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Caro Paperino, ti scrivo per i tuoi 80 anni…

Rosario PipoloCaro Paperino,
oggi compi 80 anni
e sei l’eroe più ribelle delle storia dei fumetti. Anzi no, sei l’antieroe. Chi nasceva negli anni ’30 sul pianeta Disney era condannato a fare la parte del “buonista”. Per fortuna a Paperopoli  le cose vanno diversamente da Topolinia, la metropoli asfissiata nel cellofan odioso del “va tutto per il meglio”, quando poi non è così. La blusa da marinaio dal bon ton sbarazzino sembra fregata a Braccio di Ferro ma becco e zampe arancioni ti rendono riconoscibile da adulti e bambini.

Chi si cala le brache, denigrando il potere dell’immaginazione, pensa tu sia un papero da bambini; chi invece si alza incazzato ogni santo lunedì, tenta di tenersi alla larga dalla sfiga, è un arruffone e scansafatiche verso i legami affettivi imposti, mastica nevrosi ed è in fuga perenne dello stess metropolitano , sa bene che nessuno è più papero per adulti di te.

Nel giorno del tuo ottantesimo compleanno, invece di finire per strada ammalato e con il bastone, sei ringiovanito. Nel tuo sguardo c’è un so che di  “modernità”, come il tratto della matita di Don Rosa, che mi lasciò una dedica su un albo a fumetti di seconda mano. Se la sfiga che ti accompagna fa ritrovare la tua Paperina con una scatola di cioccolatini scaduti come regalo di anniversario, la generosità che veste il tuo caratterino ti ha concesso la meritata longevità.

Mi hai contagiato con la tua vena polemica e hai riempito con un misurino di inchiostro la mia penna. Non mi sono limitato a rincorrerti nelle classiche storie a fumetti, destinate, con l’avanzare dell’età, a finire impolverate in soffitta. Sei stato per me lo specchio dentro cui riflettere lo squilibrio di follia sovversiva, che schiaffeggia quella che per gli altri è noiosa e insignificante routine.

Sei così pigro che non leggerai questa lettera. Lo so. Io però ho fatto una furbata. Te l’ho riposta sotto il cuscino. La troverai appena ti sveglierai dai tuoi sogni che vanno avanti da ottant’anni, il doppio degli anni della mia generazione.

Ricomincio da Massimo Troisi vent’anni dopo

Fonte: Repubblica.it

Rosario PipoloDi quel 4 giugno del 1994 ho un doppio ricordo: da una parte la telefonata ricevuta a casa dalla redazione, in cui mi comunicavano che sarei stato io a scrivere un pezzo sulla scomparsa prematura di Massimo Troisi. Dall’altra il concerto di Pino Daniele, Eros Ramazzotti e Lorenzo Jovanotti allo stadio San Paolo di Napoli aperto così: “Sono passato a casa di Massimo ma mi hanno detto che lui era già qui”. Il lungo applauso e la commozione sulle note di Quando.

Detesto gli anniversari che il più delle volte concimano nostalgie canaglie come le ricorrenze obbligate a cui è quasi irrispettoso sottrarsi. La maschera di Massimo Troisi, rivissuta all’ombra del Vesuvio sotto tante sembianze e a volte sottomessa alla volgorità del kitsch, resta quella dell’ultimo Pulcinella dell’età contemporanea. Me lo ricordò in un’intervista Ettore Scola, che lo aveva diretto in Il viaggio di Capitan Fracassa. Il cinema ci rende ombre immortali, il palcoscenico ci consegna nelle mani degli dei che sanno come farsi beffa di noi comuni mortali, il cabaret ci libera dagli schiamazzi dei populisti.

Troisi in effetti non ha bisogno di commemorazioni, perché non se n’è mai andato. Quando chiacchierai con Lello Arena ed Enzo De Caro, in occasione della pubblicazione di Enaudi della Smorfia nella collana Stile Libero, notai che i due compagni di viaggio di Massimo ne parlavano sempre al presente. E persino all’anteprima del film Il Postino al Festival del Cinema di Venezia, intravidi negli occhi commossi di colleghi ed addetti ai lavori in Sala Grande un Troisi in essere.

