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Palermo senza Falcone: io prigioniero nel Palazzo dei Normanni

Trent’anni dopo la strage di Capaci, resto prigioniero nel Palazzo dei Normanni di Palermo. Mentre il capoluogo siciliano si accinge alle commemorazioni per l’uccisione del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta, io salgo e scendo lo scalone del palazzo in cui aleggia ancora la presenza di Federico II.
Mi defilo, mi nascondo tra i colonnati, mi siedo sulla scala e penso a dove mi trovassi il 23 maggio 1992, quando al telegiornale diedero la tragica notizia: ero immerso nella preparazione dell’esame di maturità.

IO VI PERDONO, PERO’ VI DOVETE METTERE IN GINOCCHIO

E pensare che la mia ultima volta a Palermo la residenza reale più antica d’Europa era una bellezza da contemplare tutta all’esterno. Ora ci sono dentro, ne attraverso le stanze non da turista ficannaso ma da viaggiatore alla ricerca di glorie remote in oltre duemila anni di storia.
Dalla finestra spingo lo sguardo fino al centro storico di Palermo, in lontananza le facce degli studenti del Vittorio Emanuele, in cui insegnò don Pino Puglisi, un altro martire di Cosa nostra. Non riesco a leggere gli striscioni dedicati a Falcone degli studenti palermitani, che trent’anni fa non erano nati ancora.

L’ARTE CI SALVERA’ DALLE BRUTTURE DI QUESTO MONDO?

Ho in testa il rumore delle bombe di Capaci – ricordo quando mi accompagnarono nella zona dell’attentato nell’estate 2007 – e le parole di rabbia e dolore di Rosaria Schifani, vedova della scorta, “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio.”
Trovo rifugio nella Cappella Palatina, magnifico dono del monarca Ruggero II di Sicilia, una bellezza indescrivibile da procurarmi un lungo batticuore. Di fronte a tanta bellezza, affogo improvvisamente nell’amletico dubbio: l’arte continuerà a salvarci dalle brutture di questo mondo?

GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO

Nel giardino del Palazzo dei Normanni, sosto sotto un albero. E’ enorme rispetto a quello in via Notarbartolo 23, sotto casa di Giovanni Falcone. Se ci penso, con le sue radici enormi, assomiglia all’eredità di questo martire della Mafia: così radicata da spingere i più giovani a calpestare uno dei peggiori morbi di una società civile, l’omertà.
Gli anniversari servono anche risollevare la salivazione amara che ti fa guardare il bicchiere mezzo vuoto: cosa non abbiamo fatto allora per salvare i giudici Falcone e Borsellino? Cosa non hanno fatto lo Stato, le istituzioni, la classe politica di allora?
La loro morte feroce per mano della Mafia rimane una delle sconfitte più lapidari dell’Italia della Prima Repubblica.
Da dietro l’albero nel giardino del Palazzo dei Normanni sbuca un bimbo dal sorriso vispo, sgambetta verso la madre che gli va incontro, risento queste parole:

“Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”

GIOVANNI FALCONE

Il mio 23 maggio, lontano dai simboli, dai cortei, dai cerimoniali, prigioniero della bellezza del Palazzo dei Normanni.

Scusate il ritardo: Giovanni Falcone e le scadenze di un Anniversario

Questo post lo leggeranno in pochi. In Italia la memoria ha una maledetta scadenza: il giorno dell’anniversario.
Alcune estati fa, mentre i palermitani si arrostivano sotto il Solleone di Mondello, mi afferrarono per pazzo. Mi feci accompagnare in motorino al camposanto di Santo Spirito a Palermo. Chi vuoi che ci fosse al cimitero in un’afosa mattina d’agosto? Una coppia di beccamorti e un tizio all’entrata. Quest’ultimo mi guardò infastidito quando gli chiesi indicazione per la tomba del giudice Giovanni Falcone. Da dietro gli occhiali scuri mi rimproverò come a dire: “Se ne vada pure lei a mare ad abbronzarsi”. In effetti ero pallido come una mozzarella.

Pensavo di trovare lì la stessa fiammella, sempre accesa, che avevo visto a Washington sulla tomba del Presidente Kennedy. Avrebbe tradotto alla perfezione questo pensiero del giudice ammazzato a Capaci dalla Mafia il 23 maggio di vent’anni fa: Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”
Era cappella come tante altre, con qualche fiore insecchito lasciato da qualcuno. Sporsi il capo all’interno e, leggendo i nomi sulle lapidi, mi convinsi che non avevo sbagliato luogo. Quella mattina d’agosto, girovagando nel centro storico di Palermo, ebbi la sensazione che Giovanni Falcone fosse uno qualunque. Eppure, qualche anno prima, ero passato nel capoluogo della Sicilia proprio a ridosso della marcia commemorativa dedicata a Falcone e Borsellino. Mi chiedo: la memoria ha bisogno dei rimbalzi emotivi dell’anniversario? Ieri i social nwtwork sono stati invasi da immagini e parole dedicate al magistrato ammazzato. E adesso? Dopo il ventennale della morte di Paolo Borsellino, quanto ci toccherà aspettare?

Un anniversario rischia di arrugginirsi in fretta quando non seminiamo memoria nella quotidianità, traducendo l’iconografia dei due magistrati martiri nelle minuscole concretezze del quotidiano: adottiamo console di videogame come babysitter dei nostri figli, invece di tradurre in fiaba il significato del coraggio; continuiamo a scambiare farabutti per eroi, invece di valorizzare le azioni invisibili dell’eroismo comune; lasciamo che i ricatti dell’invisibile illegalità entrino nel nostro quotidiano e per omertà chiudiamo un occhio, anzi due; ci illudiamo che mai nessuno alzerebbe le mani contro una scuola, senza mettere in conto che la lucida follia di un bombarolo potrebbe fare di tutto il contrario di tutto. Ogni mattina dovremmo dedicare un minuto di silenzio ad eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, perchè se possiamo guardare diritta negli occhi la persona che amiamo e sussarle “ti amo”, è anche grazie al loro atto d’amore verso un’ingrata civiltà, la nostra.