Cartolina da Istanbul

burka

Rosario PipoloL’unica amica turca si è trasferita in Canada e così non avevo nessuno che mi guidasse in questa affacciata in Turchia. Arrivare ad Istanbul alle 6 del mattino, dopo otto ore di autobus, è un’esperienza unica: l’alba che si alza sulla città sembra uscita da un acquerello e il brusio delle persone mattiniere in centro diventa il sottofondo insostituibile di un fine settimana d’agosto. Istanbul ce l’ha la faccia di Napoli e, cazzeggiando tra la sponda europea e quell’asiatica, ritrovo i vicoli della mia città. “Nu turco napoletano” sogghignò Eduardo Scarpetta (rivedete pure il film di Mattioli con Totò!) e poi dice che ogni mondo è paese, anche se al posto dei calzoni fritti o delle pizze accartocciate ci sono i kebab. Ci sono le dovute eccezioni naturalmente: il burqa ad esempio. E immaginare le nostre ragazze “ciacione” partenopee andarsene in giro tutte coperte è roba fantascientifica. Scherzi a parte, la Turchia si vanta di avere abbandonato da un pezzo gli estremismi dell’Islam. E non mi riferisco al semplice velo sul capo delle donne, ma al così detto “burqa afgano”, che copre le donne dalla testa ai piedi. Purtroppo in giro ne ho viste decine e decine di donne e ragazze coperte integralmente. Non era l’abbigliamento a mettermi a disagio, bensì provare a dare un senso a quella scelta. Mi sembrava di essere più in Iran che nella Turchia che immaginavo, quella che anela ad entrare nell’Unione Europea. La convivenza pacifica con l’Islam è un gradino obbligato per sentirci “europei” nel XXI secolo, ma l’accettazione del burqa integrale è un’immagine che voglio cancellare dalla mia cartolina da Istanbul. Un paese che sbandiera la sottomissione della donna e nasconde ancora scheletri nell’armadio (il genocidio armeno)  è davvero maturo per far parte di quell’Europa che eleva i valori di eguaglianza e rispetto reciproco?

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