Massimo Troisi resta ispirazione necessaria per lasciarsi alle spalle la Napoli chiassosa e volgare, depressa e minacciata dagli stereotipi. Persino quando lo incrociamo disegnato sul cartone di una pizza da asporto, Troisi sa ricordarci la sua napoletanità sottovoce che, attraverso uno scalpitio garbato, sa ancora come illuminarci scrollandosi di dosso l’odioso vittimismo. Meriterebbe di essere studiato a scuola nelle ore di filosofia. Perciò noi figli di quella generazione in esilio da Napoli dalla fine degli anni settanta, per rincorrere i sogni e le illusioni del Nord industrializzato, ci chiamiamo Ugo e non Massimiliano. Abbiamo imparato la lezione.

Divorzio all’italiana 40 anni dopo: lampo o non lampo?

Rosario PipoloIl cinema aiuta la memoria a non rifarsi la tinta ma a mantenere la propria capigliatura brizzolata. Non fa mai male riguardare un vecchio gioiello in bianco e nero come Divorzio all’italiana di Pietro Germi. E’ nitido il riflesso del Belpaese provinciale, dove il bello e il cattivo tempo lo facevano i feudatari della vecchia Democrazia Cristiana, rattoppata nello scudo crociato che in tanti oggi vedono cucito sulla vestaglia di Matteo Renzi.

Quando quaranta anni fa il referendum fece varcare al divorzio la soglia di legge, l’Italia annebiata dai fumogeni degli anni di Piombo visse l’illusione dell’emencipazione nel passaggio dal bigottismo alla laicità. Prima che il divorzio diventasse fenomeno del costume del BelPaese, facendo gola a tutta la ciurma di avvocati che ti spillava quattrini per mettere fine allo sfortunato matrimonio, fu il tempo della dolorosa discriminazione. Se eri un divorziato ti tiravano le pietre e se per giunta eri cattolico dovevi dire addio alla comunione con il benestare delle malelingue.

Oggi viviamo il rovescio della medaglia, tra divorziati e famiglie allargate, nell’Italia modernizzata che si avvia alla legge del divorzio lampo. Manca solo il semaforo verde del Senato e così impiegheremo più tempo a sposarci che per mandare tutto all’aria. Ops, dipende sempre dai punti di vista, perché in tanti casi mandare all’aria un matrimonio significa liberarsi degli orchi cattivi. La generazione dei miei nonni ne sa qualcosa.

Riguardare il film con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, prodotto dal lungimirante Franco Cristaldi, aiuterebbe anche i più scettici a fare un passo avanti: qui non si tratta di legge o non legge da “divorzio breve”. E’ semplicemente una questione di buon senso.

 

Laura non c’è: Io e quella scrivania vuota in un maledetto lunedì

Rosario PipoloLa scrivania di fronte alla mia è vuota. Il pc è spento. Le penne, un pennarello e un taglierino sono al solito posto. E’ lunedì e l’umore non è dei migliori. Oggi dalla finestra entra con invadenza più luce, perché la sagoma seduta a quella scrivania non c’è. Faccio finta di nente. Aspetto. Sono le 10.30 e penso: “Forse stamattina entrerà in ritardo”. Riavvolgo un flashback. Il mio arrivo in quest’ufficio cinque anni fa e lei lì a spiegarmi, passo dopo passo, l’utilizzo di un nuovo CMS, quegli aggeggio senza cui non potremmo inserire contenuti in rete.

E’ mezzogiorno. Mi guardo intorno. La scrivania è ancora vuota. Ripenso alle piccole confidenze condivise, quelle private, che andavano oltre la corteccia dell’essere colleghi di lavoro, e ai nostri caratteri diametralmente opposti: lei riservata, di poche parole; io chiassoso e chiacchierone. E’ ora di pranzo. Mi invitano a mangiare ed io rispondo alla sua maniera: “Oggi, salto”.  Dopo quaranta minuti cambio idea e scendo giù a mangiare un boccone. In fila al self-service, mi vengono in mente le volte che mi aiutava a scegliere i piatti giusti per la dieta. Tutta fatica inutile. Il weekend successivo sarei finito in bici nelle cempagne piacentine e non avrei resistito alle ghiottonerie della cucina emiliana.

