Pipolo.it

Blog e Sito dI Rosario Pipolo online dal 2001

Tina Turner, locandina film

Tina Turner e la stretta di mano che conservo nel cuore

Occhiali

Tina Turner non c’è più. Non mi sembra vero perché la sua musica è stata la colonna sonora dei miei lunghi viaggi negli USA verso il mondo afroamericano. A lei mi lega un bellissimo ricordo, al Lido di Venezia, nella cornice della Mostra del Cinema di Venezia.
L’emozionante film Tina – What’s Love Got to Do with It di Brian Gibson, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia del 1993, mi illuminò sulle enormi sofferenze di questa donna afroamericana. Quanti di voi sapevano che dietro la voce da leonessa nascondeva i lividi e le ferite dei maltrattamenti dell’ex marito e partner musicale Ike Turner?

TINA – WHAT’S LOVE GOT TO DO WITH IT

Allora Tina Turner non è stata protagonista di un biopic costruito a tavolino, come accade in alcune effimere operazioni di marketing cinematografico dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It è stato un bel film tra musica e privato, tra palco e casa, che ha saputo raccontare una delle voci più graffianti del rock e della black music.
Nel dicembre 2005 un bus americano della Greyhound mi condusse da Nashiville a Memphis. Attraversando il suo amato Tennessee scorsi i paesaggi dell’infanzia e della giovinezza di Anne Mae Bullock, in arte Tina Turner, per chi l’ha amata spassionatamente semplicemente Tina. Il cinema stimola riflessioni acute e la musica diventa pane per i denti dei viaggiatori ammalati come me degli on the road.

TINA, TESTIMONE CONTRO LA VIOLENZA SULLA DONNE

Sono passati trent’anni esatti dalla proiezione in anteprima in Sala Grande del film dedicato a Tina Turner e su un punto voglio essere chiaro. Ai tempi non si parlava di femminicidio o si denunciava la violenza sulle donne con la disinvoltura dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It resta un titolo manifesto. Lo avevo guardato già in mattinata alla proiezione riservata a noi della stampa ma bissai la sera stessa, ritrovandomi con un gran regalo tra le mani.
A mezzanotte Tina Turner arrivò a sorpresa in sala e tutto il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia le tributò un’interminabile valanga di applausi e standing ovation. I suoi bodygard non le davano un attimo di respiro.

QUELLA CAREZZA DELLA SERA

Le urlai: “Grazie, Tina. Che il tuo coraggio sia un esempio per tutte le donne che hanno paura di denunciare la violenza degli uomini farabutti e vigliacchi.” Lei si voltò, incrociò il mio sguardo da ventenne, fece cenno alle guardie del corpo e si avvicinò. Mi diede una carezza e mi strinse forte la mano.
Dal 1993 conservo ancora nel cuore quegli istanti. Ad accompagnare tanta vita dell’uomo cinquantenne che sono oggi, c’è stata anche la musica di Tina Turner, tra graffi e ferite, sofferenza e tanto coraggio. Il coraggio di continuare ad amare, nonostante tutto, sempre.

Pino Daniele, scudetto napoli

Napoli nel pallone tra canzoni di ieri e di oggi

Occhiali

La febbre scudetto sta a Napoli come Napoli alle canzoni. La musica popolare accompagna da sempre la squadra partenopea e ci sono diversi brani che vanno ricantati da soli o in buona compagnia. Torniamo ad essere canterini sul balcone come nei mesi grigi del lockdown? Ho scelto quattro canzoni di ieri e di oggi per accompagnare il sogno azzurro.

OJE VITA, OJE VITA MIA

Oje vita, oje vita mia oje core ‘e chistu core
si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me!

è il ritornello della famosa canzone napoletana ‘O surdato ‘nnamurato. Quante volte l’avete sentita cantare in coro senza aspettare la febbre scudetto del Napoli?
Scritta nel 1915 da Aniello Califano sulle musiche di Enrico Cannio, è un testo triste di cui il ritornello, cantato a squarciagola sugli spalti dell’ex San Paolo di Napoli, ne stravolge il significato. In realtà questa poesia musicata, che ha avuto interpreti d’eccezione come Anna Magnani e Massimo Ranieri, racconta della sofferenza di un soldato al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale, per la lontananza dalla sua donna.

