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Archives Novembre 2017

Cartolina dall’India: il sitar di Rikhi Ram tra i Beatles e Ravi Shankar

A pochi passi da Connaught Place, il cuore pulsante di Nuova Delhi, c’è una tana di strumenti musicali che ha segnato la storia. Rikhi Ram è un ponte che unisce un profondo legame d’amicizia, quello tra il quartetto musicale più famoso del mondo, i Beatles appunto, e il paladino dei suonatori di sitar, Ravi Shankar.

Ci arrivo per caso in questo posto magico, come se l’intuito del viaggiatore, che ha fatto della musica la colonna sonora dei miei vagabondaggi, tracciasse ogni spostamento.
Il nonno di Akhil, insieme a me in questa foto, fece il sitar al Ravi Shankar che a sua volta portò qui i Beatles nel ’66. Suo padre ha realizzato sitar per George Harrison fino al giorno della sua scomparsa.

Il mio primo viaggio in India, fatto di musica e immaginazione, lo tracciò proprio il suono del sitar di George Harrison che mi portò alla scoperta della discografia e delle sonorità del maestro Ravi Shankar. Tra le quattro mura di Rikhi Ram sai di non essere in un posto qualunque, perchè la polvere di stelle della memoria sa farti ritrovare chilometri e chilometri della strada del tempo, come se ci fossi stato anche tu.

Akhil mi mostra la collezione di sitar, apre la scatola di vecchie foto in bianco e nero che ritraggono suo padre e suo nonno con i grandi musicisti, mi fa sentire il suono dello strumento, facendomi scoprire lo stupore dell’impronta dell’artigianalità dentro ogni centimetro quadrato del legno lavorato.

I Beatles e la loro musica hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della mi vita, ispirando tanti miei viaggi. Akhil lo ha capito appena ho messo piede nel suo negozio. C’è qualcosa di me che è rimasto lì. Non sono passato più a riprendermelo.

 

George Harrison è stato come un figlio per me. (Ravi Shankar)

Cartolina da Delhi: sui passi dei Gandhi

Nel bel mezzo della notte mi ritrovo nel centro di Delhi. Mi stropiccio gli occhi, non sto sognando ad occhi aperti. Sono in India, il 46° Paese del mio giro del mondo. Fin dalla prime ore di luce la capitale  è invasa da clacson, da un traffico insopportabile, da uno sciame di motorini e tuk tuk che spuntano da ogni parte.  Rajeev, il mio autista in questo lungo on the road, mi consiglia di farmene una ragione.

Il traffico infernale l’ho mandato giù, ma non di certo quella povertà che fa spettacolo lungo le strade di Delhi. L’India suddivisa in caste continua a produrre povertà, mi sembra di vivere un lungo flashback tra le grinfie del colonialismo britannico.
Invece no, a Delhi le tracce dei colonialisti sono evaporate – l’inglese lo hanno dimenticato in tanti –  ma il battesimo di questo mio lungo on the road deve per forza avvenire sulla tomba di Gandhi.

Il Mahatma è il dono più bello che Dio ci ha inviato nel XX secolo. Ci hai insegnato che le battaglie si vincono senza armi o eserciti. Questo vale anche per sconfiggere lo sfruttamento colonialista.
La non-violenza
è la scorciatoia che permetterebbe all’umanità di godersi la luminosità del volto di Dio.

Le vecchie glorie del Forte Rosso scemano nel chiassoso mercato di Chandni Chowk, nel cuore della vecchia Delhi, nel contrasto di un tempio induista e una moschea islamica, tra i bazar dove si può trattare su qualsiasi articolo e il mercato delle spezie.
La porta dell’India si erge a simbolo come l’Arco di Trionfo parigino, ma Delhi corre ed è troppo indaffarata per accorgersi che il fantasma di Indira Gandhi, il primo ministro assassinato il 31 ottobre 1984, aleggia sulla capitale.

Il sogno dell’altra Gandhi – nessun legame di paretela con il Mahatma – è depositato nella sosta emozionante dell’Indira Gandhi Memorial ed infranto come accadde per il clan dei Kennedy negli USA.
Meglio perdersi tra le orme della storia anziché far finta di niente, tapparsi il naso come fanno i turisti preoccupati a seguire per il filo e per segno il vangelo della guida turistica di turno.

Le guide cartacee non servono a niente in India. Comincia con questa consapevolezza uno dei viaggi di svolta della mia vita da viaggiatore.

 

La semplicità è l’essenza dell’universalità. (Gandhi)

48, Riina il padrino morto che parla dei favori degli uomini di Stato

Quanti rotoli di carta igenica abbiamo sprecato per scrivere della morte di Totò Riina, senza riflettere abbastanza sugli uomini di Stato che subdolamente o sfacciatemente gli fecero concessioni o favori.
Il più grande glielo fecero quando non evitarono le stragi di Capaci e via D’Amelio, che congelarono la guerra alla Mafia a viso scoperto dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La mia prima volta a Palermo fu nel 2003, proprio nei giorni in cui nelle strade lampeggiavano le fiaccole per commemorare Giovanni Falcone nell’anniversario della scomparsa. Tenni un corso di comunicazione e terminai la lezione raccontando l’emozionante anteprima del film “I cento passi” al Festival del Cinema di Venezia di qualche anno prima.