Sono le tre passate. Mi frego di proposito tutte le penne dalla sua scrivania con la speranza che lei, al ritorno da una riunione, se ne accorga ed esclami: “Vorrei sapere perché in questo ufficio le mie biro fiiniscono sempre su un’altra scrivania!”. Tutto tace invece. Ripenso a quando mi regalò per i 40 anni una guida turistica sul Po. Sosteneva che era atipico per un napoletano amare il fiume che accarezzava la sua Piacenza, il territorio dove spesso fuggo alla ricerca di vecchie memorie legate alla pittura naif di Ligabue e ai castelli musicali di Verdi.

Sono quasi le sei. La scrivania è ancora vuota. Tiro fuori l’iPod, lascio scivolare via “Born to Run” che lei adorava. La voce di Bruce Springsteen, avendo tolto gli auricolari, affoga nel silenzio.
Sorrido al pensiero dei guru delle università di business e dei loro sermoni per il bene di ogni grande azienda che si rispetti: sul posto di lavoro vince la competizione sfrenata, contano i numeri, niente sentimentalismi e umanisti o filosofi dietro le scrivanie.
Io piuttosto resto dall’altra parte della barricata. Preferisco il volo degli aquiloni, che sanno muoversi anche a bassa quota, senza perdere di vista i dettagli. E’ l’unica scorciatoia per avvistare il valore di un legame vissuto su un posto di lavoro, per tornare ad essere più umani e autentici, liberandoci da quella prigionia del business che ci vorrebbe tutti omologati.

Manca un quarto alle sette. La scrivania è vuota perché Laura ha semplicemente cambiato lavoro. Rimetto le penne al suo posto. Spengo il mio pc e la luce. Per il resto lascio fare a Guccini con una canzone: Laura e l’Emilia-Romagna restano un pezzetto della mia vita.

Diario di viaggio: i lividi di Londra che il turista mai vedrà

Rosario PipoloTornare a Londra dopo un’assenza lunga di 15 anni mi ha lasciato una provocazione: i social network sono la piazza urlata dagli esperti di viaggio che, il più delle volte, non hanno nel proprio bagaglio quella “storicità da viaggiatore” che ti permette di fissare i cambiamenti di una città.

La mia Londra del 1988, quella che diede una sterzata alla mia adolescenza, non esiste più così come quella vissuta quasi senza interruzioni fino all’anno della laurea. Non è la scoperta dell’acqua calda, piuttosto l’amara consapevolezza che anche un melting point metropolitano fatto di aristocrazia, eleganza, anarchia può subire via via le minacce dell’omologazione.

La globalizzazione ha le sue colpe tanto che basta immischiarsi lungo OxFord Street tra le solite vetrine che troveremmo in qualsiasi altra città. Londra è ancora sorprendente per le contraddizioni, tra il folcloristico conservatorismo della presa di corrente all’inglese e l’agevolazione ad indossare l’abito che meglio sa esprimere la tua personalità; tra la sporcizia che ammanta le strade del centro e quel tanfo di disinfettante che respiri in una scarpinata notturna lungo Marylebone Road; tra il taglio colonialista di quella vecchia “baldracca” della Sterlina e il crocevia meticcio che la rende capitale europea della multietnicità.

Per la maggior parte degli italiani Londra è rimasta recintata tra Piccadily Circus e Coven Garden; per tanti turisti si è fatta infinocchiare nel covo del mercatino di Candem Town, svenduto agli asiatici; per i piazzisti dei social network la culla della nightlife europea che sa nascondere i propri lividi. I lividi restano e non mi convinse del contrario neanche la canzoncina di Paul McCartney, che nel 1988 trasformai in colonna sonora del mio viaggio metropolitano londinese.

Mi staccai dal gruppo all’insaputa dei miei, spezzai le gambe ai 15 anni di ragazzotto di provincia.  A Londra cominciai ad alzarmi in volo senza perdere di vista quei lividi.