FORZA NAPOLI

Nino D’Angelo ha dedicato alla squadra azzurra la canzone Napoli, colonna sonora del film Quel ragazzo della curva B, uscito al cinema nel 1987 e ambientato nell’annata del primo scudetto. Versi come

Viecchie e giovani cercano rint’a nu pallone Nu poco ‘e pace nu juorno nuovo Ca se chiamma libertà

esprimono bene come i trofei siano un grande riscatto per tutta la comunità partenopea. Il brano è inserito nella discografia ufficiale di D’Angelo, comparendo all’interno dell’album Fotografando l’amore del 1986.

DA PINO A DIEGO

Tango della Buena Suerte di Pino Daniele, uscito nel 2004 all’interno del disco Passi d’autore, è un omaggio sottovoce all’ex capitano del Napoli Diego Maradona. Sotto le vesti di un tango e con venature malinconiche la canzone di Daniele fotografa bene la persona nascosta dietro al personaggio. In un certo senso è anche profetica rispetto alla morte prematura del campione argentino:

E a luci spente suona il tango
per magia resterà qui per sempre come un fermo immagine.

IL DIO DEL PALLONE IN UN RAP

Maradona è il titolo di una canzone di Geolier, contenuta nell’ultimo album Il coraggio dei bambini e pubblicata lo scorso gennaio. Il rapper di Secondigliano ha dedicato al Pibe de Oro un brano intenso in cui si sente forte la voglia di rinascita e di riscatto. Il dio del pallone in terra diventa così per Emanuele Palumbo l’interlocutore privilegiato nel nostro tempo complicato e pieno di contraddizioni:

Vogl duij rilog Dieg Armand Maradona
Tie vir bro vir che or song
Fat nu mlion rop lag mis aggir
E bast cu sti sold so volgare e so imbattibil
.

federico salvatore

Azz, non voglio dire addio a Federico Salvatore!

Occhiali

La notizia della scomparsa prematura di Federico Salvatore, apprezzato cabarettista e chansonnier partenopeo, addolora ogni napoletano che si rispetti. Le luci della ribalta si accesero per Federico una trentina d’anni fa sul palco del Maurizio Costanzo Show. La partecipazione nel 1996 al Festival di Sanremo con il brano Sulla porta fece il resto. Io trascorsi un pomeriggio insieme a lui dentro e fuori gli studi di Radio Club 91, tempo dopo il rientro sanremese. I funerali sono previsti il 20 aprile alle ore 12.30 nella Basilica di San Ciro a Portici. I fan e le persone che gli hanno voluto bene gli daranno l’ultimo saluto.

L’ARTE DI FEDERICO SALVATORE SULLE BANCARELLE

In realtà per noi napoletani Federico Salvatore, 63 anni, è entrato nel cuore nel decennio precedente a quello della popolarità nazionale accompagnata dallo slogan “Azz”. A metà degli anni ’80 sulle bancarelle alla Ferrovia di Napoli, infatti, circolavano le audiocassette con gag e canzoni ironiche insuperabili. Ero alle scuole medie, stavo mangiando una sfogliatella con nonno Pasquale nel vico della ferrovia quando la sua voce uscì da una cassa di un ambulante. Nonno Pasquale rideva “sotto i baffi” e io corsi il rischio di affogare per le risate.
Chiamatele pure arte da bancarella ma gli esordi di Federico Salvatore avevano già chiaro il destino artistico. Diventare un arguto cantastorie e cronista della quotidianità napoletana, quella che se non sei nato all’ombra del Vesuvio non puoi capire.

APPICCICATA O VOMMERO

L’emblematica canzone-macchietta “Appiccicata o Vommero”, un litigio nel quartiere vomerese tra un “chiattillo” della Napoli benestante e un popolano, nascondeva l’amaro campanilismo tra la città bassa e la città alta, che da Posillipo serpeggiava fino in via Santa Teresa degli Scalzi del quartiere Stella, dove Federico Salvatore era nato il 17 settembre 1959. Rispetto a Tony Tammaro e alla sue parodie musicate, Federico Salvatore è stato più capace di affacciarsi in ogni quartiere di Napoli e raccontarne pregi e difetti senza perdere di vista le sfumature della diversità.