Un allievo mi accompagnò a fare quattro passi nel centro storico. Mi indicò una bottega alimentare e fece segno di entrare. Sull’uscio c’era una coccarda azzurra. Il titolare, un uomo tozzo sulla quarantina, notò il mio interesse per la coccardina ed eslamò: “Ieri sono diventato papà di Totò”.
Gli feci gli auguri e mi complimetai per la scelta del nome che, a mio modesto parere, si sposava con la tradizione artistica partenopea del nostro grande Antonio De Curtis, in arte Totò.
Il bottegaio mi rise in faccia e replicò: “Dottò, che cosa avete capito, noi in Sicilia di Totò ne abbiamo solo uno e a lui dobbiamo mostrare riconoscenza”.

Andammo via e il mio allievo nel salutarmi si congedò così: “Questa è la Mafia. I padrini di Corleone come li immaginiamo noi sono roba da film. Buon rientro a Milano.”
Al primo incrocio su via Libertà finii in mezzo al corteo della fiaccolata dedicata a Giovanni Falcone e mi tornarono in mente come un boato le sue sagge parole:

La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.
Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.

La grande lezione di Nick Cave, esploratore sofisticato di dolore e sofferenza

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che dolore e sofferenza sono un cosa seria e possono starci, senza pregiudizi, in un gomitolo di canzoni. La musica è specchio della nostra vita, delle notre scelte, di fallimenti e vittorie e i gusti personali ne sono latitanza da ciò che non ci appartiene, o meglio da ciò che ci illudiamo non ci tocchi.

Quando ero ragazzo Nick Cave & i Bad Seeds erano roba da “Dark”, quei ragazzetti vestiti di nero da cui negli oratori di perferia dicevano di stare alla larga.
Lì non ascoltavano il gospel ma il Gen Rosso, la band cattolica nata prima delle turbolenze sessantottine, il cui canzoniere era diametralmente opposto a quei “brutti ceffi vestiti di nero”.

Nick Cave ci ha ricordato, durante l’ultimo meraviglioso concerto di Milano, che dolore e sofferenza non hanno né colore politico né religioso perché appartengono all’esistenza umana. Nick aveva capito che per esplorarli non bastavano più la rabbia del rock o l’idiosincrasia del punk.
Un stupratore, un condannato a morte o un assassino non vanno raccontati più tra bagni di sangue splatter, piuttosto visti dal di dentro con l’occhio dell’anima del poeta.

Osservare Nick Cave per oltre due ore avvolto tra il suo pubblico, nella continua ricerca del contatto che riscrive lo psicodramma collettivo e misura gli stati d’animo sulla falsariga di un ritiro spirituale nella fuga dalla porta del tempo, ci convince che la poesia contemporanea giace nella parola che si fa performance, nella teatralità che scuote la musica.

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che i poeti sono sul cammino di noi mutilati dalla merda spalata dalla globalizzazione.

C’è sempre dolore intorno. Questa è una cosa su cui puoi giurare nella vita: ci sarà sempre un eccesso di dolore. (Nick Cave)

Quelli che cercano già il Natale nelle vetrine senza godersi “il tragitto della vita”

Da viaggiatore in giro per il mondo ho imparato che il tragitto è il punto focale di ogni spostamento, più della destinazione o delle tappe intermedie. Lo stesso vale anche nel viaggio della vita, dove ormai è sempre più frenetica la rincorsa con affanno verso la meta, la tappa intermedia, perdendo di  vista il dono prezioso dell’esistenza: la quotidianità.

Non sanno quanto si perdono coloro che ficcano già il naso nella vetrina alla ricerca del Natale, hanno l’aria di chi al rientro dalle ferie estive declama con aria afflitta: “Non ci resta che aspettare le festività natalizie”.

I calendari hanno denigrato la nostra vita. Ognuno ha il suo. Il mio barbiere storico, alla periferia di Napoli, vive tenendo a portata di mano quello delle partite del Napoli e credo che il figlio conosca le date a memoria. Una volta gli ho chiesto: “Quando è stata l’ultima volta che ti sei steso su un prato insieme a tuo figlio per osservare il passeggio delle nuvole?”. Pensavo mi ridesse in faccia, invece ha risposto sottovoce: “Non l’ho mai fatto”.

Nel “banale” passeggio delle nuvole c’è molto di ciò che ci è sfuggito di mano: il tempo di vivere non è agganciato ai nostri calcoli mediocri. Quando perdiamo una persona cara, ad esempio, ce ne rendiamo conto ma poi torniamo ad affannarci per rincorrere la meta.

La vita è fatta di quotidianità, la quotidianità è fatta di attimi, gli attimi sono fatti di minuscoli istanti. Gli istanti erano fatti dal primo bacio o dal fidanzamento perduto per correre a passo spedito verso il matrimonio; gli istanti erano fatti dal pianto di nostro figlio nella culla o dalle notti insonni e non dalla smania di vederlo crescere in fretta per farlo diventare un campione; gli istanti erano fatti dalla premura di nostra madre nel mettere un piatto caldo a tavola e non dal conto alla rovescia sul calendario della maggior età per andare a vivere da soli.

Tornando a coloro che hanno ficcato già la testa come gli struzzi sotto le luci artificiali del Natale che verrà, mi sembra di ritrovare gli abitudinari che fanno delle chiacchiere alla macchinetta del caffè la scorciatoia per vivere la nullità, saltellando da una tappa intermedia ad un’altra.

L’orizzonte perduto l’ho sempre ritrovato nel tragitto e non nella meta. Speriamo che il prossimo Natale non arrivi mai, ho ancora milioni e milioni di istanti da vivere ed accorciare così le distanze dall’esistenza.

 

Se si potesse dare in elemosina tutto il tempo sciupato, moltissimi mendicanti sarebbero ricchi.
(Carmen Sylva)