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Gianna Chillà e Debby Lou, le “escluse” di The Voice of Italy senza “il cognome” alle spalle

Rosario PipoloCon la bomba ad orologeria del “televoto” a The Voice of Italy siamo entrati ufficialmente nell’inevitabile tunnel di malessere e malumore. A risollevarci dallo sconforto potevano essere “i coach” ma per fortuna le loro scelte “infelici” non sempre coincidono con quelle del popolo dei social network. Noemi manda a casa Gianna Chillà, l’indiavolata Janis Joplin romana, e J-Ax butta nelle fiamme Debby Lou per tenere stretto a sé la garbata Carolina Russi.

A questo punto, come direbbe un mio compaesano, “la domanda nasce spontanea”: Gianna e Debby, nella logica che mette in moto la miccia nel Belpaese, sarebbero andate avanti nel talent show musicale con “un cognome” diverso? Nel bel mezzo dell’ultima puntata di The Voice of Italy scopriamo con imbarazzo che Carolina è figlia di una mitica speaker radiofonica. Si tratta di Anna Pettinelli, che tra l’altro adoro, perché mi riporta ai tempi dell’infanzia con la pausa musicale di Discoring, all’interno del contenitore di Domenica In.

I dubbi restano così come l’amarezza che, all’avvicinarsi del “verdetto”, può fallire persino il coach dal pellicciotto di “anarchico” e “indipendente”, finendo tra le grinfie del condizionamento.
Mi torna in mente una bella intervista fatta ad Annie Lennox, in cui l’ex Eurythimics mi disse: “Non credo nei talent show. Sono solo uno stress emotivo inutile per tantissimi ragazzi”.

Sono convinto che se Gianna Chilla e Debby Lou organizzassero una settimana di vacanza insieme a Nashville, troverebbero la strada del meritato exploit. Negli USA i talent scout esistono per davvero e lì non serve “il grado di parentela” per salvarsi sull’orlo del precipizio. Ve le immaginate Gianna e Debby duettare in strada nella capitale del Tennessee con la loro grinta ed energia? Finirebbero subito in uno studio di registrazione.

Tornando a The Voice of Italy, Gianna Chillà si sarebbe salvata se avesse avuto come coach il compianto Rino Gaetano. Lui avrebbe riconosciuto in lei la sua “Gianna” che “non cercava il suo pigmalione e difendeva il suo salario dall’inflazione”.

Altri articoli:

TISCALI.IT – The Voice of Italy si scatena con suor Cristina e maledice il “televoto” per l’amara esclusione di Gianna Chillà

Diario di viaggio: Salerno, io e te vicini nonostante tutto…

Rosario PipoloMentre la settimana scorsa ero alla Feltrinelli di corso Vittorio Emanuele a Salerno per presentare il mio romanzo “L’ultima neve alla masseria”, osservavo la platea. Mi aveva colpito lo sguardo occhialuto di una ragazza che prendeva appunti. Serena, la cronista del quotidiano La Città, passata ad intervistarmi, aveva riflessa negli occhi la stessa luce che luccicava nei miei il giorno in cui il mio destino si legò a Salerno.

Nell’ottobre del 1992, sul palco del Capitol, cominciai sotto la guida di Ruggero Cappuccio il lento percorso che mi avrebbe trasformato in “uomo di teatro”. Perciò ho voluto che ad accompagnarmi in questa tappa fossero il regista Antonello De Rosa e i suoi meravigliosi attori di Scena Teatro Simona Fredella, Gina Ferri, Fiorenzo Pierro e Alessandro Tedesco. In fin dei conti Antonello assomiglia a Pietro, il protagonista del mio racconto: lotta in difesa dei sogni e indossa il mantello del teatro per raccontare con la sensibilità di un antropologo gli umori del territorio.

Cara Salerno, era tempo che avevo voglia di scriverti una lettera. Affacciandomi nella vetrina di La Feltrinelli e vedendo esposte le copie del mio romanzo, ho visto il riflesso del legame con te: le coccole delle compagne d’Accademia l’attrice Gina Ferri e la regista Nadia Baldi; le mattinate sul lungomare a mandar giù copioni; le chiacchierate con Ermanno Pastore che, attraverso i suoi dipinti, mi raccontava la Salerno del secondo dopoguerra; i sorrisi degli anziani, raccolti sui balconi del centro storico, come quelli di nonno Pasquale e nonna Lucia, che nel ’45 conclusero proprio qui la loro luna di miele.

