Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Reina Elisabetta, opera d'arte

10 opere d’arte per ricordare la Regina Elisabetta, la nostra cara Lillibet

Occhiali

La Regina Elisabetta attraverso 10 opere d’arte che hanno trasformato la sovrana più famosa del pianeta in un’icona pop che resterà nel cuore di tanti di noi. A un mese esatto dalla scomparsa. ricordiamoci che Elisabetta II del Regno Unito, nei 70 anni del suo regno, ha lasciato un forte segno anche nell’immaginario collettivo. Dalla Gran Bretagna ha cavalcato il mondo e il suo Novecento.

L’incoronazione di Cecil Beaton (1953)

Ritratto di Dorothy Wilding (1952)

La Regina Elisabetta di Andy Warhol (1985)

The Queen di Justin Mortimer (1997)

The Royal Family di John Wonnacott (2000)

Lucian Freud, HM Queen Elizabeth II (2001)

Queen Elizabeth II di Chinwe Chukwuogo-Roy (2002)

 Lightness of Being di Chris Levine (2004)

Dreams and Nightmares of the Queen di George Condo (2006)

Queen Elizabeth II di Dan Llywelyn Hall (2013).

Pesaro, Capitale italiana della Cultura 2024


Pesaro, la città di Gioacchino Rossini, è stata scelta come Capitale italiana della Cultura 2024. Un singolare gesto di amicizia e di fraternità tra i popoli arriva dal Sindaco di Pesaro Matteo Ricci e si estende fino a Procida, Capitale della Cultura per tutto il 2022.

Ringrazio Michele Carranante, esperto di comunicazione audiovisiva che vanta collaborazioni con Rai e Mediaset e al quale mi legano gli esordi come copywriter per Linea Blu, per questo video-racconto dopo la proclamazione con l’intervento di diverse autorità, tra cui il Ministro della Cultura Franceschini.

https://youtu.be/P0utjW-MYuw

Luis Sepúlveda: “Cerca a Santiago tutti i luoghi della memoria.”

Penso con rabbia al Covid che l’anno scorso non ha risparmiato neanche Luis Sepúlveda. Conservo con gelosia il ricordo dell’incontro con lo scrittore cileno alla fine degli anni ’90 al Lido di Venezia. Mi ero perso tra le pagine di Diario di un killer sentimentale, prima di finire diritto al cuore del suo mondo letterario.
Ricordo con profonda emozione, in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia, la prima della versione animata di Enzo Dalò della sua La gabbianella e il gatto.

ISPIRAZIONE DEL MIO VIAGGIO IN CILE

Alla fine della nostra chiacchierata gli confidai un progetto: mettere da parte i soldi necessari per andare nel suo Cile a rendere omaggio a tutte le vittime di Pinochet. Luis fu molto caro e, lasciandomi una dedica, mi disse: “Cerca a Santiago tutti i luoghi della memoria.”
Ho mantenuto la promessa. Cinque anni fa ho attraversato le Ande con un bus e ho vissuto due giorni intensi a Santiago del Cile in memoria dei Desaparecidos e dei prigionieri, proprio come Luis, che non avevano mai smesso di rinunciare al sogno di un Sudamerico libero dalla schiavitù, anche del mito occidentale della velocità.

LA MUSICA DEI LOS PRISIONEROS

Mi vengono da canticchiare brani di Los Prisioneros, musicisti compaesani che cantarono contro la dittura di Pinochet, scoperti proprio durante il mio viaggio a Santiago.
Alcuni album, provenienti da la Tienda Nacional al numero 369 di via Merced della capitale, profumano ancora di Cile proprio come la “Gabbianella” di Sepúlveda che fa della fantasia un aquilone per volare sopra le crudeltà della vita.

