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Pino Daniele, scudetto napoli

Napoli nel pallone tra canzoni di ieri e di oggi

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La febbre scudetto sta a Napoli come Napoli alle canzoni. La musica popolare accompagna da sempre la squadra partenopea e ci sono diversi brani che vanno ricantati da soli o in buona compagnia. Torniamo ad essere canterini sul balcone come nei mesi grigi del lockdown? Ho scelto quattro canzoni di ieri e di oggi per accompagnare il sogno azzurro.

OJE VITA, OJE VITA MIA

Oje vita, oje vita mia oje core ‘e chistu core
si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me!

è il ritornello della famosa canzone napoletana ‘O surdato ‘nnamurato. Quante volte l’avete sentita cantare in coro senza aspettare la febbre scudetto del Napoli?
Scritta nel 1915 da Aniello Califano sulle musiche di Enrico Cannio, è un testo triste di cui il ritornello, cantato a squarciagola sugli spalti dell’ex San Paolo di Napoli, ne stravolge il significato. In realtà questa poesia musicata, che ha avuto interpreti d’eccezione come Anna Magnani e Massimo Ranieri, racconta della sofferenza di un soldato al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale, per la lontananza dalla sua donna.

FORZA NAPOLI

Nino D’Angelo ha dedicato alla squadra azzurra la canzone Napoli, colonna sonora del film Quel ragazzo della curva B, uscito al cinema nel 1987 e ambientato nell’annata del primo scudetto. Versi come

Viecchie e giovani cercano rint’a nu pallone Nu poco ‘e pace nu juorno nuovo Ca se chiamma libertà

esprimono bene come i trofei siano un grande riscatto per tutta la comunità partenopea. Il brano è inserito nella discografia ufficiale di D’Angelo, comparendo all’interno dell’album Fotografando l’amore del 1986.

DA PINO A DIEGO

Tango della Buena Suerte di Pino Daniele, uscito nel 2004 all’interno del disco Passi d’autore, è un omaggio sottovoce all’ex capitano del Napoli Diego Maradona. Sotto le vesti di un tango e con venature malinconiche la canzone di Daniele fotografa bene la persona nascosta dietro al personaggio. In un certo senso è anche profetica rispetto alla morte prematura del campione argentino:

E a luci spente suona il tango
per magia resterà qui per sempre come un fermo immagine.

IL DIO DEL PALLONE IN UN RAP

Maradona è il titolo di una canzone di Geolier, contenuta nell’ultimo album Il coraggio dei bambini e pubblicata lo scorso gennaio. Il rapper di Secondigliano ha dedicato al Pibe de Oro un brano intenso in cui si sente forte la voglia di rinascita e di riscatto. Il dio del pallone in terra diventa così per Emanuele Palumbo l’interlocutore privilegiato nel nostro tempo complicato e pieno di contraddizioni:

Vogl duij rilog Dieg Armand Maradona
Tie vir bro vir che or song
Fat nu mlion rop lag mis aggir
E bast cu sti sold so volgare e so imbattibil
.

Murales, Napoli calcio

Napoli, dove fare i selfie a “regola d’arte”

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A Napoli sale la febbre scudetto e un bel selfie ci sta bene per onorare la squadra di calcio partenopea. In alternativa all’ambita foto con il calciatore del cuore, si può optare per un murale, un graffito, un’opera d’arte a cielo aperto.
Ecco cosa la street art napoletana vi mette a disposizione per il prossimo selfie.

JORIT TRA SAN GENNARO E MARADONA

Cominciamo con la benedizione scudetto del Santo Patrono di Napoli. Nel quartiere Forcella splende il San Gennaro di Jorit e, dai suoi 15 metri d’altezza su piazza Piazza Crocelle ai Mannesi, rivolge lo sguardo su Spaccanapoli. L’arte del partenopeo Jorit Agoch, di madre olandese, ha conquistato il cuore di tutti i napoletani che hanno reso il suo San Gennaro uno dei murales parteopei più diffusi in Rete.
Jorit ha fatto colpo ancora con il maxi murale dedicato a Diego Armando Maradona nel quartiere periferico di San Giovanni a Teduccio. Apprezzato dallo stesso Pibe de Oro, l’opera gigantesca di Jorit è stata realizzata nel 2017 su una facciata delle vecchie case popolari in via Taverna del Ferro.

