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Archives 2024

Michaela, papavero per l’eternità tra noi narcisi

Michaela (DePrince all’anagrafe americana) non abbiamo sentito il tuo ultimo passo di danza perché troppo affaccendati, di corsa, mentre alla tv i Trump e le Harris duellano e se le danno di santa ragione.

Hai scampato la morte nella tua terra natale, nello scenario sanguinario della guerra civile in Sierra Leone passata inosservata persino a quelli della mia generazione con un piede di gioventù dentro gli anni ’90.

TU SPLENDI COME SIRIO

Dall’Africa occidentale agli Stati Uniti d’America presa per un capello dall’amore della tua nuova famiglia, tra rinascita e crescita, nello slancio artistico che ha fatto di te una stella luminosa della danza.
Non un’etoile, narcisa e snob come tante, bensì una stella appartata come Sirio, il cui fascio luminoso spesso passa inosservato di fronte alla bellezza dominatrice di Venere o della Luna.

CHI E’ NERO E’ DESTINATO A NON AVERE VITA FACILE

Ad Harlem hai imparato una cosa: chi è nero è destinato a non avere una vita facile. Lo ha capito persino l’America degli slogan elettorali alla “Yes, You Can” o quella nostalgica dei sermoni di Martin Luther King. Io l’ho capito con delusione nell’estate del ’92, su una panchina di Central Park, mentre nel tuo angolo d’Africa colava sangue, i guerriglieri abusavano di bambini e facevano scomparire uomini, donne, anziani. Su quella panchina mi dissero : “Ad Harlem non ci puoi andare, sei un bianco, ti fanno la pelle. Vacci con con un tour organizzato.”

PAPAVERO TRA NOI NARCISI

In una domenica americana della scorsa estate, mentre partecipavo ad una messa cantata in una chiesa imboscata di Harlem, pensavo a quelli come te vittime di sberleffi, insulti razziali. Persino “la vitiligine” sulla pelle di colore può trasformarsi nel bersaglio del guardone frustato che, sul divano di casa, con lo smartphone in mano prova a sentirsi padrone del mondo.

Perdonami, a cinquant’anni neanche io so più a chi credere. Respira leggera e danza tenendo per mano mamma Elaine, volata in cielo insieme a te. C’è una lucciola accesa in questa estate invernale. Sei stata speciale per pochi o tanti, non importa. E a noi che ti abbiamo voluto un pezzettino di bene resta il tuo bisbiglio che morde le nostre coscienze assuefatte: “Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di narcisi.”

Alain Delon in 5 citazioni

Addio ad Alain Delon (1935-2024), il principe della bellezza al cinema, tra polemiche, faide ereditarie e fedeltà ai suoi cani: si farà seppellire insieme ai suoi amici a quattro zampe nella meravigliosa tenuta a un centinaio di chilometri da Parigi. Quale modo migliore per ricordarlo se non attraverso le sue parole?

Felicità


Ho conosciuto tutto e ricevuto tutto dalla vita, ma la vera felicità è donare.

Premi

I premi alla carriera ti fanno capire che hai un piede nella fossa.

Attore

Io non sono una star: sono un attore. Ho combattuto per anni per far dimenticare alla gente di essere un bel ragazzo con un bel viso: è una dura lotta, ma ci riuscirò.

Tempi moderni

La vita non mi dà più molto. Ho conosciuto tutto, ho visto tutto. Ma soprattutto, odio questa epoca, la rigetto.

Amore

In amore si deve osare tutto se si è innamorati.

3 serie tv cult di Netflix da vedere almeno una volta nella vita

Netflix, la piattaforma americana di streaming più famosa del pianeta, ha frantumato il perimetro del piccolo schermo tradizionale. Negli ultimi dieci anni ci ha offerto serie televisive che hanno lasciato il segno.
Non siete stati ancora in Spagna, Corea del Sud o Gran Bretagna? Prendete il telecomando, radunate un gruppo di amici per una bella maratona e buon viaggio.

