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L’altro Cesare Maldini nelle movenze del grande comico: “Ciao Paolino.”

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Rosario PipoloLa vecchia scuola calcistica non saltellava sotto i riflettori accecanti dello star-system dei nostri giorni. Prendi un Cesare Maldini, distante anni luce dalla chiassosa estroversione del simpatico Oronzo Canà, allenatore nel pallone del grande schermo di più generazioni.

Come fai ad affezionarti ad un allenatore, per giunta ex calciatore, se neanche lo hai conosciuto, spinto lui nella sua riservatezza? Aspetti che la sua controfigura, un comico eccellente alla Teo Teocoli, faccia tutto il resto.
Quando intervistai Teocoli una decina d’anni fa allo Smeraldo di Milano, puntualizzò: “Certi personaggi ti riescono meglio, perché puoi aver avuto il privilegio di condividere con loro storie di vita”. Si riferiva chiaramente all’amicizia con Cesare Maldini.

Oggi “Ciao Paolino”, più che un tormentone, ci appare come un passpartout per guardare a distanza ravvicinata una bandiera del calcio italiano.
Il grande comico non è quello che ti lascia la scartoffia per riderci sopra. Il grande comico, che ha davvero stoffa come un Teo Teocoli, è la bussola per orientare, in ogni democrazia che si rispetti, la risata verso la scoperta dell’altro. E’ un solvente attraverso cui evaporano quelle tracce di umanità che i ruoli, anche in un campo di calcio, mettono in ombra.

Il calcio italiano deve tanto a Cesare Maldini, ma noi siamo riconoscenti a Teo Teocoli per averci restituito la persona senza l’involucro del personaggio.

Ci mancherà Enzo Bearzot e l’Italia che faceva squadra

Prima ancora che il calcio fosse annebbiato dalla tangentopoli dei pallonari, c’era la compostezza di Enzo Bearzot. Prima ancora che gli stadi fossero affollati da grezzi sbruffoni, c’era lo stile di Enzo Bearzot. Prima ancora che le rincorse emotive dietro un pallone si riducessero ad una ingordigia di violenza, c’era la sportività di Enzo Bearzot.
Come calciatore se lo ricordano in pochi, quei quattro gatti legati alle cronache sportive in bianco e nero del Belpaese del secolo scorso. Come Commissario Tecnico se lo ricordano in tanti, perché nel 1982 ci fece sognare ai Mondiali di Spagna con la Nazionale Italiana Campione del Mondo. In quell’occasione ci sentimmo eroi invincibili per più di una stagione, perché è vero quando si dice che tra gli spalti di uno stadio si assiepa lo specchio sociale. Quest’Italia di oggi, furbetta e cinica, è figlia di un’Italia che tentava di rifarsi la faccia attraverso il sorriso sornione del partigiano romantico, il Presidente tifoso Sandro Pertini. Questione di stile, in politica come nel calcio?
Allora Bearzot c’entra con Pertini. C’entra perché fu testardo a credere nei nuovi campioni – i Tardelli, i Rossi, gli Zoff, i Cabrini – non attraverso l’edonismo degli allenatori globalizzati, bensì nel vero gioco di squadra che si fa bilanciando il tatticismo della testa con la passione del cuore. Quello di Vecio era un altro calcio, quello dello stare assieme. Enzo Bearzot ci mancherà perché oggi ognuno vuole vincere da solo, ad ogni costo. Lui ci ha dimostrato che, nel gioco come la vita, lo scintillio di una vittoria condivisa vale più di qualsiasi altra gloria subordinata al becero individualismo.

Mondiale 2010, la disfatta dell’Italia dentro e fuori dal campo

Questo è iniziato come un Mondiale strabico oserei dire: l’uscita della Francia di Domenech, l’instabilità dell’Inghilterra di Capello, gli sgambetti alla Germania battuta dalla Serbia e, infine, la disfatta dei Campioni del Mondo del 2006. Quei Campioni eravamo noi e l’uscita della Nazionale italiana da Sudafrica 2010 ci fa pensare. I bocconi amari li abbiamo già ingoiati nel fine settimana, prima dei titoli apocalittici della stampa italiana e internazionale.
Marcello Lippi ha abusato della sua testardaggine, ha fatto il despota, si è concentrato su calciatori provenienti dalla stessa famiglia calcistica, ha messo in panchina il tatto “tattico”, ha fatto il sentimentale quando occorreva essere arroganti in campo, ha messo in atto il malumore in una squadra che non ha portato a casa una vittoria. Non è mai successo e una figuraccia così l’Italia non la faceva dal 1974.
Il calcio italiano si interroga e mette in discussione la macchina potente che la tiene in piedi. I soldi e il potere corrono dietro ad un pallone in un business che rispecchia il malessere dell’intero Paese, nel braccio di ferro tra l’abusivismo della politica e l’autorevolezza delle istituzioni. E a far uscire fuori dai giochi gli Azzurri non sono state le gufate dei “secessionisti” o di chi vorrebbe che il Belpaese mischiasse le carte in tavola tra il patimento dei sudisti e l’aggressività dei nordisti. E’ lo stato confusionario che ci accerchia da troppo tempo, è l’assenteismo cronico di punti di riferimento, è l’ombra del tiranno che manovra le nostre coscienze, perché la partita si gioca tutta qui: dentro un campo c’è lo sport, fuori dal campo c’è la metafora della vita e la sua perdita di credibilità.
Io non mi sento italiano – così cantava Giorgio Gaber – per lo strapotere dei calciatori, ma perché la mia generazione non riesce a trovare la traiettoria giusta per segnare almeno un gol, che ci fascia uscire da questo inferno che arde sotto i nostri piedi. La palla tornerà al centro prima o poi, ma a calciarla chi ci sarà?