STREET ART E MOVIMENTO

Il murale dedicato a Maradona nei Quartieri Spagnoli è meta di pellegrinaggio da sempre. Su un vecchio palazzo di sei piani, in via Emanuele De Deo, Diego corre per segnare un goal, nel cuore della città che ha amato tanto. Street art e movimento evocano l’infinito sentimento partenopeo per il grande campione argentino scomparso prematuramente. L’opera è stata relaizzata nel 1990 da Mario Filardi in occasione del secondo scudetto vinto dal Napoli.
Meno noti, sempre in zona, sono i murales dell’artista argentino Juan Pablo Gimenez in via Trinità degli Spagnoli. I protagonisti sono Kim, Anguissa, Di Lorenzo e Kvaratskhelia e l’mpronta artistica movimenterà il vostro selfie.

DALLA STAZIONE DELLA CUMANA AI BAMBINI CON LA MAGLIA DEL NAPOLI

La fermata Mostra-Stadio Maradona della ferrovia Cumana di Napoli è un altro posticino da tenere in considerazione per un selfie a regola d’arte. Un’antologia di murales racconta la storia centenaria del Napoli Calcio fino ai giorni nostri. Qui avrete soltanto l’imbarazzo della scelta tra vecchie e nuove glorie che hanno indossato la maglia azzurra, da Cavani a Higuain.
Infine, si segnala l’omaggio artistico di Rosk & Loste al mondo dell’infanzia e alla passione per il pallone nell’opera gigantesca che campeggia in periferia, nel Parco dei Murales a Ponticelli. Le maglie della squadra del Napoli indossate dai due bambini, protagonisti del murale dei due artisti siciliani prima della febbre scudetto, trasmettono un forte segno di appartenenza, l’importanza della propria identità e delle radici comuni.

Napoli, Stadio Maradona, Ex San Paolo

4 luoghi storici nel cuore di un tifoso del Napoli

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Scattata da un bel pezzo la febbre per il terzo scudetto, ci sono almeno 4 luoghi storici da vedere se sei un tifoso della squadra del Napoli. La società sportiva Calcio Napoli si prepara a festeggiare nel 2026 i cent’anni e in giro ci sono alcuni posti che appartengono alla storia di una squadra di calcio che ha segnato la storia del pallone in Italia. Sei o non sei un tifoso degli azzurri?

IL VESUVIO, IL PRIMO STADIO NON SI SCORDA MAI

Il rione Luttazzi, conosciuto al grande pubblico per la serie televisiva di L’amica geniale, ha ospitato il Vesuvio, primo e storico stadio della squadra del Napoli Calcio. Inaugurato nel 1930 a pochi chilometri dalla Stazione Centrale, fu completamente distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale dodici anni dopo.
Vita corta per il campo, intitolato successivamente ad Ascarelli, il fondatore della società calcistica partenopea scomparso prematuramente. Oggi a ricordare lo stadio e le sue gesta calcistiche c’è una targa ubicata nella via Vesuvio.

LO STADIO COLLANA

Al Vomero, quartiere collinare della città Napoli, c’è lo stadio Collana che ha contribuito a scrivere la storia degli Azzurri parteonpei negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Pochi sanno che l’ex stadio del Littorio con i suoi 8.000 posti ha ospitato la squadra del Napoli dopo la distruzione dell’Ascarelli sotto le bombe della guerra.
Doveva essere una location provvisoria. In realtà il Napoli ha giocato qui per 17 lunghi anni. Nel 1959 avvenne il trasferimento nel nuovo e grande stadio del Sole, battezzato poi San Paolo.

LO STADIO SAN PAOLO

Batticuore allo Stadio San Paolo, inaugurato nel lontano 1959 e intitolato dal 2020 all’ex capitano del Napoli Diego Armando Maradona. Ristrutturato in occasione dei Mondiali di Italia 90, lo stadio partenopeo è ubicato nel quartiere di Fuorigrotta, il più popolato del capoluogo campano. Nel corso dei decenni è riuscito ad ospitare per una partita anche 90.000 spettatori: si trattava del match tra la Nazionale italiana e la Germania Est del ’70.
Su questo campo si sono disputate partite degli Azzurri entrate nella mitologia del calcio di tutti i tempi. Chi non ricorda la mitica punizione del 1985 che portò alla vittoria gli Azzurri di Maradona contro la Juventus di Platini o il 4-1 del Napoli di Bianchi e Maradona contro il Milan di Sacchi e Van Basten del 1988?

IL CENTRO SPORTIVO PARADISO

A Soccavo c’è una pagina di storia del Napoli Calcio dei tempi di Maradona. Il Centro sportivo Paradiso, costruito nel 1977, è ormai abbandonato e lasciato morire a sé stesso da vent’anni.
Questo luogo potrebbe raccontare annali di allenamenti.
Siete tra coloro che ai tempi frequentavate il quartiere alle pendici della collina dei Camaldoli? Allora avete rubato i palleggi di Diego o portate ancora nel cuore il ricordo dei bambini gioiosi assiepati lì per strappare un abbraccio al loro dio calcistico.

federico salvatore

Azz, non voglio dire addio a Federico Salvatore!

