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Archives Luglio 2012

Diario di viaggio: James Holmes, la strage di Denver e la colpa degli USA

Gli Stati Uniti restano una delle mete preferite dagli italiani, che poi finiscono nel solito cliché del vacanziero: la spiaggia di Miami, il parco giochi di Orlando, il memorial di Ground Zero o le luci della ribalta di Hollywood. Eppure c’è un’altra America, l’America per eccellenza, quella di “Non è un paese per vecchi” – raccontata spietatamente dai Fratelli Cohen nell’ominimo film. Forse in quella ciurma di farabutti ci starebbe bene pure il folle James Holmes, che ha messo in piedi la tragedia estiva d’oltreoceano: morti e feriti durante la proiezione di un film in un cinema di Denver.
Guardando in tv la faccia spaurita del killer, avvolta dai capelli rossi, mi è sembrato di rivedere il ghigno malefico di Joker. E ci risiamo, di nuovo a parlare di cinema. La strage di Denver è avvenuta durante la proiezione del nuovo Batman e quindi l’America prova a giustificarsi. Questo film è maledetto così come la pellicola del 2007 di Il Cavaliere Oscuro, in cui l’attore Heath Lodger vi trovò la morte.

Allora, non è che vorremmo addossare la colpa dell’ennesimo seme di follia yankee all’eroe a fumetti creato nel 1939 da Kane e Finger? L’America bacchettona degli anni ’50 mise a tacere la latente omosessualità che sprigionava Batman (il legame ambiguo con Robin sfiorava la pedofilia), mentre la generazione che si scatenava sulle note di Born in the USA di Springsteen ammise una volta e per sempre che “Il cavaliere oscuro” stigmatizzava le penombre di una nazione, incapace di fare i conti con le sue contraddizioni.

Tornando all’assassino, James Holmes è vittima o carnefice? Forse tutti e due assieme, perché è figlio di una landa desolata – This is America! – che condanna con la pena di morte i piccoli mostri che lei stessa ha generato, facendoli diventare giustizieri della notte. Gli USA, questo Barack Obama dovrebbe ricordarlo, ti permettono prima di andare in un negozio a fare scorte d’armi. Avvenuta l’apocalisse, si lavano le mani mandandoti al patibolo. La libertà statunitense, ammalata di malsano individualismo, può essere camminare con un’arma da fuoco in tasca? Non chiedetelo a James Holmes, ma ai singoli stati che hanno fatto passare la legge del pistolero.
L’America ha prodotto una marea di film e non solo per colorare i nostri sogni. E questa volta proprio il cinema le ha tirato un colpo basso.

Diario di viaggio: “Senza pregiudizi, così vorrei amare”

Sono arrivato nel loro studio alla periferia d Napoli in un lunedì d’estate. Sarà stata la scusa di chiedere ad una psicologa ed un’educatrice come si può fare a cancellare la sindrome per cui, nel primo giorno della settimana, sono assalito dall’ipocondria. Scherzi a parte, il motivo della mia visita era un altro. Anna Riva ed Eugenia Russo trasformano storie di vita vera in fiabe.
Lo slogan “Una fiaba per te” è una sorta di provocazione terapeutica che potrebbe aiutarci a raccontare i legami intensi che ci fanno affrontare meglio il quotidiano. Sappiamo bene che un legame è in continua trasformazione e una fiaba invece lo coglie nella sua sospensione.

Senza far passare la nostra conversazione per un’intervista, ho chiesto in modo sfrontato: “Cosa impedisce ad una fiaba di staccarsi dal ramo della sospensione e tornare ad essere una foglia di vita vera?”. Anna ed Eugenia tengono a precisare che non danno risposte attraverso i loro racconti, ma provano a guidare il lettore. Allora mi è venuto in mente il pregiudizio di chi continua ad alimentare la diceria che una fiaba sia robetta per bambini.

A questo punto ho fatto una riflessione: sono proprio i pregiudizi a privare una fiaba di tornare ad essere uno stralcio di vita vera, di quotidianità vissuta, perché sono loro che impediscono a qualsiasi legame di crescere. Il pregiudizio che chi ci sta di fronte non sarà mai capace di cambiar rotta con l’aiuto dell’altro; il pregiudizio che la diversità non sia lo stimolo dell’arricchimento reciproco; il pregiudizio che nel rapporto di coppia uno dei due debba per forza finire sul banco degli imputati.

