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Archives Febbraio 2016

Giulio Regeni e il prezzo della verità

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Rosario PipoloQuanto costa la verità? E’ un quesito che ci giochiamo ai dadi quando di mezzo c’è un intrigo internazionale. Nonostante la mobilitazione dei social network, la morte di Giulio Regeni sguazza ancora nel mistero a distanza di un mese.

Il giovane ricercatore friulano, appassionato di studi di Medio Oriente, è scomparso lo scorso 25 gennaio al Cairo ed è stato ritrovato morto una settimana dopo sulla strada tra la capitale dell’Egitto e Alessandria.
Giulio è diventato un altro martire nella lotta contro la libertà di pensiero. Quando andrà avanti ancora questa farsa da luridi commedianti a sostegno dell’alleanza strategica dell’Italia con l’Egitto?

Mentre il Cairo conosce per filo e per segno i punti deboli di Roma, allenata a tapparsi il naso di fronte al lercio fetore, i genitori di Giulio non si rassegnano e chiedono verità. Questa volta non c’è un riscatto da pagare, mettendo del cerone per raschiare il barile in vista della prossima campagna elettorale.
Questa volta c’è un cadavere ammutolito da un regime che fa franare la nostra coscienza civile, al di là di ogni subdola strumentalizzazione politica.

Dalla sera del 3 febbraio, giorno del ritrovamento del cadavere percosso, su Giulio Regeni se ne sono dette tante: c’è chi lo ha rimproverato di essersela andata a cercare o chi gli ha sputato in faccia, trattandolo come una spia che flirtava con i servizi segreti.

Ciascuno di noi potrebbe dare il primo schiaffo per questa giustizia che tarda ad arrivare: nonostante i focolai di politica interna e il clima di insicurezza degli ultimi sei anni, il flusso del turismo italiano verso l’Egitto resta consistente. Quanto costa la verità? Cancellare la prossima vacanza in un villaggio stellato di Sharm?

La protesta silenziosa da viaggiatore o vacanziere potrebbe dare una bella lezione a chi, in queste ore, sta seppellendo la verità.

La domenica, l’arbitro e il bambino

Foto di Antonio D'Alessandro

Foto di Antonio D’Alessandro

Rosario PipoloLa mia prima stagione calcistica fu quella 1977-1978. Ero seduto sugli spalti di uno stadio di periferia in una domenica pomeriggio. Agli occhi dei tifosi apparivo come un bimbo strano. Non tifavo per nessuna delle due squadre in campo, ma per l’arbitro.

Il ragazzotto baffuto sulla ventina andava sù e giù per il campo, fischietto alla mano, maglietta e pantaloncino nero. Appena era a pochi metri da me, non perdeva l’occasione per farmi l’occhiolino. I tifosi capirono che tra me e l’arbitro c’era un rapporto di complicità. Al termine della partita, mi spiegarono che l’arbitro sarebbe uscito da tutt’altra parte.
Gli andammo incontro mentre lo scortarono fuori dallo stadio. Appena mi vide, non mancò all’appuntamento: tirò fuori dalla sacca un piccolo snack e l’aranciata in una confezione speciale per la federazione e me li cedette come sempre.

Quella domenica ci fu un premio aggiuntivo. Il mio primo viaggio con l’arbitro. Salimmo sul treno e ci sedemmo. Mi sbottonò il montgomery marroncino e mi aprì l’aranciata. Mentre la sorseggiavo, lui accese una radiolina per ascoltare i risultati delle altre partite. Tirò fuori un taccuino per appuntare.
Poi mi fece divertire scendendo le scale mobili della metropolitana. Ci infilammo nelle gallerie ma quella volta non eravamo all’Edenlandia. Pensando che l’arbitro era diventato papà a vent’anni, scaravento nel tempo i versi di una canzone di oggi: “Un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te; un giorno mi dirai che un padre non deve piangere mai”.

Usciti dalla metropolitana, io e l’arbitro attraversammo mano nella mano viale Cavalleggeri d’Aosta. Non c’era nessuno per strada, all’orizzonte, in direzione del mare di Coroglio, gli ultimi fili di luce. Fu la prima volta che lo chiamai per nome, io che lo aveva titolato “zio” con la mia nascita e lui fu il più giovane della famiglia ad esserlo.

Non ho mai creduto nei rapporti di parentela. I parenti sono un’imposizione sociale dell’umanità di cui mi sono disfatto nelle piccole rivoluzioni cosmiche. Credo nei legami che ciascuno di noi costruisce singolarmente con l’altro.