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La notizia della scomparsa prematura di Federico Salvatore, apprezzato cabarettista e chansonnier partenopeo, addolora ogni napoletano che si rispetti. Le luci della ribalta si accesero per Federico una trentina d’anni fa sul palco del Maurizio Costanzo Show. La partecipazione nel 1996 al Festival di Sanremo con il brano Sulla porta fece il resto. Io trascorsi un pomeriggio insieme a lui dentro e fuori gli studi di Radio Club 91, tempo dopo il rientro sanremese. I funerali sono previsti il 20 aprile alle ore 12.30 nella Basilica di San Ciro a Portici. I fan e le persone che gli hanno voluto bene gli daranno l’ultimo saluto.

L’ARTE DI FEDERICO SALVATORE SULLE BANCARELLE

In realtà per noi napoletani Federico Salvatore, 63 anni, è entrato nel cuore nel decennio precedente a quello della popolarità nazionale accompagnata dallo slogan “Azz”. A metà degli anni ’80 sulle bancarelle alla Ferrovia di Napoli, infatti, circolavano le audiocassette con gag e canzoni ironiche insuperabili. Ero alle scuole medie, stavo mangiando una sfogliatella con nonno Pasquale nel vico della ferrovia quando la sua voce uscì da una cassa di un ambulante. Nonno Pasquale rideva “sotto i baffi” e io corsi il rischio di affogare per le risate.
Chiamatele pure arte da bancarella ma gli esordi di Federico Salvatore avevano già chiaro il destino artistico. Diventare un arguto cantastorie e cronista della quotidianità napoletana, quella che se non sei nato all’ombra del Vesuvio non puoi capire.

APPICCICATA O VOMMERO

L’emblematica canzone-macchietta “Appiccicata o Vommero”, un litigio nel quartiere vomerese tra un “chiattillo” della Napoli benestante e un popolano, nascondeva l’amaro campanilismo tra la città bassa e la città alta, che da Posillipo serpeggiava fino in via Santa Teresa degli Scalzi del quartiere Stella, dove Federico Salvatore era nato il 17 settembre 1959. Rispetto a Tony Tammaro e alla sue parodie musicate, Federico Salvatore è stato più capace di affacciarsi in ogni quartiere di Napoli e raccontarne pregi e difetti senza perdere di vista le sfumature della diversità.

IL MIO POMERIGGIO CON FEDERICO SALVATORE A RADIO CLUB 91

Nella primavera del 1996, dopo il trionfale rientro dal palco del teatro Ariston, trascorsi un bellissimo pomeriggio con Federico Salvatore a Radio Club 91, in via Broggia a Napoli, a pochi passi dal teatro Bellini. Io ero agli esordi con la macchina da scrivere. Dopo l’intervista negli studi radiofonici, io e Federico continuammo con una lunga chiacchierata davanti a un caffè: mi donò tanti aneddoti della sua gavetta, i sacrifici spesso incompresi, mi raccontò della nuova casa sul litorale Domitio, del mancinismo che ci accomunava e rise a crepapelle quando gli dissi che all’asilo avevano tentato di curarmi come se avessi una malattia.
E naturalmente ci soffermammo ancora sul testo di Sulla porta, che lo aveva sdoganato dal cliché di chi vuole strapparti la risata facile. Il monologo musicato intenso, che raccontava il delicato momento di un coming out, porta anche la firma di Giancarlo Bigazzi.
Federico Salvatore, che ho rincontrato spesso a teatro – sosteneva che un bravo cabarettista “non deve digiunare del palcoscenico neanche da spettatore” – era schietto, sensibile, empatico. La sua “battuta” nascondeva l’amarezza del cabarettista appartenente a una razza davvero in estinzione, anche quando mi salutò così da fratello maggiore: “Ragazzo, ricorda che uno dei mali del nostro Paese è lo squallido tentativo di distinguere gli artisti in serie A e B.”


FARE IL NAPOLETANO STANCA…

Fare il napoletano stanca…. di Federico Salvatore è una riflessione intensa del 2009 che oggi potrebbe essere il testamento dell’artista. L’avete mai ascoltata? Ci sono due motivi per cui varrebbe la pena tornare a Napoli nei prossimi mesi: festeggiare lo scudetto e urlare sotto la finestra della sua casa a Portici: “Federì, affaccete a sta fenesta e cantece ‘na canzone.”