Lasciando lo studio di Anna ed Eugenia, mi è tornata in mente una canzone di Giorgio Gaber. L’ascoltai per la prima volta nel ’94 in occasione del teatro-canzone E pensare che c’era il pensiero. Da allora non ho mai smesso di riascoltala al buio, fissando gli occhi sulla lucina rossa del mio giradischi: “Quando sarò capace d’amare mi piacerebbe un amore che non avesse alcun appuntamento col dovere; un amore senza sensi di colpa, senza alcun rimorso, egoista e naturale come un fiume che fa il suo corso”.
In camerino con il Signor G parlai proprio di questo brano, Quando sarò capace di amare per l’appunto. E forse oggi mi lascerebbe chiudere questa meraviglia a modo mio: “Senza pregiudizi, così vorrei amare”.

50 anni di Rolling Stones: da un’audiocassetta al concertone con 15 euro!

Negli anni ’60 o stavi con i Beatles o con i Rolling Stones. Non esistono le mezze stagioni, nella musica come nella vita. Per la mia generazione è stato diverso. I Beatles si erano sciolti da un bel pezzo, mentre Mick Jagger e compagni con alti bassi continuavano a darci dentro, anche in maniera pesante.
I Rolling Stones festeggiano 50 anni in questo afoso 12 luglio. Per me questo non è il solito anniversario nostalgico, annacquato dal marketing della discografia musicale, ma la solita scusa per propagandare che certi brani balzano di striscio nella nostra vita e ci cambiano dentro.

Ho conosciuto gli Stones attraverso un’audiocassetta Maxell 60 che mi fece ascoltare Bob Bridger nel 1988. Succedeva proprio in questi giorni: era il mio primo viaggio in Inghilterra, a Ramsgate nel Kent. Sul lato A c’erano i Beatles e su lato B gli Stones. Ero un adolescente irrequieto e romantico, mi attaccai alla gonnella delle canzoni dei baronetti di Liverpool. Eppure Mick Jagger e compagni non mollarono mai la presa, me li ritrovavo sempre, soprattutto quelli degli anni ’70, che nel mio ciclo universitario fecero da scudo a chi invece, tifando per il rock grezzo e potete del Vasco di Zocca, diceva che le canzoni andavano ascoltate in italiano.
Cavolo, figurati se uno studente come me di Lingue Straniere si sarebbe sottomesso ai ricatti linguistici. Io la pensavo in tutt’altro modo: anche se non conoscevi l’inglese, certe canzoni aggressive dei Rolling Stones si scioglievano dentro di noi come l’acido. Per loro rischiai l’ultimo esame di Inglese all’Università: dinanzi ad una mini partitura tra le prime pagine dell’Ulisse di Joyce, me ne uscii con questa affermazione: “Se Joyce fosse venuto parecchi decenni dopo, forse qui ci avrebbe piazzato una canzone dei Rolling Stones per esprimere lo smarrimento di Leopold”.

Forse il prof. fece finta di non sentire e non mi buttò fuori dall’aula. Quando li ho visti dal vivo a Milano l’11 luglio del 2006, acquistando il biglietto a 15 euro e beffeggiando chi voleva far passare la musica live come roba da ricchi – scrissi alla fine della recensione: “Fuochi d’artificio, lapilli di luce, schegge irrazionali per dirci che l’incantesimo è finito, che per una volta ci siamo sentiti invincibili perché abbiamo varcato la soglia dell’eternità. E se questo è stato un sogno, un sogno collettivo adesso appartiene a tutti. Teniamocelo stretto”. Mezzo secolo ce lo siamo fatto scivolare dalle dita con errori e mostruosità. I sogni e le canzoni però teniamoceli stretti e non solo nel giorno di un compleanno.

Heineken Jammin’ Festival, quando la musica accorcia le distanze tra le utopie

Diversi anni fa avevo scritto che l’Heineken Jammin’ Festival non stava bene a Venezia, doveva traslocare altrove, magari nella cornice paesaggistica dell’Oltrepo pavese. Nella peggiore estate musicale che Milano abbia mai avuto – ci resterà soltanto l’instagram del mega concerto di Springsteen a San Siro – è stato davvero un atto generoso portare questo raduno in quella che Mecca musicale non è più da un pezzo.

Pardon, parlo di “raduno” perchè ormai tutti fanno abuso della parola Festival, pensando che ammucchiare qualche big su un cartellone metta in piedi un happening. Al di là della Manica e dell’Oceano Pacifico ci hanno sempre dato tante lezioni in materia (smettiamola di rifugiarci solo nella tana woodstockiana),  ma noi abbiamo fatto orecchie da mercante: il Festival non è l’esibizione live, ma è anche quello che accade prima, durante, dopo. E’ l’esplosione della socialità, della condivisione, dell’incontro in un fazzoletto di terra che fa ritrovare persone così diverse da convincersi che la musica sa fare ancora miracoli.