LA CASA DI CARTA

Netflix e la Spagna alla riscossa con La casa di carta (2017-2021), una delle serie tv più amate che in 48 puntate ha conquistato il pubblico di mezzo mondo. Non mi dite che non avete sentito dei colpi alla Zecca di Stato e alla Banca Centrale a Madrid per opera di folli rapinatori mascherati da Dalì e capeggiati dal geniale Professore Salvador?
Gli episodi sono da mandar giù tutti d’un fiato e in una decina di giorni riuscite a farli fuori tutti, o quasi. I protagonisti, interpretati da un cast di alto livello, si portano con loro storie di vita intriganti e commoventi che filano un plot pieno di colpi di scena. Così questa ciurma di criminali, agli occhi dell’opinione pubblica, diventerà uno nuovo squadrone di “partigiani” alla ricerca della libertà lontano dalle logiche di potere e dalle contraddizioni dello Stato. La versione spagnoleggiante della nostra antifascista Bella Ciao sarà un vero hit della colonna sonora, con impliciti riferimenti agli anni bui della Spagna franchista.
La casa de papel, questo è il titolo originale, ha dato via allo spin-off Berlino (2023) del quale è disponibile già la prima stagione interpretata dal bravissimo Pedro Alonso.

SQUID GAME

Netflix vi farà preparare il bagaglio per un viaggio in Corea del Sud con Squid Game (2021), la pluripremiata e criticata serie tv. Nove episodi mozzafiato da vedere in una giornata scritti e diretti magistralmente dal sudcoreano Hwang Dong-hyuk. Con un ottimo cast asiatico, Il gioco del calamaro – questo è il titolo tradotto in italiano – ha alzato un polverone di polemiche ovunque perché colpiva il target fragile adolescenziale, istigandolo ad uccidere.
Cosa succede se c’è in palio un premio da quasi 5 milioni di dollari per partecipare a un gioco spietato dove vince chi prevarica sull’altro, ammazzando tutti gli altri concorrenti? Una fotografia contemporanea che denuncia la sfrenata competetività che sta mettendo tutti noi stupidi essere umani gli uni contro gli altri. Chi guarda la serie con il solo focus del game si perde il risvolto critico verso la società sudcoreana e i suoi fallimenti di politiche sociali tra collassi economici e inflazione sulla coda del ‘900.
Squid Game ha il merito di far tornare a galla la rinascita della cinematografia coreana tra stile e poesia a partire dagli anni ’90, da A Petal di Jang Sun-Woo al più recente Parasite di Bong Joon-ho.

BLACK MIRROR

Black Mirror (2011-2023) è tra le serie tv più longeve trasmesse da Netflix e ogni episodio è autoconclusivo. Pertanto, potete mandarli giù come mini film di poco più di un’ora nell’ordine che volete. Un viaggio in Gran Bretagna per la maggior parte delle sceneggiature che affrontano il tema dell’invasione delle nuove tecnologie e l’impatto che stanno avendo sulle nostre vite.
Black Mirror è una vera e propria sfera di cristallo perché diverse puntate sono state profetiche rispetto ai tempi con finali che ci hanno lasciato a bocca aperta.
Le prime due stagioni, arrivate in Italia tra il 2012 e 2013, sono quelle rimaste nel cuore degli appassionati: girate a budget ridotto attirano per quella fotografia grezza che, solo in apparenza, li fanno apparire come dei vecchi B-Movie. Ecco la mia playlist da “vedere assolutamente”: The National Anthem (Stagione 1), Be Right Back (Stagione 2), White Christmas (Speciale 2014), San Junipero (Stagion 3), Black Museum (Stagione 4), Striking Vipers (Stagione 5) e Joan is Awful! (Stagione 6).
In tutto questo tempo Black Mirror è cambiata molto passando dalle remote minacce dei social network a quelle più attuali dell’Intelligenza Artificiale, che può rendere l’unicità della persona umana nella frantumazione di uno, nessuno e centomila. Le riflessioni abbondano, nonostante la serie abiba perso la fragranza degli esordi, così come i dubbi su ciò che sia etico.