“Non ho titoli di Dottore
ne divisa di ferroviere
non sono ladro né carabiniere
sono un lavoro umano
che ha ingegno da ingegnere
faccio il napoletano di mestiere
E’ la napoletanità chiusa nel mio DNA
è un passpartù di opportunità.”

Il 19 marzo e l’onomastico che ti restituisce Peppe Tanzillo

In Copertina: Foto di scena di Antonio La Peruta

Dove sono nato e cresciuto l’onomastico non era da meno del compleanno. I nomi ci rendono unici e irripetibili, ci legano a Dio per sempre e noi gente del Sud lo teniamo sempre a mente. Il 19 marzo, San Giuseppe, mi restituisce intatto il ricordo di Peppe Tanzillo, un amico della periferia di Napoli.

PIACERE, PEPPE

Di quella lunga tavolata di Pasquetta nella primavera del 1988, che guardava in lontananza gli stabilimenti della Montefibre di Acerra e dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, ero l’unico adolescente in mezzo ai più “grandi”. Giovanni, Tiziana, Umberto e Vittoria mi sedevano accanto, mi svestirono di quell’aria ingessata e mi fecero sentire a mio agio per tutto il pomeriggio. Tiziana, che sapeva della mia passione sfrenata per la lingua inglese, si alzò di botto, mi condusse dall’altra parte della tavolata e mi presentò un trentenne dalla faccia simpatica, allora insegnante di lingua e letteratura inglese in una scuola paritaria.
“Piacere, Peppe”, esordì lui e cominciò a declamare filastrocche in inglese come se fosse un attore girovago del teatro elisabettiano venuto da un tempo lontano. Io gli feci il verso e mi piantai a stonare il paradigma dei verbi irregolari come se fosse una canzone dei Beatles. Sulla fragorosa risata del “professore dal sorriso sornione” riconobbi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.

SULLA STRADA DI PERIFERIA

Nonostante la distanza anagrafica e le diversità generazionali Giuseppe Tanzillo, in arte Peppe, è stato una delle persone più vere conosciute sulla strada di periferia, in un tempo extraterrestre in cui i legami si sedimentavano “miezz’a via” senza i filtri amorfi della globalizzazione digitale.
Peppe che correva avanti e indietro con le scartoffie scolastiche nella borsa in pelle; Peppe che mi suggerì il dizionario inglese delle frasi idiomatiche che avrei comprato a Londra anni dopo; Peppe che mi presentò la fidanzata – la mia amica Tania delle messe domenicali – e poi moglie per sempre; Peppe che prese dalla culla un fagottino, mi indicò il figlio Vincenzo e io “Vicienzo come Vincenzo Scarpetta?”; Peppe che mi prestò una moneta da 200 lire per telefonare da una cabina pubblica mamma infuriata che mi dava per disperso, mentre noi eravamo su una panchina a tradurre i sonetti di Shakespeare.

GIOSTRA TRA VITA E PERSONAGGI

Peppe, nella vita Giuseppe Tanzillo, ha custodito, dietro la giostra dei suoi personaggi e del suo trasformismo brillante in palcoscenico, l’autenticità della persona lontana dalla superbia e libera dai compromessi a cui è condannato chi deve apparire per non essere sé stesso.
In questa foto di copertina del 1996 – una sorpresa di Domenico Cantore autore del cortometraggio Blù in concorso al Festival del Cinema di Salerno e alla Rassegna Visioni Italiane della Cineteca di Bologna – mi ritrovo ventenne insieme a Peppe quarantenne. Sullo sfondo della periferia di Napoli da protagonista vestiva i panni, lungo lo scivolo di sogni e solitudini, di un fattorino di una piccola tv locale che consegnava i prodotti delle televendite.

MI SENTI, SONO IO…

Questa vecchia foto è incredibile, ci presenta con quelle “inguardabili canottiere” che restano l’anti-sex symbol di noi ragazzi del Sud di ieri, strafottenti del mito di cartone del latin lover.
Oggi, 19 marzo, guardo lo scatto con profonda commozione e mi sembra che il mio personaggio urli a Giuseppe Tanzillo “Mi senti, sono io, mi senti…” nell’assordante rumore di un’epoca frenetica che tende a spazzare via memoria e ricordi, offendendo il bene profondo.
Quando ho capito quale muro fosse a separarmi da Peppe Tanzillo, vi ho ritrovato scolpite queste parole:

Qui ove il fremito delle umani passioni non giunge ed ove l’insana malvagità degli uomini s’arresta, le lacrime e le preghiere dei defunti confortano e sollevano lo spirito.