Quando ho visto con i miei occhi che l’Heineken Jammin’ Festival ha trasformato la giungla d’asfalto della Fiera di Rho, relitto futurista del traballante Expo che chissà mai se arriverà, in un prato fiorito, mi sono detto: quanto fanno davvero le istituzioni per tutelare eventi come questo? E i fiori che ho visto io non erano rose, margherite o violette, ma gli steli e i petali di più generazioni che denudavano su un tappeto quelle concessioni emotive a cui tutti abbiamo diritto.

Le tre ore dal vivo dei Cure resteranno nella storia perchè sono accadute in quel contesto, perché il bagno di folla – e se n’è accorto anche Robert Smith – non era lì per mettersi a caccia del riverbero remoto del post-punk, ma per spodestare dai troni chiunque si ostini a non credere che la musica unisca e accorci le distanze tra le utopie. Del resto più di trent’anni fa in pochi notarono che il punk rabbioso di Smith e compagni schiaffeggiò per primo il Thatcherismo, una tra le età peggiori della politica anglosassone. Questo per dire che ad un festival si può spingere l’acceleratore al di là della cortina emotiva del brano che ci smuove dentro.

Qualche inverno fa bussò il postino alla porta di casa mia e mi consegnò un pacco. Era un regalo di una cara amica, allevata dal mio stesso Sud.  Conteneva una bottiglia gonfiabile di una birra, l’Heineken per l’appunto, il cui sapore mi solleticava stravaganze di gioventù nella mia Napoli. Quel gesto non l’ho mai dimenticato, perché è vero che il gusto di una birra intinge le dita nella memoria proustiana – e in questo il buongustaio Alfredo Pratolongo potrebbe concordare con me – ma è anche vero che bisogna riconoscere il merito a chi tutti i giorni si sforza di trasformare un brand in un luogo di socialità sotto il mantello della musica.

La fotografia dal pixel alla carta: futuro e interiorità

L’altro sera ho visto una coppia litigare in un megastore, perché lei sosteneva che avrebbero dovuto acquistare più memorie SD per la macchina fotografica. Mi pare di aver capito che, in procinto di una vacanza dall’altra parte dell’oceano, avessero messo in conto più di 2000 scatti. Questo mi ha fatto pensare a quando una volta facevamo foto con una reflex e un rullino che ci indicava un limite di pose, privandoci persino di un’anteprima immediata. Io ero il tipo che si portava dietro le pellicole da 36!
Non è una fuoriuscita nostalgica per un approccio che ormai sembra roba del secolo scorso. Piuttosto è la consapevolezza che la smania di digitalizzare questo straripamento di immagini rischia di far perdere il vero grande pregio di una fotografia: la loquacità della nostra interiorità.

Mi spiego meglio. I social network hanno accelerato questo processo di istantaneità – un tic dal nostro smartphone e poi subito l’upload per la condivisione – e hanno mandato in frantumi il tempo necessario affinché una posa dell’attimo presente seguisse l’andamento dei passi dell’istante vissuto. Troppo romanticismo nei giorni in cui la corsa è verso la filosifia dell’usa e getta?
Può darsi, ma una cosa è certa. A volte una fotografia può essere più loquace delle parole, può svelare ciò che davvero abbiamo dentro, senza per forza sottometterci al ricatto del “sorriso forzato” che ci viene chiesto ad ogni posa. E quelle più loquaci sono proprio quelle che paradossalmente ci vengono scattate dal passante di turno, dallo sconosciuto che riesce a tirar fuori dalla posa ciò che realmente saremo nei giorni avvenire.

Per questo motivo forse dovremmo tornare a limitare gli scatti, addirittura fuggendo dall’algido arcipelago di pixel per passare alla stampa su carta. Proviamo a incollarle in un album, perchè una fotografia non si divora solo con lo sguardo, ma anche con il tatto: passando il palmo della mano su di essa, ci riappropriamo dei luoghi e delle persone incorniciate assieme a noi. Pur guardandoli in maniera disordinata, restituiremo agli appunti della nostra vita quella cronologia interiore che fa di una foto di ieri l’attimo che voremmo tornasse. E non è un caso che Anna Riva ed Eugenia Russo, la psicologa e l’educatrice che trasformano storie di vita vissuta in una fiaba per te, incollino foto stampate su carta per nutrire il vissuto delle loro storie. Ci tocca sapere che poche fotografie hanno il dono di svelare con discrezione ciò che in quel momento proviamo davvero. E sanno farlo senza che ce ne accorgiamo, perchè i rintocchi della nostra vita sono fatti di umanità, prima di essere digitali.