IL MIO POMERIGGIO CON FEDERICO SALVATORE A RADIO CLUB 91

Nella primavera del 1996, dopo il trionfale rientro dal palco del teatro Ariston, trascorsi un bellissimo pomeriggio con Federico Salvatore a Radio Club 91, in via Broggia a Napoli, a pochi passi dal teatro Bellini. Io ero agli esordi con la macchina da scrivere. Dopo l’intervista negli studi radiofonici, io e Federico continuammo con una lunga chiacchierata davanti a un caffè: mi donò tanti aneddoti della sua gavetta, i sacrifici spesso incompresi, mi raccontò della nuova casa sul litorale Domitio, del mancinismo che ci accomunava e rise a crepapelle quando gli dissi che all’asilo avevano tentato di curarmi come se avessi una malattia.
E naturalmente ci soffermammo ancora sul testo di Sulla porta, che lo aveva sdoganato dal cliché di chi vuole strapparti la risata facile. Il monologo musicato intenso, che raccontava il delicato momento di un coming out, porta anche la firma di Giancarlo Bigazzi.
Federico Salvatore, che ho rincontrato spesso a teatro – sosteneva che un bravo cabarettista “non deve digiunare del palcoscenico neanche da spettatore” – era schietto, sensibile, empatico. La sua “battuta” nascondeva l’amarezza del cabarettista appartenente a una razza davvero in estinzione, anche quando mi salutò così da fratello maggiore: “Ragazzo, ricorda che uno dei mali del nostro Paese è lo squallido tentativo di distinguere gli artisti in serie A e B.”


FARE IL NAPOLETANO STANCA…

Fare il napoletano stanca…. di Federico Salvatore è una riflessione intensa del 2009 che oggi potrebbe essere il testamento dell’artista. L’avete mai ascoltata? Ci sono due motivi per cui varrebbe la pena tornare a Napoli nei prossimi mesi: festeggiare lo scudetto e urlare sotto la finestra della sua casa a Portici: “Federì, affaccete a sta fenesta e cantece ‘na canzone.”

“Non ho titoli di Dottore
ne divisa di ferroviere
non sono ladro né carabiniere
sono un lavoro umano
che ha ingegno da ingegnere
faccio il napoletano di mestiere
E’ la napoletanità chiusa nel mio DNA
è un passpartù di opportunità.”

L’insolenza di Rino Gaetano contro le lobby 40 anni dopo

Gli anniversari servono a poco se finiscono seppelliti sotto le onde emotive. A quarant’anni dalla scomparsa prematura – me lo ricordo quel 2 giugno 1981Rino Gaetano e le sue canzoni insolenti sono ancora attuali. Nella sua discografia, strizzata in soli 6 album in studio, c’è un fil rouge: l’essenza antilobbista del Rino di allora che oggi torna a scottare. Come le canterebbe le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati?

LA MIA FIDANZATA DELL’INFANZIA: GIANNA CON UN COCCODRILLO

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano. Mia mamma fu convocata all’asilo perché raccontavo ai miei compagni della mia fidanzata “Gianna che aveva un coccodrillo”. Nel 1978, da un televisore in bianco e nero sul frigo della nostra cucina, rimasi stregato dall’anarchico Rino Gaetano sul palco del Festival di Sanremo.
Tutti i pomeriggi, su un balcone alla periferia di Napoli, stonavo Gianna e il manico di scopa fregato a mamma faceva da microfono.

Rino diceva che “Ci sono persone pagate per dare notizie, altre per tenerle nascoste, altre per falsarle“. In Italia erano gli anni bui del terrorismo, alla periferia di Napoli della Nuova Camorra Organizzata cutoliana. Io cantavo Gianna alla ringhiera e, a pochi metri in linea d’aria, lo struscio locale mischiato alla politica losca rendeva omaggio a ‘O boss d’o paese circondato dai fedeli scagnozzi.