Un giorno ci ritroveremo, sulla strada.

Per Lucia

Per Lucia ricomincio. Su quel tram verso Bagnoli, in un pomeriggio di dicembre, io nel mio montgomery color cammello e il suo maglione fatto a uncinetto, stretto a lei, a far visita al fratello Nicola. Il tram frenò e i suoi occhi balzarono nello sgomento. Capii allora che la mia bisnonna se n’era andata prematuramente investita da quel maledetto numero 1.

Per Lucia ricordo. A braccetto con la sorella Adele nella Napoli del Secondo Dopoguerra in attesa che le arrivasse una lettera dal suo Pasquale, prima dei giorni bui della prigionia, sognando il matrimonio che sarebbe arrivato quando dalla polvere da sparo sarebbero germogliate rose rosse: “Mia carissima Lucia, in questo momento ho ricevuto il tuo espresso, il quale ha procurato in me grande gioia, sapendoti in ottima salute. Poi ho trovato due foto, per cui ti assicuro che sei uscita magnificamente bene. Sappi che, essendo la mia divisa un po’ grande, ho dovuto portarla dal sarto per farla accorciare. Appena il sarto si deciderà a ridarmela, mi farò delle foto in formato grande e te ne invierò qualcuna. Del resto, sii sempre tranquilla che io ti amo veramente e non ti farò mai alcun torto.”

Per Lucia come nel teatro di Eduardo. Da commerciante ambulante dell’Addà passà ‘a nuttata della Napoli milionaria a commerciante a domicilio quando il marketing era ancora scienza lontana; da moglie, zia, sorella, figlia a madre attenta, premurosa, avanguardista; da matriarca generosa che trasformò la sua casa nel rifugio di aggregazione per familiari, amici, vicini a nobildonna non per titolo ereditario ma per vita vissuta; da impeccabile cuoca napoletana ai fornelli a saggia anziana occhialuta che amava ripetere: “A vita è n’affacciata ‘e fenesta.”

Per Lucia io scugnizzo napoletano. Una notte, sotto un cielo stellato ai Campi Flegrei, fece l’incantesimo. Gettò via il borotalco, mi cosparse dello zolfo della Solfatara, mi fece immergere nell’acqua misto di sale e catrame di Coroglio, mi lasciò tremare tra i movimenti ondulatori del bradisismo di Pozzuoli, spalmò sulla mia lingua la cadenza stretta napoletana affinché nessun maestro di dizione potesse correggerla.
Mi sottrasse alla provincia, cambiò il mio destino, mi cucì addosso un vestito con le canzoni di Piedigrotta e mi fece ad uncinetto un cappellino con le ceneri del Vesuvio. Nella braccia conficcò la terracotta dei pastori di San Gregorio Armeno e, anni dopo, al capezzale dopo aver capito che i giorni era contati, mi disse: “Fujetenne, vattenne. Tu ta cavarrai sempe”.

Venticinque anni senza Lucia sono stati anche 25 vigilie di Natale con lo spaghetto alle vongole tassativamente in bianco, 25 smisurate preghiere su un filo di vento, 25 fette di pastiera mai mangiate, 25 sogni in cui luminosa mi faceva segno di non voltarmi indietro perché c’era lei a un passo da me, 25 punture dolorose tutte le volte che avrei voluto riabbracciarla, 25 poesie mai scritte perché la penna di Salvatore Di Giacomo non mi avrebbe soccorso, 25 volte in un teatro a Napoli senza che mi accompagnasse e tutti puntualmente a ripetermi “Che bella signora, tua mamma!” (In reatà lei mia nonna…), 25 concerti senza la dedica di Riccardo Fogli per lei su un vecchio 45 giri, 25 volte in aereo pensandola accanto a me come quella volta verso Lourdes, 25 volte in auto al casello della tangenziale senza lei che mi diceva “Pigliete sti spicci…”, 25 Festival di Sanremo senza lei che mi raccontava i suoi, il primo alla radio, 25 volte che ho chiesto ad Alexa di darmi le notizie a prima mattina per ritrovare i risvegli assieme e lei che girava la manopola della radio su Rai GR1 notizie, 25 estati al mare senza il suo “Figlio ‘e ‘ntrocchia, je te voglio bene”.

Oggi 29 dicembre chissà se mi riconoscerà per le vie di Milano dopo così tanto tempo, capelli ingrigiti e barba incolta, occhiali appannati come i vetri dell’auto con i tergicristalli rotti, un ago puntato al centro del mio cuore.