Io e l’arbitro mano nella mano per quarantadue anni, nell’istante di una domenica, nella conquista dell’attimo che ricomincia. Accade ancora oggi che nuota nel mare di Coroglio, alla ricerca del suo canotto a remi ormeggiato a largo del’isolotto di Nisida. Finché il buio non ci separi.

Terra dei Fuochi e tv di regime

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Rosario PipoloNelle province campane di Napoli e Caserta, cuore della Terra dei Fuochi, il tasso di mortalità è aumentato in maniera spropositata. La maggior parte dei casi sono per tumore o leucemia: 28,9 e 27,5 decessi per diecimila abitanti, sono i dati forniti da Corriere.it.

I dati dell’Istat parlano anche di mancanza di posti letto negli ospedali e, di conseguenza, di un doloroso flusso di migrazione per curarsi altrove. Vi siete accorti che il vostro vicino, per giunta gravemente ammalato, sta ipotecando l’appartamento o sta facendo questua tra i  parenti per finanziare il viaggio della speranza?

Nel frattempo a Porta a Porta, salotto televisivo tutto tarlato da Prima Repubblica, si parla di Terra dei Fuochi, annaquando la terminologia del tumore con malattia grave. Del resto in questa tv pubblica di regime, a cui verseremo dal prossimo luglio in bolletta il canone televisivo, i panni sporchi si lavano in famiglia – come recitava nel suo breviario il divo Giulio – sbiancando la coscienza con qualche fiction tv sul delicato argomento.
Chissà se ne prenderà atto il nuovo direttore di Raiuno Andrea Fabiano che dovrebbe svecchiare la rete ammiraglia di mamma RAI.

Tornando alla Terra dei Fuochi, è raccapricciante come nella città di Napoli, colpita anch’essa da dilaganti casi di mortalità,  tornino a farsi spazio i vicerè dello stantio rinascimento partenopeo. Manca poco al 6 marzo, giorno delle Primarie per scegliere il candidato a Sindaco del capoluogo partenopeo. Non basta più la rabbia esplosiva da rapper, la cantata del neomelodico o la promessa politica.

“Masaniello è cresciuto, Masaniello è turnato” per non farsi beffeggiare, per non farsi derubare il diritto alla salute.

San Valentino: “Per essere felici ci vuole coraggio”

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Rosario PipoloBighellonando nel centro di Cremona, mi ritrovo accanto due ragazze. La più giovane, avrà avuto a malapena vent’anni, chiede all’altra: “Quest’anno ti hanno fatto il regalo più bello per San Valentino. La casa nuova è stata imbiancata e finalmente andate a vivere insieme”.

L’interlocutrice, poco più di trent’anni, replica: “Sono due anni che siamo sposati in comune e, per un motivo o un altro, non abbiamo vissuto mai sotto lo stesso tetto. San Valentino mi ha illuminata. Non è lui l’uomo che vorrei accanto nella vita. Chi glielo dice ai miei?”.  

Senza dare nell’occhio origlio la conversazione e faccio qualche riflessione. L’abito commerciale, con cui è stato vestito il 14 febbraio, si sgualcisce di fronte ai ventenni e i trentenni di oggi, arbitrati dalla mia generazione.
Capita così che una ricorrenza, per tanti ridotta al tiro a sorte dell’aforisma pescato da un Bacio di cioccolato, diventi il momento complicato della resa dei conti, di una scelta.

Da che parte sto io? A fianco della ventenne che, senza peli sulla lingua, chiude così la conversazione: “Il tuo non è un matrimonio, è una firma. Il vero amore è altro”.
Appena va via l’amica, la ragazza non riesce a trattenere le lacrime e dirotta gli occhi bagnati nella vetrina di una pasticceria cremonese, allestita con tante golosità per il 14 febbraio. Un sottile sorriso sboccia dagli occhi lucidi, dopo aver avvistato in vetrina un buffo orologio con la scritta tra le lancette “Più passa il tempo, più ti voglio bene”.

Provando a mettermi nei suoi panni, mi torna in mente una sacrosanta verità. L’aveva messa nero su bianco la scrittrice danese Karen Blixen: “Per essere felici ci vuole coraggio”. E non è questione d’età, aggiungerei.

