Cartolina dalla Croazia: il giradischi di Tito

Gli italiani vanno a mare in Croazia per spendere meno. Sono gli stessi italiani che l’altro ieri stavano col “culo” al sole a Rimini mentre dall’altra parte dell’Adriatico rombavano le bombe. I croati ci hanno accontentati: nell’Istria, che una volta apparteneva a noi, hanno creato delle piccole giungle di cemento su misura per il turista: “i polentoni” si sono ritrovati una Riccione in miniatura, mentre “i terroni” delle riproduzioni della goffa Baia Domitia, che alla fine degli anni ’70 diventò l’oasi vacanziera della borghesia paesana di Napoli e contorni.
Sì, si va in Croazia, ma bisogna evitarli gli italiani che vogliono mangiare spaghetti a qualsiasi costo, lamentarsi in ogni circostanza e ribadire la stessa tiritera: il meglio ce lo abbiamo noi. Sì, si va in Croazia per stare con la gente del posto, per mangiare cevapci fino allo sfinimento, per rifugiarsi nei posti nascosti o tra i brandelli periferici. Sì, si va in Croazia per raccogliere storie di una generazione cresciuta all’ombra della dittatura di Tito e che adesso ha capito l’amara verità. Si stava meglio quando si stava peggio; oggi le vetrine sono piene e non ci sono più i soldi. “Democrazia? Ma quale democrazia?”, grida il pescatore di Stoja, zona balneare di Pola.
Le pagine emozionanti di Miha Mazzini mi hanno riportato altrove, quando suonò l’ultimo “giradischi di Tito”. Non c’è niente da fare soltanto la musica può unire più generazioni. C’ero anche io assieme ai venticinquemila che affollavano l’Arena di Pola. Eravamo lì ad ascoltare le poesie musicate di Djordje Balasevic, icona della canzone d’autore dell’ex Jugoslavia. C’ero anche io a scatenarmi con il rap-rock sociale dei Beat Fleat assieme a quella bella gioventù, di cui mi sono dovuto privare per così troppo tempo. C’ero anche io ad inseguire il pop melodico di Massimo Savic, che spesso singhiozzava swing o jazz e poteva permettersi il lusso di tradurre pure Renato Zero. C’ero anche io a fare il battimani ai Laibach mentre il buio della notte ammantava la città sonnolenta.
E tutte le sante notti camminavo da solo lungo una strada, nel silenzio, mi guardavo attorno e pensavo al figlio di quell’italiano nato in Istria che mi disse: “Mio padre era un panettiere. Quando l’Italia ci mollò alla Croazia, ci tolsero tutto, ma la nostra italianità non l’abbiamo mai rinnegata”. Dopo il buio e tornata la luce sul volto dei bambini del club Plivacki di Pola, gli aspiranti nuotatori che sognano una piscina. Non ci sono soldi per farla, ma io manterrò la promessa: se da grande divento un giornalista, metto da parte qualcosa e gliela regalo. Accipicchia, ho dimenticato di mettere il francobollo su questa cartolina!  Arriverà mai a destinazione?

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