Per Lucia, mia nonna.

Gli 80 anni di don Peppino Gambardella, prete ribelle e filosofo delle periferie

Un compleanno speciale racconta in 80 candeline la luce diffusa da un prete di frontiera per la sua comunità. Giuseppe Gambardella, noto a tutti nella sua Pomigliano D’Arco come don Peppino, nel giorno del suo ottantesimo compleanno viene riconosciuto patrimonio della comunità.
Originario di Visciano, nel fazzoletto di terra del nolano di Giordano Bruno, don Peppino ha messo il suo sacerdozio al servizio della periferia di Napoli, diventando il simbolo delle lotte a fianco di operai, emerginati, senzatetto e dei tanti bambini e ragazzi abbandonati a sé stessi a cui aprì le porte della sua Casa Famiglia a loro dedicata.

Seminario di Nola (Na), 1981 (Archivio Privato)

DON CAMILLO ALLA PERIFERIA DI NAPOLI

I miei studi e la sua formazione in filosofia si incrociarono di sbieco e saltuariamente negli anni del liceo ma poi lo persi di vista per ritrovarlo miracolosamente anni dopo. Dico “miracolosamente” perché la mia generazione ha visto frantumarsi i suoi punti di riferimento nel tempo della sopraffazione della contemporaneità tra individualismo, competizione, rincorsa sfrenata verso il futuro.

Terme di Castellammare di Stabia (Na), 1970 (Archivio Privato)

Giuseppe Gambardella è stato l’autentico don Camillo della periferia di Napoli, in simbiosi con il personaggio delle pagine di Guareschi e con le sequenze del piccolo gioiello cinematografico di Duvivier: testardo, impavido, sfrontato, intelligente, umano come il parroco di Brescello nella sfida con “il don Peppone di turno”, che nella sua arroganza da primo cittadino si illudeva di tenere in pugno tutta la comunità accecato dalle schede elettorali e non dalla luce di Dio.

Loppiano, Città dei Focolari (1971) (Archivio Privato)

SACERDOTI PRONTI A DARE LA VITA PER TUTTI

Gambardella ha attraversato il Novecento tenendo a mente le parole di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari a cui aveva aderito fin dagli anni ’60: “Una Chiesa arricchita di sacerdoti-Cristo, sacerdoti-vittime per l’umanità; autentici Cristo, pronti a dare la vita per tutti.”
Il parroco di San Felice in Pincis non si è lasciato illudere dal boom industriale che contagiò il suo territorio alla fine degli anni ’70, tenendo un occhio di riguardo per gli ultimi. Il digiuno a fianco degli operai dello stabilimento dell’ex FIAT di Pomigliano D’Arco negli anni bui della globalizzazione mi ha spalancato un portone di riflessioni, ispirando il sacerdote del mio romanzo L’ultima neve alla masseria. Durante un reading alla Malzfabrik di Berlino ho spiegato che il mio Francesco Giuseppe Gambardino omaggiava un parroco italiano della provincia di Napoli:

Il gesto di Francesco Giuseppe Gambardino fece ripartire parte della produzione, seppure a singhiozzo. Da quel giorno al mio paese si dice che molti operai, al mattino, abbiamo preso l’abitudine di farsi il segno della croce prima di mettere mano sulla catena di montaggio (…)

Potenza, 1970 (Archivio Privato)

IN QUESTA GRANDE IMMENSITA’…

Don Peppino Gambardella è stato un punto di riferimento per tante generazioni, compresi i laici come il sottoscritto. Ciascuno ha intravisto nel cuore del “parroco operaio” di San Felice in Pincis un interlocutore sempre a passo con i tempi tra spiritualità e dialogo, incluso l’uso intelligente dei social media per tenere i contatti con chi vive lontano. Mi tornano in mente le parole del miscredente, amico dei tre pastorelli di Fatima, che rilasciò ai miei colleghi cronisti del tempo, dopo il prodigio in Portogallo, questa dichiarazione: “Solo gli sciocchi continuano a sostenere che Dio non esista”.
In questo 12 ottobre passeggio per una Milano soleggiata e mi sembra di sentire le voci della mamma e della cara sorella di Giuseppe Gambardella, scomparse in giovane età in un incidente stradale, che da lassù sussurrano: “Peppino, Peppino, siamo fiere di te e ti siamo sempre accanto, anche in questo giorno speciale”.