MA IL CIELO E’ SEMPRE PIU’ BLU

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché fu profetica, lungimirante sotto “il cielo sempre più blu”: dalla disfatta della Prima Repubblica alle ingiustizie sociali, dalle morti bianche al razzismo oltre confine.

Quarant’anni dopo, punto. E ora che si fa “Aida, le tue battaglie I compromessi La povertà I salari…” tra i fantasmi del colonialismo? Ora che si fa, sputando in faccia a chi si sottomette alla routine e esaltando “Mio fratello è figlio unico Perché non ha mai trovato il coraggio d’operarsi al fegato E non ha mai pagato per fare l’amore E non ha mai vinto un premio aziendale“? Ora che si fa mentre Berta filava e “partiva l’emigrante e portava le provviste E due o tre pacchi di riviste E partiva l’emigrante ritornava dal paese“?

Ridatemi l’insolenza di Rino Gaetano perché, persino dando voce ad una cover, ha fatto germogliare la speranza di ricominciare dopo la sepoltura di una storia d’amore sotto la neve, a mano, a mano.

Ci risiamo, quarant’anni dopo. Come canterebbe Rino Gaetano le lobby dei giorni nostri tra gay, vegani, influencer politicanti e animalisti incazzati? Come canterebbe Rino Gaetano l’Italia dell’uscita dal carcere d’U verru, il boss pentito, che oltraggia la memoria della strage di Capaci?

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

(Nun te reggae più)

Franco Battiato e il passaggio in Medio Oriente della mia generazione

La mia generazione, nata al’alba degli anni ’70, deve alla musica di Franco Battiato (1945-2021) gli occhi per guardare con privilegio il Medio Oriente. La colonna sonora del mio primo giorno delle elementari fu L’era del cinghiale bianco, che impazzava da una radio libera all’altra. Il maestro siciliano, per quella bizzarra capigliatura, mi faceva sorridere quando la domenica pomeriggio sbucava sul palco di Discoring, la trasmissione musicale di Gianni Boncompagni.

SGUARDI PRIVILEGIATI SUL MEDIO ORIENTE

La mia infanzia, a livello mediatico, è stata segnata dalle bombe che cadevano su Beirut e gli schizzi di sangue della faida tra israeliani e palestinesi. Con il tempo il canzoniere di Franco Battiato ha accorciato le distanze tra me e i miei coetanei di allora, finiti in disgrazia nel Medio Oriente turbolento: bambini, orfani di guerra, cresciuti sotto i lampi dei bombardamenti, a cui era stato sottratto il diritto allo studio per essere allevati con elmetti e fucili, come se non ci fosse via d’uscita dall’odio.

La musica di Battiato si è rivelata un varco provilegiato per quelli come me, i cui studi linguistici di impronta europeista non agevolavano il contatto con l’emisfero arabo. Brani come Da Oriente ad Occidente, Pasqua Etiopie, L’Egitto prima delle sabbie, Arabian Song, E ti vengo a cercare, sono state pure illuminazioni.
Meditazioni musicali che mi hanno fatto volare, prima di inserirle nella lista del mio giro del mondo, nella Teheran delle contraddizioni della rivoluzione di Khomeini, nella Gerusalemme crocevia di religioni e culture milleniare, nel Cairo del passaggio controverso del potere da Sadat a Mubarak.

BATTIATO, COLONNA SONORA TRA VIAGGIO E IMMAGINAZIONE

Le canzoni più filo-orientali di Battiato sono state la colonna sonora della mia lettura di Persepolis, graphic novel della fumettista iraniana Marjane Satrapi, o del mio viaggio verso Istanbul, su un autobus che dai Balcani mi catapultò sotto una delle porte che si aprivano sul Medio Oriente.
In quel ferragosto del 2009 in Turchia c’erano 1.400 chilometri che mi separavano dall’Iraq. Eppure la cover di Battiato di Fogh in Nakhal, canzone tradizione irachena udita nei pressi del Gran Bazar di Istanbul, cancellò improvvisamente le distanze e profetizzò ciò che avrei vissuto pochi anni dopo a Ground Zero: io e una studentessa irachena in una preghiera laica per le vittime dell’11 settembre.
L’opera di Battiato, complessa e multiforme tra filosofia, meditazione, religione, spiritualità e musica, ha il merito di aver abbattuto tanti muri, inclusi quelli dei malefici pregiudizi, senza cui la mia generazione non avrebbe fatto il suo passaggio in Medio Oriente: oggi la sua scomparsa, sotto le bombe del nuovo millennio tra Israele e Palestina, sembra chiudere il cerchio di una pace che tarda ad arrivare, anzi che forse mai arriverà.