20 anni di Facebook tra innovazione, trappole e poca vita

I 20 anni di Facebook dovevano ridursi al passaggio del vecchio “libro delle facce” delle università americane ad uno strumento online per tenere in contatto gli studenti degli atenei d’oltreoceano. Non è stato così perché Zuckerberg e la sua brigata smanettona hanno cambiato le nostre vite, nel bene e nel male.
Cosa stavate facendo mercoledì 4 febbraio 2004? Scavate nella memoria perché quel giorno avrebbe riscritto le pagine della storia dei nuovi mezzi di comunicazione, più di quello in cui la carcassa di un televisore in bianco e nero aveva prodotto nel soggiorno dei nostri nonni nelle seconda metà del Novecento.

FACEBOOK E LA PRIMA ISCRIZIONE

20 anni di Facebook diluiti in una gelida domenica d’inverno del 2008, il 13 gennaio per l’esattezza, a casa della mia amica Valeria nel centro di Milano, a pochi passi dalle guglie del Duomo. Accesi il PC, eravamo seduti al tavolo in cucina con un gruppetto di amici. Davide, allora studente di giurisprudenza alla Statale, mi disse: “Cosa stai combinando?”.
In realtà completavo l’iscrizione a Facebook, il social network di cui mi aveva parlato la mia amica e che aveva conosciuto durante un’esperienza di vita in Australia dell’anno precedente. Gli iscritti in Italia si contavano, per la maggior parte eravamo presenti all’appello noi addetti ai lavori della comunicazione, geolocalizzati soprattuto in Lombardia.

IN PRINCIPIO NON C’ERANO I FEED

20 anni di Facebook all’alba senza feed, in lingua inglese, con i tuoi contenuti che poteva vedere soltanto l’amico facebookiano, consultando la singola timeline. La prima richiesta di amicizia di Facebook la inviai a Valeria e la seconda a Elena, collega in comune, iscritta al social network di Zuckerberg dall’estate del 2007.
Ci avrei messo almeno un paio d’anni prima di ritrovare gli ex compagni di classe e gli amici lasciati a Napoli. Nel frattempo mi divertivo ad aggiungere nel network coloro che avevano lo stesso cognome mio. Non si sa mai avessi trovato un lontano parente nell’America attraversata da vagabondo su un bus della Greyhound?


FACEBOOK TRA DOPPIA VITA E IDENTITA’ SEGRETE

20 anni di Facebook, le nostre vite sotto i riflettori e con il tempo stritolate dall’orco orwelliano del Grande Fratello. E poi tutti travolti dal vortice del cambiamento delle nostre relazioni nella vita e nel lavoro, all’ombra delle nuove tecnologie che hanno condizionato persino il modo di divertirsi o la smania di raccontarsi a tutti i costi, fingere di essere ciò che non eravamo nella vita reale, trasformare la prima puzzetta di nostro figlio in un evento mediatico per metterlo già sul seggiolone della competizione.
Perché correre il rischio di ritrovarsi come l’ultimo scemo del villaggio?
Per essere tutti surrogati di un eroe, come cantava Bowie nei versi profetici “We can be heroes just for one day“, prima che la famiglia si allargasse con le abbuffate di gallerie fotografiche su Instagram o la messaggeria di Whatsapp in coda allo sfinimento dei gruppi morbosi.

IL GOLPE INFAME DEGLI ALGORITMI

20 anni di Facebook e lo strapotere degli algoritmi che, attraverso un golpe infame, hanno messo fine alla democrazia dei social network, già prima che ci accorgessimo di cyberbullismo, fake news, odio e violenza, censure, messa alla gogna della nostra sacrosanta Privacy.
Si è dovuto ricredere chi pensava di entrare da protagonista nelle nostre vite con l’emoticon di un cuoricino o con una sfilza temporanea di like. La vita si alimenta, per fortuna, ancora fuori dai recinti dei bunker facebookiani e lontano dagli spioni. L’accesso non è consentito a tutti, proprio come quello alle nostre case, ultima spiaggia di riservatezza e intimità, al contrario di chi ha scelto di svendere vita privata e ambiente domestico in cambio di una manciata di polvere di popolarità.

