiere che furono schegge di interviste fino all’ultimo brindisi per i 90 anni al Piccolo di Milano, nella penombra del tempietto di Strehler e Grassi.

La prima volta non si scorda mai, in un camerino del teatro Bellini di Napoli, con Franca che si affaccia e bisbiglia: “Dario, Dario, guarda questo giovane napoletano, garbato e preparato, quanto ne sa su di noi”. Dopo l’intervista, si infilano il soprabito, mi prendono sottobraccio e scendiamo insieme le scale del teatro fino all’uscita sul retro.

È un ritaglio della mia vita che ho sempre custodito senza sgualcire  e, nel pieno di questa notte vuota e miseramente silenziosa, ritorna a galla con prepotenza: l’arroganza del memento si porta via con Dario Fo il Teatro che da burattini di legno ci ha trasformato in uomini veri, stessa materia di cui è fatta la coscienza civile.

Viaggio nella New York al femminile

new-york-femminile-elisa-pasino

rosario_pipolo_blogFacendo due conti, l’anno scorso io ritornavo a New York dopo 23 anni ed Elisa Pasino intingeva la penna nel calamaio per cominciare a scrivere la sua guida New York al femminile, edita da Morellini. Che gusto retrò ha questa immagine della penna nel calamaio oggi che abbiamo digitalizzato tutte le dita della mano.

Ci sta bene pensando allo stile di scrittura della Pasino, che sa conservare tatto ed eleganza, in quel suo modo di essere penna e donna di altri tempi. Adocchiando la sua New York al femminile mi vien da scrivere che della noiosa compilazione di una guida turistica non c’è niente.
Anzi c’è quella punta di ricercatezza di chi ti prepara ad un viaggio creando la complicità con il lettore e svelando i piccoli segreti della Grande Mela, che sa come essere donna.

Eppure la femminilità newyorchese non ha niente a che vedere con lucidalabbra, mascara o fondotinta. Ha quel suo modo di manifestarsi in controluce, come conferma il cinema di Woody Allen quando tratteggia la Manhattan delle donne.
Nel mio ritorno autunnale nella Grande Mela avevo rimesso piede da Tiffany con la convinzione che l’essenza femminile di questo posto fosse tutto nella protagonista del romanzo e film che hanno fatto la fortuna del brand.

Il portiere si sentì leggermente imbarazzato quando sbraitai: “Dove è finito il volto gigante di Audrey Hepburn? Quanto siete ingrati nei confronti del sorriso di Holly che ha dato femminilità a questo tempietto sulla Fifth Avenue”.
Speriamo che la Pasino non legga questo ritaglio di viaggio, perché dopotutto lei sa che la femminilità di una città non deve  essere urlata, ma sussurrata con garbo.

Mi annoiano le guide turistiche, mi fanno sbadigliare. Qualche volta accade che un diario di viaggio metta il soprabito di una guida e prenda per mano il lettore. Essere presi per mano di questi tempi? Cosa rara e giusta. Mi è successo tra le pagine di New York al femminile.

Nonni per sempre nella grande festa della vita

festa-nonni-2-ottobreLa mia vita è spaccata a metà. I primi 23 anni sotto la custodia dei miei nonni Pasquale e Lucia, gli ultimi venti senza di loro. Il dolore per la perdita immensa spettinò i miei vent’anni, li scapigliò e mi fece rendere conto che non avrei mai avuto bisogno di una festa dei nonni per ricordarli.

I nonni non si celebrano, si vivono, qualsiasi sia il rendiconto da pagare, anche quello di sovrapporli ai genitori. I parenti sono suppellettili, è legittimo svincolarsi lungo il corso della vita.
I nonni no, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la chiave d’accesso alla nostra nascita, infanzia, adolescenza, al nostro divenire uomini. E questo non perché li incoronai nonni  proprio con la mia nascita, all’alba dei loro cinquant’anni.

Non è questione di posizionamento, nonostante le dicerie popolane insistano che il primo nipote sia come “il primo amore”, non si dimentica mai. E’ questione di accoglierli nella propria vita come fari della quotidianità, senza ridurli alla coppia di anziani da andare a trovare qualche domenica a pranzo.

Ho lasciato che i miei nonni ingombrassero la mia vita con amore, saggezza, presenza quotidiana, coinvolgendoli in qualsiasi cosa facessi, senza l’odiosa soggezione che alza muri e barriere. Nonno Pasquale e nonna Lucia mi hanno fatto ricco, lasciandomi una grande eredità: i piccoli e grandi segreti di famiglia, un patrimonio della memoria per affrontare la vita e imparare a distinguere le persone mediocri da quelle altruiste, fatte di sostanza e non di apparenza gonfiabile.

Nonno Pasquale mi donò un’edizione del libro Cuore degli anni ’50, su cui aveva scritto il suo testamento: “Leggo e rileggo questo libro e più mi rendo conto che non tutti gli uomini sono cattivi verso il prossimo. Che Iddio non si dimentichi mai di me”. Dopo la sua scomparsa, nonna Lucia esaudì il mio desiderio di far scolpire queste parole sulla sua lapide.

Non ho bisogno della Festa dei Nonni o dei bagordi di una ricorrenza per fingere di essere stato un nipote premuroso. Loro restano sostanza del mio divenire e il vuoto vissuto per la loro perdita di allora si è trasformato nel dondolio di memorie e futuro. Ci ritroveremo un giorno, come se niente ci avesse mai separato, nella soffitta dell’eternità.