NON C’E’ ADDIO PER UN UN ESSERE DEL COSMO

Agli altri l’affanno di etichettare Franco Battiato e la sua opera. Il ricordo della mia intervista a Milano una quindicina d’anni fa mi costringono a fare altro: lasciare galleggiare le sensazioni di quei momenti, come se davanti a me nel camerino ci fosse stato un essere del cosmo passato sulla terra, la cui generosità e spiritualità hanno reso la sua opera uno dei più grandi lasciti artistici in Italia.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Immigrato di Checco Zalone affossa il pop di Laura Pausini

Non è una beffa. Immigrato di Checco Zalone ha vinto il David di Donatello come miglior canzone originale, destando scalpore tra tutti i fricchettoni del pop che davano per scontato la vittoria di Laura Pausini. Cosa c’è di scandaloso? E’ la volta buona in cui ironia e riflessione cantate nel film Tolo Tolo soppiantano il solito canzoniere, con tutto il rispetto per una grande artista come la Pausini.

LA TRAVOLGENTE “FIGHT FOR YOU” E LA PAUSINI SENZA OSCAR

L’Oscar mancato della Pausini il 25 aprile scorso mi ha ricordato quello del film Pinocchio di Benigni nel 2002, scartato alla candidatura come miglior film straniero. Non tutte le strade del marketing cine-musicale spianano la strada all’ambita statuetta: Io sì (Seen) era accoppiata al film di Ponti junior con donna Sophia.
Niente Oscar per il pop anti-razzista della Pausini, sconfitta a Hollywood dalla rivoluzionaria H.E.R. che aveva mitragliato in puro stile R&B i colpi mortali della travolgente Fight For You.


IL DAVID DI DONATELLO A ZALONE

Il David di Donatello a Immigrato resta una bella sorpresa da parte dell’Accademia del Cinema Italiano presediuta da Piera Detassis. “La solita cricca di sinistra che premia i soliti, no questo era il foglietto se perdevo – ha commentato a caldo il vincitore – Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico.”
Il polverone che si è alzato sui social per la seconda sconfitta della nostra regina del pop lascia il tempo che trova. Il podio a Zalone ha portato una ventata di freschezza su uno dei palchi più prestigiosi in Italia. Inoltre, una vetrina ambita come il David di Donatello, attraverso lo sguardo su cinema e dintorni, ha il compito di essere anche lo specchio sociale del Belpaese e dei suoi umori.
Seen, scritta in inglese da Diane Warren e poi tradotta in italiano dalla Pausini, è troppo d’oltreoceano e manca di quella “profonda italianità” che invece Immigrato di Zalone sprigiona.

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

NELL’ITALIA MULTIETNICA DI ZALONE

Non sono forse i primi versi della canzone di Zalone già una polaroid autentica dell’Italia dei nostri tempi? L’umorismo tagliente sega i luoghi comuni, limando gli spigoli surreali di “Poi la sera la sorpresa a casa Al mio ritorno Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno Ma mia moglie non è spaventata” in amarezza, dolore, riflessione:

Immigrato

quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

mi prosciughi tutto il fatturato

Checco Zalone ha fatto centro con un testo dissacrante che viene messo in bocca al razzista di media levatura. Tra versi e ritornello “apparentemente” scanzonati emerge invece un’arguta meditazione sull’Italia multietnica del nuovo millennio.
Tra le righe si legge la noiosa assuefazione dell’instinto di sopravvivenza del Belpaese tra pregiudizi e polemiche per niente costruttive.
Alla fine del gioco resta sempre la scorciatoia del fare a scaricabarili con il rischio e un prezzo alto da pagare: finire in un vicolo cieco.

