Per Lucia

Per Lucia ricomincio. Su quel tram verso Bagnoli, in un pomeriggio di dicembre, io nel mio montgomery color cammello e il suo maglione fatto a uncinetto, stretto a lei, a far visita al fratello Nicola. Il tram frenò e i suoi occhi balzarono nello sgomento. Capii allora che la mia bisnonna se n’era andata prematuramente investita da quel maledetto numero 1.

Per Lucia ricordo. A braccetto con la sorella Adele nella Napoli del Secondo Dopoguerra in attesa che le arrivasse una lettera dal suo Pasquale, prima dei giorni bui della prigionia, sognando il matrimonio che sarebbe arrivato quando dalla polvere da sparo sarebbero germogliate rose rosse: “Mia carissima Lucia, in questo momento ho ricevuto il tuo espresso, il quale ha procurato in me grande gioia, sapendoti in ottima salute. Poi ho trovato due foto, per cui ti assicuro che sei uscita magnificamente bene. Sappi che, essendo la mia divisa un po’ grande, ho dovuto portarla dal sarto per farla accorciare. Appena il sarto si deciderà a ridarmela, mi farò delle foto in formato grande e te ne invierò qualcuna. Del resto, sii sempre tranquilla che io ti amo veramente e non ti farò mai alcun torto.”

Per Lucia come nel teatro di Eduardo. Da commerciante ambulante dell’Addà passà ‘a nuttata della Napoli milionaria a commerciante a domicilio quando il marketing era ancora scienza lontana; da moglie, zia, sorella, figlia a madre attenta, premurosa, avanguardista; da matriarca generosa che trasformò la sua casa nel rifugio di aggregazione per familiari, amici, vicini a nobildonna non per titolo ereditario ma per vita vissuta; da impeccabile cuoca napoletana ai fornelli a saggia anziana occhialuta che amava ripetere: “A vita è n’affacciata ‘e fenesta.”

Per Lucia io scugnizzo napoletano. Una notte, sotto un cielo stellato ai Campi Flegrei, fece l’incantesimo. Gettò via il borotalco, mi cosparse dello zolfo della Solfatara, mi fece immergere nell’acqua misto di sale e catrame di Coroglio, mi lasciò tremare tra i movimenti ondulatori del bradisismo di Pozzuoli, spalmò sulla mia lingua la cadenza stretta napoletana affinché nessun maestro di dizione potesse correggerla.
Mi sottrasse alla provincia, cambiò il mio destino, mi cucì addosso un vestito con le canzoni di Piedigrotta e mi fece ad uncinetto un cappellino con le ceneri del Vesuvio. Nella braccia conficcò la terracotta dei pastori di San Gregorio Armeno e, anni dopo, al capezzale dopo aver capito che i giorni era contati, mi disse: “Fujetenne, vattenne. Tu ta cavarrai sempe”.

Venticinque anni senza Lucia sono stati anche 25 vigilie di Natale con lo spaghetto alle vongole tassativamente in bianco, 25 smisurate preghiere su un filo di vento, 25 fette di pastiera mai mangiate, 25 sogni in cui luminosa mi faceva segno di non voltarmi indietro perché c’era lei a un passo da me, 25 punture dolorose tutte le volte che avrei voluto riabbracciarla, 25 poesie mai scritte perché la penna di Salvatore Di Giacomo non mi avrebbe soccorso, 25 volte in un teatro a Napoli senza che mi accompagnasse e tutti puntualmente a ripetermi “Che bella signora, tua mamma!” (In reatà lei mia nonna…), 25 concerti senza la dedica di Riccardo Fogli per lei su un vecchio 45 giri, 25 volte in aereo pensandola accanto a me come quella volta verso Lourdes, 25 volte in auto al casello della tangenziale senza lei che mi diceva “Pigliete sti spicci…”, 25 Festival di Sanremo senza lei che mi raccontava i suoi, il primo alla radio, 25 volte che ho chiesto ad Alexa di darmi le notizie a prima mattina per ritrovare i risvegli assieme e lei che girava la manopola della radio su Rai GR1 notizie, 25 estati al mare senza il suo “Figlio ‘e ‘ntrocchia, je te voglio bene”.

Oggi 29 dicembre chissà se mi riconoscerà per le vie di Milano dopo così tanto tempo, capelli ingrigiti e barba incolta, occhiali appannati come i vetri dell’auto con i tergicristalli rotti, un ago puntato al centro del mio cuore.

Per Lucia, mia nonna.

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