Come biglietto d’auguri ho scelto questa strofa di una canzone a me particolarmente cara, L’immensità di Don Backy, che condensa molto dell’esistenza di ciascuno, anche del don Peppino che tutti abbiamo conosciuto almeno una volta nella vita:

Sì, io lo so

Tutta la vita sempre solo non sarò

E un giorno io saprò

D’essere un piccolo pensiero

Nella più grande immensità

Del suo cielo.

Peppino, Peppino, figlio dell’amore in quale vicolo batterà il tuo cuore…

Questa foto antica degli anni ’30 mi riporta con prepotenza nel cuore della mia Napoli, tra le pagine di storie private che, mattone dopo mattone, hanno costruito l’Italia del secolo scorso.
Le persone comuni come Peppino sono state la calligrafia di queste pagine dell’Italia povera ma bella, prima sotto le bombe della guerra, poi sotto la luce della rinascita, il boom economico degli anni ’50, le feste fatte in casa degli anni ’60 a ritmo di twist, e poi ancora vita, vita, tanta vita.

Peppino, Peppino, figlio dell’amore
In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore
In quale culla di pietra pura
Imparerai, la vita è un’avventura

Peppino è stato questo e tant’altro ancora. Nel centro storico di Napoli lo scambiavano per un attore hollywoodiano. Pochi sapevano che dentro il diluito del suo sorriso si nascondeva l’amore infinito per la madre Concetta, il dolore per averla persa troppo presto, l’essere diventato da un giorno all’altro l’ometto di casa, la sua protettività per la sorella Giulia e il fratellino Ciro.

Peppino, Peppino, tu la dovrai amare
Amare è dura e senza frutti al sole
C’è più coraggio nella fantasia
La vita tua diventa mia

C’è una scena che mi torna in mente tutte volte che penso a Peppino. L’ho immaginata tante volte, decenni dopo, sulle gambe di nonna Lucia. Lui con il fratello e la sorella sul’uscio di casa di mia nonna, in silenzio, come in un fotogramma del cinema di Vittorio De Sica.
L’Italia della rinascita era fatta anche di questo, di accoglienza, dell’amore di una zia per i nipoti, che da quel giorno si fece amore materno, incommensurabile.

E da solo andrai verso il mio domani
Con i tuoi occhi e con i miei occhiali
E non sei solo, solo nell’amore
Peppino dai i tuoi occhi al cuore

Quando penso a quel gesto d’amore del secolo scorso mi convinco che la classificazione e i gradi di parentela restano un’effimera invenzione degli uomini. E oggi più che mai continuo a calpestare le briciole dei vaporosi legami coltivati nei fiumi delle chat di Whatsapp. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di vivere legami densi, come quello tra me e Peppino, deve reagire alla pochezza dei giorni nostri: la vera ricchezza della vita è fatta di legami d’amore costanti e questo tempo in cui sopravviviamo lo ha dimenticato, se n’è privato per rincorrere l’effimero.
Nel vuoto per non averlo salutato l’anno scorso tra lockdown e pandemia, mi sento risollevato dal ricordo come quella volta in cui, dal bancone di una profumeria in via dei Mille, mi prese in braccio e mi presentò con orgoglio al suo titolare.

Cani randagi nella notte scura
La vita, no, non fa paura. (antonello venditti)

Di Peppino ne resterà uno solo in questa vita. Peppino, mio zio.

Carmine D’Amora, il capotreno Trenitalia che fa la differenza in Campania

I deficit del trasporto ferroviario regionale passano spesso ai doveri della cronaca, dimenticando il personale che può fare la differenza. Chi percorre come me migliaia e migliaia di chilometri in treno all’anno in Italia sa bene che il viaggiatore dell’Alta Velocità è più tutelato rispetto a quello di “serie B” del trenino regionale. Se poi capita l’inconveniente la forbiciata è ancora più ampia.

La Campania finisce spesso sotto l’occhio del ciclone per i disservizi del trasporto ferroviario locale, ma non si parla mai delle risorse che possono far luccicare Trenitalia in un momento di criticità.
Carmine D’Amora, ingegnere meccanico con lode di 27 anni, è un giovane Capotreno Trenitalia di Pompei, alla periferia di Napoli. Se non ci fosse stato lui sul treno metropolitano 26059 Caserta-Napoli Campi Flegrei, il ritorno nella terra in cui sono cresciuto sarebbe stato associato ad un venerdì nero: quante sono le probabilità di ritrovare un pacco dimenticato con documenti importanti?