Salerno, sono tornato per ringraziarti: in tutti questi anni hai custodito gelosamente i miei sogni, gli stessi che hanno appesi al cuore i miei personaggi, da Caporà a Silvio il guardastelle. Sono tornato a riprendermeli. Milano mi ha adottato senza riuscire a trasformarmi in un manager. Tu, Salerno, mi hai reso per sempre “uomo di teatro”, cucendo per me l’abito più bello, quello fatto dei sogni che aiutano “la memoria” a camminare con le proprie gambe, urlando sottovoce l’unico bisogno che ci rende liberi in questo mondo: manifestare attraverso il viaggio l’amore per ciò che ci circonda.
E l’ultimo sogno mio brilla negli occhi limpidi di Serena e della sua generazione, in una lunga rincorsa verso il futuro che fa del “nostro Sud” la prospettiva interiore dello sguardo sui dettagli.

Roncalli e Wojtyla, “i due Papi santi” senza né tonaca né altari

Rosario PipoloLa fumata di inchiostro per raccontare, commentare e giudicare la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II ce la lasciamo alle spalle. E’ l’effetto misantropo del lunedì che rende più sobria l’euforia della domenica appena inghiottita dal calendario. Messo in castigo dai saggi sermoni di prelati, vaticanisti e storici, mi sono tenuto al sicuro due ricordi che mi legano ad Angelo Roncalli e Karol Wojtyla.

Il primo riguarda mia nonna Lucia che, recandosi a Roma alla fine degli anni ’50 per una commissione, rischiò di morire insieme a mia madre ragazzina. La Seicento su cui viaggiavano fu travolta da una tromba d’aria e un albero si piegò sulla loro direzione. Nonna Lucia addebitò questa salvezza al neo Papa Giovanni XXIII e pensò bene di cambiare destinazione e recarsi a ringraziarlo. Giunti a San Pietro, si trovarono in una chiesa gremita con Roncalli tra la folla che, incrociando i loro sguardi, voleva dire qualcosa del tipo: “Sapevo che sareste arrivate. Vi stavo aspettando”.

Il secondo riguarda i miei vagabondaggi. A Cracovia ho conosciuto diverse persone che ricordavano il viceparroco don Karol e tra le cime della Valcamonica uomini e donne che avevano visto il Wojtyla, figlio delle montagne, incluso quel Lino Zaino che da mestro di sci del pontefice polacco divenne famoso per le testimonianze lasciate nel libro “Era santo, era uomo”. Tutti concordavano sul carisma di Wojtyla: riuscire a spogliare l’anima con un solo sguardo.

Vengo al dunque. Con la canonizzazione di questi “due Papi”, che legano sullo stesso filo la mia alla generazione dei miei nonni, non è forse arrivato il momento di svincolare la santità dalla religione cattolica?
Angelo Roncalli e Karol Wojtyla ci hanno convinti, attraverso le loro rivoluzioni in momenti storici e su fronti opposti, che la santità non necessita di tonache ed altari, così come di quel fanatismo verso le reliquie che intrappola la storia tra ragnatele medievali. Una volta passavano secoli prima delle canonizzazioni, oggi “i nuovi santi” li nomina il nostro tempo, spesso avido di miracoli e visioni. Roncalli e Wojtyla ci hanno dato una bella lezione, già prima di indossare quella tonaca che li avrebbe condotti verso l’altare.

I nostri cent’anni di solitudine iniziano oggi, senza Gabo!

Disegno di Jaime Molina

Rosario PipoloSul mappamondo non c’è Macondo, ma i luoghi raccontati attraverso la magia del realismo e l’immaginazione fissano una loro geografia. E’ la geografia che schiaffeggia il riverbero del tempo, nonostante tutto. José Arcadio Buendía è troppo impegnato a custodire sogni e illusioni patriarcali per accorgersi che la penna di Gabo ha smesso di sputare inchiostro.