FACEBOOK TRA I NUOVI SOLI E L’INVASIONE DEGLI IMBECILLI

20 anni di Facebook oggi. Ci abbiamo perso o guadagnato? Siamo onesti con noi stessi. Nelle partite di ping pong da una bacheca all’altra in cui palleggia la solitudine, echeggiano i versi saggi del Teatro-Canzone di Giorgio Gaber e Sandro Luporini: “Soli e le sole ormai sono tanti Con quell’aria un po’ da saggi, un po’ da adolescenti A volte pieni di energia, a volte tristi, fragili e depressi.”
Si consoli chi non è finito nella morsa della frustrazione collettiva senza la tentazione di strizzare l’occhio ai permalosi che ancora giocano a fare gli offesi sotto il tuono della parole dell’unico professore che ancora rimpiango, Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”

Il bicchiere mezzo pieno c’è? Sì, ma lo capiremo meglio nei prossimi vent’anni.

Sanremo Rewind in 5 canzoni anticonformiste

IL Festival di Sanremo è sempre stato caratterizzato dalla melodia fin dalla sua età della pietra. Eppure il Belpaese “canzonettaro” ha barattato il suo cliché melodico con l’anticoformismo. I tempi erano davvero maturi per captare le canzoni ribelli sottopelle?
Il tempo è galantuomo anche con i brani anticonvenzionali e così accade che facendo un rewind sanremese ritroviamo piccoli gioielli. Queste 5 canzoni anticonformiste lo sono anche per voi?

PAPAVERI E PAPERE

Il Festival di Sanremo si ascolta ancora alla radio quando salta fuori Papaveri e Papere, brano interpretato dall’allora reginetta della canzone italiana Nilla Pizzi. Siamo nel 1952, l’Italia si avvia sulla salita del Boom economico con ancora lo spettro della bombe della passata guerra. Panzeri, Rastelli e Mascheroni ci regalano la prima canzone davvero anticonformista della storia sanremese.
Altro che la favoletta dall’incipit scherzoso “Su un campo di grano che dirvi non so Un dì Paperina col babbo passò.” Dietro la melodia allegra si nasconde una satira feroce contro il potere politico di allora, incarnato dalla vecchia Democrazia Cristiana. I “papaveri alti” sono gli uomini del presidente del sesto governo De Gasperi e “le papere” tutti quelli sottomessi al potere. La canzone ottiene un successo strepitoso. In tanti non colgono il vero significato tanto che la censura feroce della vecchia Balena Bianca resta a guardare, o quasi.

CIAO AMORE CIAO

Il Festival di Sanremo del 1967 è sotto choc alla notizia del suicidio di Luigi Tenco dopo l’eslusione del suo brano Ciao amore ciao. Questa volta l’anticonformismo di polso del cantutore genovese è tutto in una canzone in cui si esplicitano la voglia di cambiamento, l’irrequietezza di una generazione e la consapevolezza di mollare la propria donna per una nuova vita: “Andare via lontano A cercare un altro mondo Dire addio al cortile Andarsene sognando.”
Il festival di allora viaggia sulle onde di sentimentalismi in stile Io, tu e le rose cantata da Orietta Berti. Tenco è troppo avanti, ha una sensibilità cantautoriale più contemporanea e ci vorranno decenni e decenni prima di dare il giusto valore a questo piccolo capolavoro.

GIANNA

Il Festival di Sanremo del 1978 si veste dell’anticonformismo di Rino Gaetano e della sua Gianna che “sosteneva tesi e illusioni, prometteva pareti e fiumi, aveva un coccodrillo e un dottore, non perdeva neanche un minuto per fare l’amore.”
Un inno sfrontato alla liberà femminile e strafottente dei luoghi comuni che fa balzare l’album da cui è tratta, Nuntereggae più, in vetta alle nostre classifiche.
Eppure dietro la canzone del cantutore crotonese, che fa tremare il palco dell’Ariston, si nasconde una girandola di interpretazioni. C’è chi vorrebbe Gianna semplicemente come manifesto della libertà sessuale, chi invece la innalza a simbolo dell’ipocrisia politica e alla sua corruzione o chi la elegge a rappresentare di chi non rinuncia alle ideologie illusorie. Nel testo ironico di Rino Gaetano alcuni vedono allusioni al vecchio potere della massoneria in Italia.

