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No, non è finita: L’altro striscione per Pasquale Romano

Sabato sera il Napoli ha incassato la sconfitta della Juventus. Avremmo dovuto portare fuori dal campo di Torino l’ultima parola di Mazzarri: “Non è finita”. Avremmo dovuta spruzzarla su uno striscione e appenderlo nel punto dove è stato trucidato Pasquale Romano, ucciso per sbaglio dalla camorra nella faida di Scampia.
Mentre le immagini del match più atteso di questo inizio di campionato passavano sui maxi schermi allestiti nei vicoli di Napoli, saranno stati in tanti a dedicare un pensiero a Lino, che doveva essere pure lui da qualche parte a fare il tifo per il suo Napoli.

Nell’esclamazione dell’allenatore del Napoli c’è la verità che vale nel gioco come nella vita: la singola sconfitta non conta se all’urlo emotivo e rabbioso sostituiamo la riflessione. Che la rabbia per la morte di Pasquale Romano non resti “urlo da megafono” tra le fila di una fiaccolata come è accaduto per le altre vittime innocenti della camorra. Il quartiere di Forcella ricorda ancora la piccola Annalisa Durante, un altro angelo caduto in volo sotto la mano spietata dei killer.

Lo scrittore Roberto Saviano ha manifestato apertamente la sua indignazione dalle pagine di La Repubblica: “Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia. Ignorato dal governo che non si è presentato ai suoi funerali, in un’Italia che non si indigna più”.
Tenendo da parte i cliché che fanno di Napoli la landa desolata della malavita e dei criminali, dobbiamo interrogarci sul senso di ricominciare una nuova settimana facendo finta di niente. Sarebbe mostruoso lasciare la morte di Pasquale Romano tra le braccia del cinismo, che permette a un fatto di cronaca qualunque di aumentare le vendite di un giornale.

Sarebbe stato sportivo e umano sentire dentro e fuori lo stadio di Torino un coro di voci per Pasquale Romano, invece del brutale razzismo che riapre polemica per il solito cliché.

No, non è finita.

  Razzismo da tifoso

  L’articolo di Roberto Saviano

La domenica e il riscatto del Sud con la Coppa Italia al Napoli

Erano troppi anni che la Coppa Italia non tornava alle falde dal Vesuvio. C’era arrivata l’ultima volta nel 1987 tra le mani di Maradona, con la buona parola di San Gennaro e prima che la città di Napoli entrasse nell’epoca del bassolinismo illuminista. Mentre la città risorgeva nella culla della più grande bolla di sapone degli anni ’90, la squadra calcistica finiva sotto terra per colpa di una cattiva gestione, che poi altro non era che il riflesso di chi amministrava lo stesso capoluogo campano.

De Laurentiis ci ha creduto e ha riportato il Napoli ad essere il grande Napoli, quello che sa farti traballare con l’ostinazione di un allenatore come Mazzari, che all’Olimpico però ha saputo fare. Il Napoli di Mazzari ha messo all’angolo la Juventus Campione d’Italia. Lo ha fatto purtroppo in una domenica in lutto per l’Italia: da una parte lo choc per la strage di Brindisi, dall’altra il timore che il maltempo complichi il disagio dei terremotati in Emilia-Romagna.

Tuttavia, sforando i perimetri delle curve antropologiche e sociologiche di una comunità, il pallone segna da sempre il riscatto dei popoli del Sud: accade a Napoli come a Buenos Aires o a San Paolo. I vincitori di questa Coppa Italia sono tutti i napoletani che tornano a riscattare, attraverso la loro squadra, la città dagli scempi della cronaca degli ultimi tempi. Sui volti di coloro che sfileranno sul lungomare Caracciolo fino alle luci dell’alba troveremo per l’ennesima volta la dignità del Sud, di chi riesce a fare di una “speranzella” – come avrebbe cantato Renato Carosone – il sellino per cavalcare il futuro.

Fa sempre un effetto strano pensare che “’O Surdato ‘Nnammurato”, composta quasi un secolo fa da Cannio e Califano, continui ad essere un inno di gioia e festa conosciuto in tutte le parti del mondo. Eppure il celebre brano racconta tutt’altro: la lontananza di una coppia nei giorni della guerra perchè lui è al fronte. I napoletani sono riusciti a stravolgere con la loro personale interpretazione persino il testo di Califano, forse in maniera legittima, perchè dopotutto una partita di pallone è la metafora più appropriata della vita: i vinti possono trasformarsi all’ultimo istante in vincitori, con la consapevolezza che solo il domani legittima la meritata vittoria di oggi.