Asterix e Obelix e la Francia allo specchio

Asterix e Obelix mi riportano alle estati nel Sud della Francia dalla mia famiglia, al mio studio matto e disperatissimo all’università della lingua francese e di tutta la storia che vi gira intorno. Proveniente da Parigi, questo è il primo albo della premiata ditta Goscinny (1926-1977) e Uderzo (1927-2020).

Albert Uderzo, uscito di scena il 25 marzo 2020 in piena emergenza Covid-19, aveva disegnato con la scrittura del compianto Goscinny pagine e pagine della storia a fumetti d’oltralpe. La Fille de Vercingétorix, disegnato da Conrad e pubblicato nel 2019, è l’ultimo album supervisionato dallo stesso Uderzo.

Quando ho incontrato Gérard Depardieu qualche anno fa ad un festival di cinema a Firenze, mi ha detto a proposito della versione cinematografica che ogni francese, attore o non, se si guarda allo specchio ritrova un po’ di Asterix o Obelix.
Nel 1997, all’ultimo esame di Francese all’università, portai tra i classici del ‘900 anche un albo del guerriero gallico e del suo fidato amico. Pensavo che avrei pagato caro il conto di questa “provocazione”, in realtà il gesto fu apprezzato. Dietro questa coppia a fumetti d’oltralpe, che in punta di piedi è entrata negli albi nel lontano 1959, si nascondono la Francia e le sue contraddizioni socio-politiche. Asterix e Obelix restano due maschere di personaggi riconoscibili oggi come allora.

Viaggio nella New York al femminile

new-york-femminile-elisa-pasino

rosario_pipolo_blogFacendo due conti, l’anno scorso io ritornavo a New York dopo 23 anni ed Elisa Pasino intingeva la penna nel calamaio per cominciare a scrivere la sua guida New York al femminile, edita da Morellini. Che gusto retrò ha questa immagine della penna nel calamaio oggi che abbiamo digitalizzato tutte le dita della mano.

Ci sta bene pensando allo stile di scrittura della Pasino, che sa conservare tatto ed eleganza, in quel suo modo di essere penna e donna di altri tempi. Adocchiando la sua New York al femminile mi vien da scrivere che della noiosa compilazione di una guida turistica non c’è niente.
Anzi c’è quella punta di ricercatezza di chi ti prepara ad un viaggio creando la complicità con il lettore e svelando i piccoli segreti della Grande Mela, che sa come essere donna.

Eppure la femminilità newyorchese non ha niente a che vedere con lucidalabbra, mascara o fondotinta. Ha quel suo modo di manifestarsi in controluce, come conferma il cinema di Woody Allen quando tratteggia la Manhattan delle donne.
Nel mio ritorno autunnale nella Grande Mela avevo rimesso piede da Tiffany con la convinzione che l’essenza femminile di questo posto fosse tutto nella protagonista del romanzo e film che hanno fatto la fortuna del brand.

Il portiere si sentì leggermente imbarazzato quando sbraitai: “Dove è finito il volto gigante di Audrey Hepburn? Quanto siete ingrati nei confronti del sorriso di Holly che ha dato femminilità a questo tempietto sulla Fifth Avenue”.
Speriamo che la Pasino non legga questo ritaglio di viaggio, perché dopotutto lei sa che la femminilità di una città non deve  essere urlata, ma sussurrata con garbo.

Mi annoiano le guide turistiche, mi fanno sbadigliare. Qualche volta accade che un diario di viaggio metta il soprabito di una guida e prenda per mano il lettore. Essere presi per mano di questi tempi? Cosa rara e giusta. Mi è successo tra le pagine di New York al femminile.

Andrea Pazienza, fumetto rock alla Rino Gaetano

andrea_pazienza

Rosario PipoloCi sono troppi anniversari in giro, troppi compleanni mancati. Qualche volta fa moda, qualche altra volta è puro isterismo collettivo rinchiuso dietro il tanfo nostalgico. La domanda più odiosa resta questa: “Come sarebbe stato se avesse raggiunto la veneranda età di…”.