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Colapesce e Dimartino “vincitori morali” del Festival di Sanremo ai tempi del Covid

Antonio (in arte Dimartino) è cresciuto a Palermo e chissà se l’ho incrociato una quindicina d’anni fa, durante la mia estate a Mondello, dalle vecchiette che friggevano panelle a poca distanza dalla celebre spiaggia custode dei segni delle riprese gattopardiane.

Antonio aveva acceso una fiaccola in memoria dei giudici Falcone e Borsellino cantando in giro per la sua Sicilia insieme ai Famelika, ex compagni di viaggio, un brano a me particolarmente caro, Giovà, scoperto proprio durante quell’estate palermitana.
La canzone, che vi consiglio di ascoltare, sventolava in sordina la bandiera di protesta contro Cosa Nostra, omaggiando il cantastorie siculo Giova ucciso dalla mafia nel 1962.

Lorenzo (in arte Colapesce) è cresciuto a Solarino, ad una ventina di chilometri da Siracusa e come nome d’arte ha scelto quello di un’antica leggenda siciliana e delle gesta del figlio di un pescatore rimasto sott’acqua per non far sprofondare l’isola.

Pochi giorni prima del Natale 2009 mi capitò per sbaglio tra le mani la mitica Merry Christmas Darling dei Carpenter nella cover trasfigurata da una band siracusana, gli Albanopower. Su questa giostra strampalata di indie, new wave e pop c’era salito anche Lorenzo, il futuro Colapesce nel progetto da solista.

Colapesce e Dimartino, proprio in questi giorni Disco di platino per la loro canzone sanremese Musica leggerissima, hanno unito storie personali e artistiche della loro magica isola Trinakria.

Lorenzo e Antonio sono vincitori morali del Festival di Sanremo ai tempi del Covid prima ancora che a decretarlo fosse il Premio Lucio Dalla o il termometro della febbre musicale. Lo sono fin dall’esibizione della prima sera, in cui i baffetti alla Alan Sorrenti di Lorenzo ci hanno catapultati nella freschezza sperimentale degli anni ’70 e tra le elaborazioni melodiche degli anni ’80 di cui è cosparsa Musica leggerissima.

Per non parlare del bellissimo video, un fiume in piena di citazioni cinematografiche tra la poesia visiva di Fellini, il surrealismo di Buñuel infarcito del film beatlesiano di Magical Mistery Tour e l’introspettività di Bergman. Eppure la canzone Musica leggerissima è solo in apparenza il tormentone che ha contagiato i social e farà da colonna sonora alla prossima estate, perché nasconde la drammaticità di questo tempo covizzato sotto le ascelle dello slogan “andrà tutto bene”.

Colapesce e Dimartino hanno vinto Sanremo 2021 perché ci hanno fatto saltellare e ballare con leggerezza sugli assilli amletici del tunnel della pandemia come l’antimilitarismo di “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche”, il precipizio della morte “Per non cadere dentro al buco nero Che sta ad un passo da noi, da noi”, la fede che vacilla “I tamburi annunciano un temporale Il maestro è andato via” o sugli squilibri del tempo della vita che corre veloce “Diventare adulti sarebbe un crescendo Di violini e guai”. Come hanno ribadito Lorenzo e Antonio:

La mortalità è un concetto oggettivo. Tutti vediamo i nostri corpi sparire, disintegrarsi, diventare altro.

Colapesce e Di Martino sono i nuovi outsider della Sicilia, figli della dea Giuni Russo e benedetti dallo Zeus dell’isola di Trinakria Franco Battiato, del quale ci hanno regalato l’emozionante cover Povera patria, dito nella piaga dell’Italia ammalata ancora dei corsi e ricorsi storici e “schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore”.

A San Valentino verso casa di Mimì Bertè

Quando acquistai la prima casa, mi sentii fin dal primo momento “vicino mancato di Mimì Bertè”. Distavo in linea d’aria una manciata di chilometri dall’ultima abitazione della grande interprete. Un anno dopo il trasloco, mi misi in auto e cercai quelle mura a Cardano al Campo, in provincia di Varese, che l’avevano custodita fino all’ultimo giorno.

