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Racconto d’estate: L’ultimo angelo in volo su Istanbul

La nave sbarcò con un quarto d’ora d’anticipo e la donna, puntando il dito sulle cupole che sovrastavano Istanbul, spiegò alla bimba: “Io e papà siamo venuti qui in viaggio di nozze l’ultima volta”. Non fecero neanche in tempo a farsi travolgere dai frastuoni di prima mattina, che un taxi le balzò a fianco. “Dove vi porto?”, urlò dal finestrino un turco sulla quarantina. La donna afferrò la bambina per mano e saltò nell’auto. Diede all’uomo un foglio di carta scarabocchiato con un itinerario, indicandogli di rispettare il percorso.
Mentre l’auto solcava Istanbul, la bimba aveva gli occhi sgranati: il fasto delle moschee, l’eleganza di Santa Sofia, le bancarelle del Gran Bazar che accostava a quel del mercato sotto casa sua, i bistrot sparsi a Beyoglu. Il tassista incrociò gli occhi della piccola attraverso lo specchietto retrovisore ed esclamò: “Sei uguale al professore napoletano!”. La donna saltò dal sediolino e replicò: “No ci credo. Kadir, ma sei proprio tu?”.

Era lo stesso tassista che alcuni anni prima l’aveva portata a scoprire la città turca assieme al suo sposo. E poi solo Kadir lo aveva battezzato “il professore”. Sosteneva che conoscesse Istanbul meglio di lui che c’era nato. La donna gli spiegò perché il marito non fosse con lei, perché si era ostinata a fare quel viaggio, il dolore che aveva avvolto la sua vita a causa di quella perdita. L’uomo raccontò di avere ancora da qualche parte il disegno che il professore napoletano gli aveva regalato: raffigurava un famoso attore napoletano, protagonista di un divertente film dal titolo “Un turco napoletano”.

Questa nube di aneddoti e ricordi fu spazzata via da un uomo che bloccò l’auto: “Mi scusi. Mi fa salire, vado di fretta?”. Kadir gli fece segno di no perché il taxi era già occupato. La donna intervenne: “Fallo salire pure, tanto ormai il nostro tempo a disposizione sta per terminare. La nave riparte alle quattro e mezzo in punto”. Lo sconosciuto restò in silenzio per tutto il tragitto. Aveva un cappello che gli copriva il capo. Con la coda dell’occhio notò che la bambina osservava le sue spalle, erano identiche a quelle su cui si arrampicava quando giocava con il papà.

Arrivarono al porto. Kadir scese dall’auto, abbracciò la donna e la piccola, donando loro un piccolo portafortuna. La donna e la figlioletta si recarono verso la nave. Il tassista si voltò verso l’uomo, chiedendo: “Dove la porto?”. E lui rispose: “Sono arrivato a destinazione”. L’uomo tirò fuori un disegno e lo mostrò al tassista: “Kadir, era questo il disegno di cui parlavi prima in auto? Che sbadato sei, lo avevi perso durante l’ultimo trasloco”. Il tassista con le lacrime agli occhi lo riconobbe ed esclamò: “Professore!”. E lui concluse: “Non tremare, Kadir. I morti non fanno paura, i vivi sì. Quando ero piccolo mio nonno mi disse che quando saremmo andati all’altro mondo, il Signore ci avrebbe concesso un ultimo viaggio qui. Prima del trapasso mi sono ricordato di questa diceria popolare, e ho scelto Istanbul per rivedere la donna che amo e mia figlia. Ho sperato fino alla fine che non annullasse il viaggio. Lei è una testarda, sapevo che sarebbe venuta perché era il mio ultimo desiderio”. Kadir, incantato a guardare il disegno, non si accorse che l’uomo scomparve nel nulla. Lo distolse il fischio della nave che stava salpando e un arcobaleno che avvolse tutta Istanbul, unendo la parte asiatica a quella europea. Dalla nave la bimba disse alla mamma: “Mamma, mamma, mamma. Guarda l’arcobaleno. Ha gli stessi colori che usava papà per dipingere i suoi quadri”.

Tutto questo accadde ad Istanbul l’ultimo mercoledì di giugno. E da quella volta si dice che chiunque voglia ritrovare un amore, debba girare in tassì, in questo giorno, attraverso la città turca.  Più che una leggenda, è una speranza. Quella fu l’ultima volta che qualcuno vide un angelo volare su Istanbul.

Cartolina da Istanbul

burka

Rosario PipoloL’unica amica turca si è trasferita in Canada e così non avevo nessuno che mi guidasse in questa affacciata in Turchia. Arrivare ad Istanbul alle 6 del mattino, dopo otto ore di autobus, è un’esperienza unica: l’alba che si alza sulla città sembra uscita da un acquerello e il brusio delle persone mattiniere in centro diventa il sottofondo insostituibile di un fine settimana d’agosto. Istanbul ce l’ha la faccia di Napoli e, cazzeggiando tra la sponda europea e quell’asiatica, ritrovo i vicoli della mia città. “Nu turco napoletano” sogghignò Eduardo Scarpetta (rivedete pure il film di Mattioli con Totò!) e poi dice che ogni mondo è paese, anche se al posto dei calzoni fritti o delle pizze accartocciate ci sono i kebab. Ci sono le dovute eccezioni naturalmente: il burqa ad esempio. E immaginare le nostre ragazze “ciacione” partenopee andarsene in giro tutte coperte è roba fantascientifica. Scherzi a parte, la Turchia si vanta di avere abbandonato da un pezzo gli estremismi dell’Islam. E non mi riferisco al semplice velo sul capo delle donne, ma al così detto “burqa afgano”, che copre le donne dalla testa ai piedi. Purtroppo in giro ne ho viste decine e decine di donne e ragazze coperte integralmente. Non era l’abbigliamento a mettermi a disagio, bensì provare a dare un senso a quella scelta. Mi sembrava di essere più in Iran che nella Turchia che immaginavo, quella che anela ad entrare nell’Unione Europea. La convivenza pacifica con l’Islam è un gradino obbligato per sentirci “europei” nel XXI secolo, ma l’accettazione del burqa integrale è un’immagine che voglio cancellare dalla mia cartolina da Istanbul. Un paese che sbandiera la sottomissione della donna e nasconde ancora scheletri nell’armadio (il genocidio armeno)  è davvero maturo per far parte di quell’Europa che eleva i valori di eguaglianza e rispetto reciproco?