Oscar, il razzismo dell’Academy e le contraddizioni di Spike Lee

Rosario PipoloHollywood resta il riflesso dell’America, nel bene e nel male, anche in termini di segregazione razziale. Quando nel 1964 Sidney Potier fu il primo attore di colore a vincere l’Oscar, Martin Luther King continuava a battagliare nelle piazze per diritti dei neri americani.
Oggi un Presidente di colore si avvia alla chiusura del secondo mandato alla Casa Bianca e, dopo la bufera sulla candidatura agli Oscar, l’Academy viene accusata di razzismo.

Per dovere di cronaca, è superfluo citare attori e registi di colore finiti nel firmamento hollywoodiano, consegnando al nostro immaginario collettivo pellicole memorabili. Lo hanno fatto anche registi alla Spike Lee. Anzi se proprio devo dirla tutta, senza film come Mo’ Better Blues, nel 1992 non mi sarei intestardito per recarmi ad Harlem a tutti i costi.
Allora ero uno studente, me lo proibirono, dicevano che era pericoloso. Durante le tre settimane di studi in quell’estate newyorchese, mi rifiutai di scegliere la formula del mini tour organizzato, lo additai come gesto razzista e sbraitai: “Non sono animali da circo?”.

L’accusa di razzismo, sbandierata oggi da Spike Lee nei confronti dell’Academy, si ritorce contro di lui. Non fu proprio lui ad attaccare ferocemente Clint Eastwood nel 1988, in occasione dell’uscita di Bird? Secondo il regista di Malcom X un bianco non poteva raccontare la vita di un musicista di colore come Charlie Parker. Eastwood lo fece magnificamente.

Qui non si tratta del colore della pelle, ma di quella infame “subcultura dello scarto”, che ci rende tutti maledettamente sessisti, maschilisti, omofobi, fanatici religiosi e politici. Una regressione culturale, fatta di gabbie sotto cui siamo finiti tutti, Hollywood e Academy comprese.

Al ritorno dal mio viaggio a Memphis, mi sono chiesto se un documentarista bianco decidesse di fare un film sulla storia della Stax Records. Che smacco sarebbe scoprire che Jim Stewart, fondatore dell’etichetta della Soul music e della sciabola musicale che tagliò a pezzetti le lobby razziste del Tennessee, era paradossalmente “un bianco”. È il caso che Spike Lee faccia un passo indietro.

I Love Ischia, l’isola romantica che ha salvato l’ultima cabina telefonica

Rosario PipoloSi può essere romantici senza essere per forza nostalgici, appendendo i corsi e ricorsi storici di una comunità ad una vecchia cornetta del telefono. Mentre l’Italia si disfa delle obsolete cabine telefoniche, l’isola di Ischia dà una bella lezione alla natività digitale: salviamo l’ultimo telefono pubblico. La notizia fa subito il giro del web.

L’emancipazione tecnologica fa un passo indietro di fronte a questa notizia di colore, mettendo alle strette la mia generazione. All’alba degli anni ottanta ho assistito al pensionamento del gettone telefonico e ho visto, nel giro di un decennio, spuntare come funghi i nuovi telefoni panciuti, che masticavano schede telefoniche.
Negli anni ’90 vi ricordate i tipi sospetti che sostavano nelle cabine telefoniche nelle ore serali? Li scambiavamo per un killer o il maniaco di turno, invece erano gli inarrestabili collezionisti  a caccia di schede telefoniche dimenticate, smagnetizzate.

A Ischia, l’isola dove ho cominciato la mia attività di giornalista, fu proprio una cabina telefonica a salvarmi per chiedere asilo in redazione, dopo aver perso l’ultimo traghetto per Napoli. Oggi basterebbe un messaggio su WhatsApp ad uno degli amici della community social di I Love ISCHIA, che si prodigherebbe per ospitarmi.

Mi toccherà fare un salto a Succhivo, il piccolo comune ischitano battutosi a furor di popolo in difesa dell’ultima cabina telefonica, con l’ultima moneta in tasca, come accadeva negli anni universitari.
Quando le telefonavo dalla cabina, ero costretto a trovare una ragazza per strada che si fingesse sua amica. Mentre la mamma andava a chiamarla, attraversando il lungo corridoio al secondo piano, mi ero giocato già una parte del tempo della telefonata. Per fortuna, la cabina era a pochi metri da casa e così quella volta le dissi: “Prima che si interrompa la telefonata, mettiti dietro la finestra. Io sono accovacciato sulla Vespa”.

Ci inventammo così la prima videochiamata da un telefono pubblico.