La polizia ferroviaria di Napoli Centrale si è messa in contatto con Carmine, spiegando l’accaduto. Nel tratto metropolitano tra piazza Garibaldi e Mergellina, a prima mattina, il treno era zeppo di passeggeri e il giovane capotreno ha attraversato i vagoni, riuscendo a recuperare il pacco e tutto il suo contenuto. Non ho mai conosciuto di persona Carmine, perché in realtà la consegna è avvenuta in altre mani. Attraverso i social network mi sono messo alla ricerca di questo “eroe della ferrovia” per ringraziarlo e lui mi ha risposto con umiltà: “Ho fatto semplicemente il mio dovere, tutto qua”.

Aveva scritto un tempo lo scrittore e rivoluzionario cubano José Julián Martí Pérez “Aiutare chi ha bisogno non è solo parte del dovere, ma anche della felicità.” Carmine D’Amora lo ha messo in pratica con l’umiltà di chi è andato oltre il proprio dovere.
Un paio d’anni fa la mia Freccia da Milano per Napoli ritardò di mezz’ora. Fu avvertito il capotreno del locale corrispondente, per pochi minuti non volle aspettarmi e persi l’ultima coincidenza per Caserta via Cancello. Mi pagarono un taxi per raggiungere la destinazione. Questo per dire che non tutte le risorse di un’azienda sono uguali.

Viaggiando in 48 Paesi del mondo ho imparato che sul tuo cammino incrocerai spesso persone disposte ad aiutarti. Basta saperle intercettare. La routine e la frenesia ce lo fanno spesso omettere.
In Carmine ho ritrovato riflesso ciò che ero alla sua età, un ragazzo del Sud energico e pieno di voglia di realizzare tanti piccoli grandi sogni. Spero che questo gesto aiuti il suo datore di lavoro e tutti coloro accecati dal pregiudizio a confermare che il nostro Meridione può essere orgoglioso della generazione Millennials che il capotreno di Pompei rappresenta egregiamente.

Diario di viaggio: Neve a Napoli e la spalata di ricordi di Burian

“Chi tene ‘o mare nun tene ‘a neve” non è la rivisitazione di un verso di Pino Daniele quanto la consapevolezza di chi una nevicata l’ha vista di rado nei luoghi in cui è cresciuto. Nel lontano 1985 Napoli e provincia furono totalmente imbiancate ed io, insieme ad alcuni compagni di classe delle scuole medie, rischiai una sospensione per essere scappato in cortile.

I meno audaci tra noi si accontentarono di guardarla dalla finestra, noi no, ci chiedevamo cosa si provasse ad avere quella coltre bianca tra i capelli. Noi quattr’occhi alzammo gli occhi al cielo e ci ritrovammo gli occhiali appannati. L’effetto della neve che si scioglieva sule lenti sembrava una magia bella e pronta. Quel pomeriggio dell’85 volevamo non finisse mai.

Dopo 33 anni esatti Burian, il gelido vento siberiano, fa visita a Napoli nello stesso giorno in cui mi trovo io di passaggio: questa nevicata intensa da una parte seppellisce strade, tetti delle case, o nasconde macchine, dall’altra spala i ricordi. In questo lasso di tempo della mia vita fatta di viaggi e vagabondaggi ne ho vista tanta di neve, ma non è la stessa che si appoggia nei posti in cui sei cresciuto.

La neve non prende forma, piuttosto dà forma ai ricordi e produce quella condensa che non fa rumore e si deposita negli angoli più fitti dell’anima: penso all’ultimo fischio del ferroviere Giovanni che se n’è andato per sempre dopo la bufera o al medico di stamattina che ha condiviso con me un fotogramma della fioccata dell’85, vissuta da neolaureato volontario in ospedale, bloccato in un autobus al Vomero.

La neve si ghiaccia sui marciapiedi e il rischio più grande è la scivolata. Io e Pasquale, amico dai tempi dell’adolescenza, siamo scivolati sul ghiaccio dei ricordi con la matura presa di coscienza che rinchiudersi in sé stessi è uno dei morbi più pericolosi di questo tempo.
Burian ha piegato l’Italia nella morsa del gelo e ha restituito alla mia generazione che visse la nevicata dell’85 a Napoli il ritrovarsi nel nome dei sogni comuni difesi a denti stretti come la scorciatoia per tornare ad ascoltare i passi della vita che qualche volta come la neve non fanno il minimo rumore.

Aveva ragione Giovanni il ferroviere quando disse a me e al figlio Antonio, nel cortile di casa sua, che al di là dell’euforia da ventenni l’amicizia con le radici non evapora. “Chi tene ‘o mare nun tene ‘a neve”, ma chi sa dialogare con la propria memoria senza rimorsi e rinnegamenti saprà incantarsi ancora di fronte alla prossima nevicata, a Napoli, nei posti che ti hanno reso l’uomo che sei.