I nostri cent’anni di solitudine cominciano lentamente proprio oggi, in questo venerdì, ai piedi delle tante “croci” su cui, nel secolo scorso, hanno inchiodato i sogni della Colombia e dell’America Latina tutta. L’inchiostro di Gabo ha annerito con poesia e impagno civile il sangue versato dai sudamericani per il proprio riscatto; storie dense e personaggi dalla forte identità hanno mandato al patibolo i “Giuda” che volevano la Colombia culla di mercenari e trafficanti di droga.

Gabo diede il ben servito ai “Pilato” americani che si lavarono le mani mentre i golpisti cileni scelsero il loro “Barabba”. La spada affilata di Gabo fu quella del combattente contro gli orrori della dittatura di Pinochet; il suo manifesto letterario era impregnato di valori del socialismo, fatto passare da tanti per comunismo, vista l’amicizia stretta con Fidel Castro.

Per il mondo è morto un gigante della Letteratura del ‘900. Per gli intellettuali è scomparso un Nobel. Per chi ha passato una vita a leggere i suoi libri, se n’è andato Gabriele Garcìa Marquez.
Per alcuni di noi non è successo nulla di tutto questo, perché i sogni fatti di parole di carta e passione civile non si fermano mai. Perciò oggi saremo a Macondo, con gli occhi puntati al cielo insieme alla famiglia Buendia, per sentirci liberi e orgogliosi di essere sudamericani.

Il cuore batte ancora per Gabo. Semplicemente, grazie.

Backstage di Milano Marathon 2014 nel jumping di Giulio Tolli

Rosario PipoloQuando ritagliavo tramonti sulle spiagge di Montesilvano nella prima vacanza da fresco diplomato, Giulio aveva a malapena quattro anni. Il suo Abruzzo appartiene in parte anche a me, su quel litorale che da Pescara si spinge verso Nord, nelle casette di Manoppello dove era cresciuto mio zio Mimmo o tra le pagine del mio romanzo, pubblicato da un editore di Teramo. La vita è fatta di cerchi concentrici in cui frame di vita di generazioni diverse si sovrappongono.

Io e Giulio Tolli della community degli Instagramers siamo in giro per raccontare la Milano Marathon 2014 in stile social, nella cornice del backstage di un documentario in video. Eppure tra foto postate su Instagram e twittate scattanti nella rincorsa dei rimbalzi febbrili dei social network, restano brevi momenti per soffermarsi nel backstage del nostro privato. Le scorribande universitarie di Giulio ad Ancona mi restituiscono i vagabondaggi nelle mie adorate Marche.

Buttando l’occhio su Instagram e soffermandomi su uno dei tanti jumping fotografici di Giulio mi sembra di riconoscere la mano che lo tiene sospeso nell’aria. E’ quella di Anisa, che nel suo sguardo luminoso raccoglie i contorni dei paesaggi dell’Albania. Io faccio l’impiccione e Giulio sta al gioco. Ripenso al mio viaggio a Tirana, alla generosità degli albanesi sul posto e a tutta quella generazione arrivata in Italia con le tasche dei pantaloni zeppi di sogni.

I runner corrono e i volti si deformano nello spirito di squadra della Staffetta, mentre io e Giulio ci sediamo sul marciapiede della complicità, che va al di là dei ciuffi della nostra capigliatura. Rovistando nel backstage di due generazioni, infatti, troviamo la stessa modalità di accarezzare la vita: una scanzonata leggerezza che fa delle passioni l’involucro delle emozioni per catturare i dettagli, che sfuggono ai frenetici e ai distratti.

Io scatto, Giulio salta, il jumping della Milano Marathon è fatto, proprio sotto il traguardo. Qualcuno avrà pensato che “i salti indiavolati” di Giulio Tolli siano una stravaganza. Quando Giulio scompare per tornare a casa nel suo Abruzzo e, in lontananza il suo ciuffo assomiglia alla cresta scapigliata di Beep Beep, rifletto. I jumping di Giulio invitano le nostre generazioni a  tagliare i traguardi della vita “con le gambe sospese all’aria”, perché con i piedi per terra, come cantava anche Lucio Dalla, “un vincitore vale quanto un vinto”.