Racconto d’estate: L’ultimo angelo in volo su Istanbul

La nave sbarcò con un quarto d’ora d’anticipo e la donna, puntando il dito sulle cupole che sovrastavano Istanbul, spiegò alla bimba: “Io e papà siamo venuti qui in viaggio di nozze l’ultima volta”. Non fecero neanche in tempo a farsi travolgere dai frastuoni di prima mattina, che un taxi le balzò a fianco. “Dove vi porto?”, urlò dal finestrino un turco sulla quarantina. La donna afferrò la bambina per mano e saltò nell’auto. Diede all’uomo un foglio di carta scarabocchiato con un itinerario, indicandogli di rispettare il percorso.
Mentre l’auto solcava Istanbul, la bimba aveva gli occhi sgranati: il fasto delle moschee, l’eleganza di Santa Sofia, le bancarelle del Gran Bazar che accostava a quel del mercato sotto casa sua, i bistrot sparsi a Beyoglu. Il tassista incrociò gli occhi della piccola attraverso lo specchietto retrovisore ed esclamò: “Sei uguale al professore napoletano!”. La donna saltò dal sediolino e replicò: “No ci credo. Kadir, ma sei proprio tu?”.

Era lo stesso tassista che alcuni anni prima l’aveva portata a scoprire la città turca assieme al suo sposo. E poi solo Kadir lo aveva battezzato “il professore”. Sosteneva che conoscesse Istanbul meglio di lui che c’era nato. La donna gli spiegò perché il marito non fosse con lei, perché si era ostinata a fare quel viaggio, il dolore che aveva avvolto la sua vita a causa di quella perdita. L’uomo raccontò di avere ancora da qualche parte il disegno che il professore napoletano gli aveva regalato: raffigurava un famoso attore napoletano, protagonista di un divertente film dal titolo “Un turco napoletano”.

Questa nube di aneddoti e ricordi fu spazzata via da un uomo che bloccò l’auto: “Mi scusi. Mi fa salire, vado di fretta?”. Kadir gli fece segno di no perché il taxi era già occupato. La donna intervenne: “Fallo salire pure, tanto ormai il nostro tempo a disposizione sta per terminare. La nave riparte alle quattro e mezzo in punto”. Lo sconosciuto restò in silenzio per tutto il tragitto. Aveva un cappello che gli copriva il capo. Con la coda dell’occhio notò che la bambina osservava le sue spalle, erano identiche a quelle su cui si arrampicava quando giocava con il papà.

Arrivarono al porto. Kadir scese dall’auto, abbracciò la donna e la piccola, donando loro un piccolo portafortuna. La donna e la figlioletta si recarono verso la nave. Il tassista si voltò verso l’uomo, chiedendo: “Dove la porto?”. E lui rispose: “Sono arrivato a destinazione”. L’uomo tirò fuori un disegno e lo mostrò al tassista: “Kadir, era questo il disegno di cui parlavi prima in auto? Che sbadato sei, lo avevi perso durante l’ultimo trasloco”. Il tassista con le lacrime agli occhi lo riconobbe ed esclamò: “Professore!”. E lui concluse: “Non tremare, Kadir. I morti non fanno paura, i vivi sì. Quando ero piccolo mio nonno mi disse che quando saremmo andati all’altro mondo, il Signore ci avrebbe concesso un ultimo viaggio qui. Prima del trapasso mi sono ricordato di questa diceria popolare, e ho scelto Istanbul per rivedere la donna che amo e mia figlia. Ho sperato fino alla fine che non annullasse il viaggio. Lei è una testarda, sapevo che sarebbe venuta perché era il mio ultimo desiderio”. Kadir, incantato a guardare il disegno, non si accorse che l’uomo scomparve nel nulla. Lo distolse il fischio della nave che stava salpando e un arcobaleno che avvolse tutta Istanbul, unendo la parte asiatica a quella europea. Dalla nave la bimba disse alla mamma: “Mamma, mamma, mamma. Guarda l’arcobaleno. Ha gli stessi colori che usava papà per dipingere i suoi quadri”.

Tutto questo accadde ad Istanbul l’ultimo mercoledì di giugno. E da quella volta si dice che chiunque voglia ritrovare un amore, debba girare in tassì, in questo giorno, attraverso la città turca.  Più che una leggenda, è una speranza. Quella fu l’ultima volta che qualcuno vide un angelo volare su Istanbul.