Mentre mi avvicinavo allo stabile, mi tornarono in mente le parole di Matteo, agente immobiliare e primo amico della zona: “La casa è lo specchio dell’anima delle persone.” In realtà, io e Matteo stringemmo amicizia proprio su questa riflessione e lo sforzo di guardare oltre la corteccia della professione.
Quella stradina a Cardano e quella casa – non avevano niente a che fare con la residenza di una diva – mi fecero ritrovare la persona, la semplicità, la bellezza di donna del Sud, lontana dal personaggio Mia Martini costruito dai discografici di allora.

Le mura della casa a Cardano trasudavano di antidivismo, perché Mimì Bertè aveva battagliato da donna emancipata anche contro i pregiudizi che ammazzano la personalità e il maschilismo avvelato ai vertici dell’industria discografica italiana negli Anni di Piombo.
Chi ha seguito con passione e costanza i suoi passi musicali, sostenendola anche con l’acquisto dei dischi nel corso del tempo, non può accontentarsi di una fiction televisiva o delle dichiarazioni audaci dell’attrice protagonista, a proposito dei “no clamorosi” di chi non è voluto comparire: “Voglio credere sia stato tutto un atto d’amore di Mimì, che abbia scelto lei che facesse parte del suo film solo chi le voleva veramente bene.”

Nessuno dovrebbe avere l’arroganza di farsi portavoce dell’intimità di Mimì. Oggi, nel giorno di San Valentino, Festa degli Innamorati, vado in direzione della sua casa, perché Mimì Bertè è stata innamorata anche dell’amore e dei sogni.
L’immaginazione mi farà vedere danzare, tenendosi per mano su un balcone di Cardano al Campo, l’interprete e l’autore che le scrisse questa canzone:

“E non finisce mica il cielo
Anche se manchi tu,
Sarà dolore o è sempre cielo
Fin dove vedo.”

Mimì Bertè resta un angelo libero e questo lo sanno bene tutti coloro che credono ancora nel potere strabiliante dell’immaginazione.

Sudafrica on the road: African Cream Music, la mia colonna sonora sulle orme della libertà

Quando Alex Agulnik fondò l’etichetta discografica indipendente African Cream Music, era consapevole che la musica restava una scorciatoia per arrivare diritti al cuore della storia di un Paese. Negli oltre 3 mila chilometri on the road in Sudafrica alcuni album fondamentali pubblicati dalla label con sede a Johannesburg hanno fatto da colonna sonora al mio viaggio.

Il sorriso di Nelson Mandela che illumina la copertina del doppio cd The Winds of Change altro non è che l’apripista di un viaggio musicale nel viaggio. Questa è la mia compilation preferita perché, grazie ad una selezione certosina, ci sono le tappe dei cambiamenti del Sufadrica che marciò verso la libertà, schiacciando il letame della politica che aveva alimentato l’Apartheid: Windows of Change di MacMillann, Asimbonanga di Johnny Clegg, Papa Stop the War di Chicco o Power of Africa di Chaka Chaka sono gemme che cospargono di letteratura le sonorità sudafricane.

Non posso che associare il mio vagabondaggio sudafricano a queste canzoni, ai loro vezzi letterari, a quella loro forza di essere cartoline da spedire senza francobollo con gli slogan che cicatrizzano le ferite di una terra: Freedom Songs, Voice from Mother Africa o Songs and Stories of Africa sono compilation che mettono a tacere il silenzio e l’omertà che hanno aperto buchi e trasfori nelle nostre coscienze.

Attraversando la provincia del Mpumalanga che mi porta tra le braccia del Parco Nazionale del Kruger, l’ascolto dell’album Singabantu di Skipper Shabalala mi ricorda che gli immigrati di altri stati confinanti hanno dato una nuova linfa alle sonorità sudafricane, che spesso sfuggono agli odiosi turisti distratti e attratti dai luoghi comuni.

 

Non importa se sei ricco o povero, dobbiamo essere uniti per essere una nazione compatta. Siamo tutti essere umani. (Skipper Shabalala)

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.