VITA SPERICOLATA

Al Festival di Sanremo del 1983 nessuno scommette una cippa su Vita spericolata, senza capire che la canzone Vasco è destinata a diventare l’inno di una generazione: “Voglio una vita che non è mai tardi Di quelle che non dormi mai Voglio una vita, la voglio piena di guai.”
L’anticonformismo del Blasco, sulle onde di un rock grezzo e provinciale, non attecchisce su critica e platea dell’Ariston, ma si fa strada piano piano. Attraverso l’urto delle onde radiofoniche sprofonda nell’immaginario di una generazione che riconosce nel rocker di Zocca il suo paladino.
Nel 1992 la canzone ottiene un bel riscatto ed è riconosciuta persino dalla vecchia guardia del cantautorato genovese. Infatti, Gino Paoli chiude il suo brano Quattro amici con l’inciso di Vita spericolata dove interviene la voce dello stesso Vasco.

LA TERRA DEI CACHI

Il Festival di Sanremo del 1996 è sconvolto da La terra dei cachi. L’anticonformismo di Elio e le Storie Tese è demenziale tra musica rocchettara e testo irriverente, mancando per un pelo il podio dell’Ariston. Nel bel mezzo della Seconda Repubblica, dopo il terremoto di Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, quale Italia ci resta tra le mani? Quella dei “Parcheggi abusivi Applausi abusivi Villette abusive Abusi sessuali abusivi Tanta voglia di ricominciare, abusiva.”
Si ride per non piangere con il rock demenziale di Elio e compagnia bella, tanto si sa che il Belpaese dobbiamo tenercelo così. Si facciano avanti delusioni, omissioni, indignazioni, nuovi santi corrotti, melodrammi dei giorni nostri. Il nonsense fa la sua parte in pieno stile zappiano e il brano continua a brillare nella costellazione del Sanremo off: “Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’.

Buon 2024 a piedi nudi sulla speranza

Lasciandoci alle spalle un 2023 affollato da tanti impostori, guardiamo con ottimismo all’anno nuovo senza leggere gli oroscopi. Sì, questo è un atto di fede. Ahimè, è cronica la mia strafottenza (tu chiamala se vuoi libertinaggio) e allergia al buonismo e alla luce artificiale di questo tempo annacquato da affanni e corse inutili. E la vostra?

Anche per il 2024 l’augurio è mettersi al riparo da ritualità inutili, convenzioni, sbaciucchi e brindisini per festeggiare poi cosa? Le lacrime di coccodrillo del cigno nero, spennacchiato dallo scandalo del pandoro benefico? Le fette griffate sono andate di traverso agli influencer di cristallo, rivelandosi il replay di Maria Antonietta di Francia: “Se il popolo ha fame, date loro brioche.”

Senza “la noce” sentimentale dell’alberello pubblicitario in tasca, mi sono incamminato tenendo a bada le urla dell’ortopedico e reumatologo per salvare il mio ginocchio consumato dai viaggi di una vita vissuta fino al crollo di un menisco. Dopo aver percorso migliaia di chilometri, lontano dai bagordi, sono giunto nello stesso posto dove ero più di un anno fa: al di là del kibbutz di Nir Am, bloccato da un filo spinato sulla Striscia che mi impediva di uscire da Israele per proseguire verso Gaza.

Ho trovato un Bimbo dalla pelle bruna che mi ha detto: “Aiutami a tornare nella mia Palestina. Non ricordo più neanche come mi chiamo.” Mentre l’Erode dei nostri tempi sta collezionando un numero di morti pari a un nuovo genocidio, dopo essersi sbiancato la coscienza nel giorno dello Shabbat, gli ho risposto: “Duemila anni fa ti saresti chiamato Gesù.”
Il bambino mi ha sorriso e mi ha stretto la mano con la stessa intensità dell’abbaglio di una stella cometa che ha oscurato i lampi dei missili all’orizzonte. Datemi pure per disperso, tanto io e il piccolo resteremo seduti qui, in un fienile del Medio Oriente senza bue e asinello, in attesa di un lieto fine.

Buon 2024, a piedi nudi sulla speranza.