Il funerale

Da bambino ero irrequieto, ma ho imparato la compostezza ad un funerale. Qualche volta mio padre mi portava con lui e rimaneva stupito di come diventassi serio per l’occorrenza. Restavo in silenzio ad osservare tutti, a decifrare il significato delle lacrime. Poi mi soffermavo su quella cassa di legno. Mi ero convinto che tutti gli alberi, abbattuti nei frutteti delle campagne della mia terra natia, avvolgessero con la loro legna i defunti.
Che bizzarra idea mi ero fatto. Crescendo ho avanzato una spiegazione alla mia teoria infantile. Se da quel legno gli alberi fossero rinati, avrebbero rivestito con un manto di foglie verdi l’involucro, che ingabbia l’umanità della morte.
Ieri mattina ero in un obitorio della Lombardia. Prima che arrivassero i parenti, mi sono trovato da solo con il defunto. Non ho osato aprire la porta, perché non l’ho mai conosciuto di persona. Ero immobile al di là di una parete a chiedermi cosa ci accomunasse: essere figli del Sud Italia.
Da piccolo pensavo che, chi morisse fuori dalla terra-madre, ritornasse al suo paese, tra la sua gente. Non accade sempre così. Sottovoce ho chiesto al defunto se volesse andare via da qui, ma lui non ha risposto. I morti non parlano, o perlomeno così pensiamo.
Al termine delle esequie, ho avuto la risposta. Sulla bara ho visto spuntare un bonsai e mi è tornata in mente la mia teoria infantile, che ripetevo a mio padre: quando i nostri cari ci lasciano, dovremmo piantare un alberello nel luogo in cui viviamo, perchè loro non stanno mai nello stesso posto.
Scappando via, di corsa verso la stazione, ho incrociato un’anziana signora che rimproverava il figlioletto: “Giuseppe, non imbrattare il muro con la bomboletta spray”. Il bambino, dopo avermi sorriso, ha replicato con tono deciso: “Mamma, non l’ho mai svelato a nessuno. Da grande voglio disegnare alberi per non essere mai nello stesso posto. Quest’albero è per te, per le mie sorelle. Tenetemi con voi, per sempre”.


Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.