Andrea Pazienza, il fumettista cult che oggi l’Italia celebra, non li ha vissuti e festeggiati  i sessant’anni. Ne ha vissuti 32 e, per giunta così intensamenti, da lasciarci un riverbero solfeggiato tra la rabbia degli anni ’70, il riflusso del ripiego degli ann’ 80 spinta fino all’omologazione digitale del tempo odierno.

Nessun fumettista è stato così musicale come Paz: La sua matita disegna rock puro e le sue storie, i suoi personaggi, sono i versi delle canzoni di Rino Gaetano tradotti in nuvole parlanti. Ad unirli non è la morte sfacciata che se li è portati via troppo presto, né tantomeno il volto dell’attore Santamaria sia nel film Paz che nella fiction tv Ma il cielo è sempre più blu.

Il ricongiugimento di Andrea e Rino avviene lungo la sottile linea d’ombra di un’opera che non può essere catalogata, che sfugge all’archiviazione post-mortem, rinascendo accanto all’irrequietezza e sofferenza di ogni generazione, pronta a ritrovare nuove illuminazioni a seconda della prospettiva.

Oggi tutti scrivono e parlano di Pazienza, anche quelle penne che una volta erano ideologicamente sulla sponda opposta dei quotidiani che gli davano asilo, raccontando Paz e il suo mondo. Accade quando l’omologazione sottrae le parole di una canzone o i graffi di una matita dall’investitura di sciabola che difende utopie, rivendicazioni sociali.

Possiamo fare a meno di questa ricorrenza perché, come urlava il fumettista nato a San Benedetto del Tronto, “non bisogna mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa”. Vi siete convinti che Rino Gaetano “non è figlio unico”? Ha un fratello gemello riconosciuto in Andrea Pazienza.
Le parole musicate di Rino ritagliano i contorni delle storie di Andrea; i disegni di Paz danno fisicità all’immaginazione del canzoniere di Gaetano.

“La verità è sempre nuda, basta questo per capire che razza di zoccola è”. Paz dixit.

Il regalo di papà: La copia autentica del primo numero del Corriere della Sera

Rosario PipoloDa bambino mi lamentavo del fatto che i regali di mio padre arrivassero per commissione. Una ventina d’anni fa papà mi tirò un colpo basso e mi fece rimangiare i pregiudizi infantili. Tornò da lavoro e, sotto la tuta, non aveva la solita cartellina con la ricevuta del fax del mio articolo, che tutte le mattine si preoccupava di inviare in redazione.

Tirò fuori quattro pagine di un quotidiano ingiallito e mi disse: “Spero ti porti fortuna per il lavoro”. Pensavo fosse una stampa, invece era la copia autentica del primo numero del Corriere della Sera, datata 5 marzo 1876.
Un dono tirato fuori da vecchie scartoffie in soffitta. Papà è un tipo taciturno, ma in quell’occasione avanzò tra i presenti: “Se non vi spiace la prendo io, mio figlio ha iniziato a scrivere e pare faccia sul serio”.

Nel lungo arco di tempo legato alla mia professione, questa copia del quotidiano milanese mi ha accompagnato come una sorta di amuleto. Senza inciampare nel solito luogo comune che fa di noi napoletani i malati cronici della superstizione, più che trattarlo da feticcio mummificato nel mio archivio, l’ho vissuto come interlocutore della memoria, leggendo e rileggendo articoli e titoli, orfani dell’arroganza delle immagini e della prepotenza dell’inserzione pubblicitaria nel marasma online dei nostri tempi.

“Pubblico, vogliamo parlarti in chiaro…”, esordiva il quotidiano neonato che in abbonamento costava, per tutto l’annata del 1876, L.12. Ho smesso di chiedermi per quante mani fosse passata questa copia, portandosi dietro la refurtiva del tempo che traccia la storia della professione del giornalista, dall’alba al tramonto, senza dimenticare i ricordi dei tanti inviati e collaboratori minori che hanno fatto camminare il Corriere della Sera per 140 anni.

Sabato 5 marzo, in occasione dell’emissione filatelica, appiccicherò il francobollo commemorativo sulla tuta da lavoro di mio padre, ripiegata in un cassetto alla periferia di Napoli, per ricordare a chi lo avesse dimenticato che questi fogli ingialliti, sopravvissuti ai traslochi della mia vita, ricompongono la storia di ciascuno.

Il 25 aprile oltre l’anniversario: partigiani della musica come gli Area

Rosario PipoloFinito il giorno dell’anniversario, socchiuso nella sindrome del revival, sembra che il 25 aprile si sia arrestato a quella liberazione di 70 anni fa. Senza dimenticare che  l’Italia passò da una dittatura ad un regime fatto di meccanismi perversi – quest’ultimo era il soppalco della Prima Repubblica – resta da chiedersi chi siano stati i partigiani del dopoguerra.

Lo sono stati un po’ tutti coloro che hanno fatto “resistenza” nel proprio territorio a quel sistema che osteggiava il sogno collettivo di rendere la vita umanamente a misura di ciascuno, senza certi feroci dislivelli che fucilano la dignità umana.

Chiacchierando con Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, due colonne del gruppo musicale degli Area, al termine di un concerto nella cornice della rassegna JazzAltro, ho confermato il mio bizzarro convincimento. Negli anni ’70, nell’Italia che brulicava delle bombe degli anni di Piombo, gli Area furono i partigiani della musica.

Non fummo all’altezza di capirlo né qui né all’estero perché accecati dall’innocenza melodica di casa nostra. Il sound sperimentale degli Area, che fece della voce di Demetrio Stratos l’urlo rabbioso del “nuovo partigiano Johnny”, declinò la resistenza come valore per annusare la vita.
Il  concerto del 14 luglio 1979, che rese il raduno musicale all’Arena Civica di Milano l’unica Woodstock nostrana che l’Italia ricordi, fu la testimonianza che quel sound fu la nuova liberazione dallo sguardo vigile dei nuovi padroni in ascesa.

Il repertorio musicale degli Area, così come il coraggio di Mario Caccia, Laura e i membri dell’Associazione Area 101 sostenitori di rassegne come JazzAltro, dimostrano che si può essere ancora partigiani a 70 anni dal 25 aprile che cambiò il volto all’Italia.
Possiamo esserlo tutti noi, nella nostra quotidianità, per superare ciò che scrisse Sandro Pertini: “È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le ‪‎dittature‬.” E per uscire dal tunnel di “la peggiore delle democrazie” dovremmo imparare a riconoscere i partigiani del nostro tempo, che resistono all’ombra dei riflettori.

Napoli e le spose di Oreste Pipolo, fotografo-antropologo della bellezza imperfetta

Rosario PipoloDa quando sono nato, a Napoli mi fanno puntualmente la stessa domanda: “Sei parente di Oreste il fotografo?”. Ai tempi del liceo mi spinsi fino al suo studio fotografico in via Carbonara, per conoscere il fantomatico Oreste Pipolo con cui spartivo il cognome senza un legame di parentela.
Non fu quella l’occasione. Sarebbe arrivata anni dopo, prima del mio trasferimento a Milano, mangiando una pizza da Michele. Era seduto a fianco a me. Dopo le presentazioni, Oreste Pipolo tiro giù gli occhialini e mi disse scherzosamente: “Ora ti riconosco. Tu se il giornalista che mi ha fregato il dominio Pipolo.it”.

Più che “fotografo di matrimoni” – come recita il bel documentario che Matteo Garrone gli tributò  – Oreste Pipolo è stato l’antropologo delle spose napoletane. Le osservava con occhio critico e le denudava da tutti i vezzi pacchiani, di cui molti dei suoi colleghi ne fanno un vanto, prima e dopo il servizio fotografico da matrimonio, per immortalare così le principessine cafone di mammà e papà.

Tutte le spose, raccontate dall’obiettivo stilografico di Pipolo, diventavano la polvere di stelle con cui era stata creata Napoli dal Padreterno: non erano colte nella finta bellezza, che popola la maggior parte delle sposine “photoshoppate” ammucchiate sugli album dell’era digitale, ma in un misto di imperfezioni, lapilli poetici della bruttezza insidiata in ciascuno di noi. Perciò il matrimonio raccontato da Pipolo si staglia netto da ispirazione per il cinema.

Alla fine degli anni ’90 avevo conosciuto un gruppo di matrimonisti pugliesi che, dopo aver fatto un seminario con l’artista napoletano, mi dissero: “Osare come Oreste nella scelta degli scenari, significa non lavorare dalle nostre parti. Qui da noi le spose vogliono il ritratto accanto al mobiletto della mamma. E’ una malattia cronica del Sud”.

Il destino delle spose di Oreste Pipolo, per fortuna nostra, fu lo scatto su i binari dismessi della stazione di Gianturco o sotto un’arrampicata dei Quartieri Spagnoli, per essere misteriosamente velo della Napoli che nasconde la bellezza principesca sotto i cenci di una gatta cenerentola.

Evocando la sposa felliniana nel film Amarcord, avrei voluto un’ultimo scatto nel portfolio di Oreste Pipolo: una sposa scalza sulla spiaggia abbandonata di Coroglio, tra il lido Pola sbarrato dove si conobbero i miei genitori e il tanfo di catrame dell’ex Ilva di Bagnoli che arrivava fino alla finestra dei miei nonni. Nella tessitura visiva immaginata, accanto alla donna col velo, lo sposo volevo essere io.

Il matrimonio di mio marito e il Sud nell’arte di Salvo Bonfiglio

Rosario Pipolo“Il matrimonio di mio marito” potrebbe essere il titolo provocatorio di Pietro Germi, in quel cinema dalla caratura di Divorzio all’Italiana o Sedotta e abbandonata che scattò un’instanea grottesca del Sud Italia a cavallo del Boom. Invece no, è il titolo di un gioiellino d’arte contemporanea di Salvo Bonfiglio che mi ha particolarmente suggestionato.

Il tratto di Bonfiglio ha qualcosa delle pellicole del Neorealismo, che furono all’altezza di raccontare il nostro Meridione con quel misto di poesia e cruda verità tanto da infastidire il regime politico di allora che le liquidò: “I panni sporchi si lavano in famiglia”.

In questo olio su tela grezza, nella finta immobilità dei protagonisti, c’è il movimento di Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza, dove sono i personaggi a venire incontro a noi che li osserviamo. Questa coppia di sposi, accompagnati da un seguito che connota le radici di Bonfiglio, mi hanno riportato ai racconti di mio padre.
All’alba degli anni ’50 del secolo scorso, quel furfante di papà insieme ai compagni di giochi si intrufolava ai matrimoni delle contrade contadine del mio Sud per mangiare qualche dolcetto e respirare aria di festa.

Salvo Bonfiglio abbozza soltanto i volti dei personaggi perché al resto pensiamo noi. Il Sud non ha solo un connotato geografico, imprigionato da tanti nell’odioso campanilismo di questo o quel luogo. Il Sud di Bonfiglio è lo stesso Sud che mi sforzo di vivere io, ovvero prospettiva interiore attraverso cui trasformare la noiosa routine in esistenza.

Perciò godermi quest’opera a pochi passi dal Po non è stata una beffa dell’ennesimo mio vagabondaggio. La tela di Bonfiglio è uno specchio attraverso cui guardarsi senza timore. A ciascuno la sua radice e la presa di coscienza che tutti esistiamo a Sud di qualcosa. Ciò accade quando in silenzio ci perdiamo a condividere l’interiorità degli altri, per fare della storia donata da qualcuno la nostra prossima storia.