Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Archives Ottobre 2012

Il Belpaese titolato: Prefetto, dottò, ingegnere?

Una volta a prendersi a zuffa erano il parroco e il sindaco. Anche senza stare per forza dalla parte di uno dei due, il Peppone e Don Camillo di Guareschi facevano straripare la simpatia. La settimana scorsa si sono presi a zuffa un prefetto e un prete di frontiera perché “il don” si era permesso di chiamare una “prefetta” – pardon, “un prefetto donna” – con il titolo di “signora”.
I social network sono stati al gioco, hanno preso le difese del parroco bastonato e così abbiamo avuto ancora materia di discussione “a fil di rete”. E’ arrivato l’happy end: pace fatta tra il prefetto di Napoli Andrea De Martino e il parroco di Caivano don Maurizio Particiello

Forse ha ragione Roberto Saviano a scrivere “i cafoni cambiano, i potenti no”. E quando si tratta di buone maniere, mi capita di sentire le vicende strampalate: dal funzionario pubblico, incazzato nero se lo chiamano “signore” al posto di “dottore”, al militare zeppo di medaglie, pronto a farti finire sotto processo se scambi un colonnello per un capitano.

Al di là di quanto valga un titolo in momenti istituzionali, è chiaro che il Belpaese titolato si senta più a suo agio. Fino a questo momento il governo Monti non vi ha applicato nessuna tassa. E sono convinto che se li tassassero, “i titoli blasonati”, anche nel mio Sud dove su citofoni privati e campanelli delle porte abbondano i “dott.”, “ing.”, “prof.”, “cav.”, sparirebbero da un giorno all’altro. Persino quelli fuori posto incisi sulle lapidi del camposanto.

Torniamo al Peppone e Don Camillo di Guareschi. Ci hanno dato una gran bella lezione di umilità e saggezza: riconoscere dalla personalità e dal rispetto reciproco lo spessore dei propri ruoli  e non dal bigliettino da visita.

  I cafoni cambiano, i potenti no!

Cartolina da Torino: Il “razzismo” di un cronista e “la puzza dei napoletani”

I social network lo hanno linciato, l’azienda in cui lavora si è limitata a sospenderlo. Giampiero Amandola era un giornalista anonimo fino alla settimana scorsa. E’ riuscito finalmente a guadagnarsi un pizzico di celebrità, firmando un servizio “razzista” per il Tg3 Piemonte in occasione della partita Juve-Napoli di sabato scorso. Nel mirino non c’erano gli extracomunitari o i vucumprà, ma coloro che dagli anni’ 50 del secolo scorso hanno dato al capoluogo piemontese, assieme agli altri meridionali, la più grande forza lavoro dal secondo dopoguerra ad oggi: i napoletani.

“I napoletani che puzzano” sembra un vecchio slogan stampato sui volantini anonimi lasciati all’entrata della fabbrica che produceva le automobiline del Belpaese del Boom. L’urlo e le definizioni della rete bastano e avanzano per sintetizzare la meschinità di Amandola e l’accaduto non merita neanche di essere commentato.
Tuttavia, bisognerebbe fare un passo indietro e capire come possa accadere che vada in onda sul Servizio Pubblico televisivo marciume di una tale portata. E’ legittimo chiedersi, senza per forza fare il mestiere di giornalista: Chi ha dato il benestare per mandare in onda il servizio? Se fosse accaduto all’epoca della lottizzazione RAI del Pentapartito sarebbe scoccata la bufera: Democristiani e socialisti  con il dito puntato contro i comunisti che occupavano il suolo del terzo canale.

Se ciò accadesse in Gran Bretagna, nel tempio della BBC, vedremmo “il cronista d’assalto” sbattuto fuori dalla porta con una lettera di “licenziamento” tra le gambe. Ahimé, siamo in Italia, dove riusciamo a far passare per “un servizio giornalistico di colore” qualcos’altro.

I tifosi che sono stati al gioco, dovrebbero farsi raccontare dai genitori e dai nonni che “i napoletani puzzavano” quando uscivano dalle fabbriche di Torino. Di quell’odore ne andavano orgogliosi perchè, rincasando, potevano guardare negli occhi mogli e figli con la dignità di chi conosce i sacrifici e lo sfinimento della fatica.
Chi ha lanciato invece la scialba provocazione, dovrebbe imparare a memoria un’affermazione di Elsa Morante, che in questi dieci anni in cui vivo lontano da Napoli, recito tutti i santi giorni mentre mi guardo allo specchio e mi sento orgoglioso di essere stato partorito dalla mia terra: “Grande civiltà di Napoli: la città più civile del mondo. La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola vera metropoli italiana”.

 

  Juve-Napoli, Rai sospende giornalista Tg Piemonte

No, non è finita: L’altro striscione per Pasquale Romano

Sabato sera il Napoli ha incassato la sconfitta della Juventus. Avremmo dovuto portare fuori dal campo di Torino l’ultima parola di Mazzarri: “Non è finita”. Avremmo dovuta spruzzarla su uno striscione e appenderlo nel punto dove è stato trucidato Pasquale Romano, ucciso per sbaglio dalla camorra nella faida di Scampia.
Mentre le immagini del match più atteso di questo inizio di campionato passavano sui maxi schermi allestiti nei vicoli di Napoli, saranno stati in tanti a dedicare un pensiero a Lino, che doveva essere pure lui da qualche parte a fare il tifo per il suo Napoli.

Nell’esclamazione dell’allenatore del Napoli c’è la verità che vale nel gioco come nella vita: la singola sconfitta non conta se all’urlo emotivo e rabbioso sostituiamo la riflessione. Che la rabbia per la morte di Pasquale Romano non resti “urlo da megafono” tra le fila di una fiaccolata come è accaduto per le altre vittime innocenti della camorra. Il quartiere di Forcella ricorda ancora la piccola Annalisa Durante, un altro angelo caduto in volo sotto la mano spietata dei killer.

Lo scrittore Roberto Saviano ha manifestato apertamente la sua indignazione dalle pagine di La Repubblica: “Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia. Ignorato dal governo che non si è presentato ai suoi funerali, in un’Italia che non si indigna più”.
Tenendo da parte i cliché che fanno di Napoli la landa desolata della malavita e dei criminali, dobbiamo interrogarci sul senso di ricominciare una nuova settimana facendo finta di niente. Sarebbe mostruoso lasciare la morte di Pasquale Romano tra le braccia del cinismo, che permette a un fatto di cronaca qualunque di aumentare le vendite di un giornale.

Sarebbe stato sportivo e umano sentire dentro e fuori lo stadio di Torino un coro di voci per Pasquale Romano, invece del brutale razzismo che riapre polemica per il solito cliché.

No, non è finita.

  Razzismo da tifoso

  L’articolo di Roberto Saviano

A scuola di cattivo gusto con le “donne piccanti” di Ryan Air

Qualche settimana fa il Ministro del Commercio svedese aveva dichiarato che “le donne non possono essere cancellate dalla società”. Si riferiva alla scelta discutibile di Ikea di togliere le donne dal catalogo in Arabia Saudita. Ci sono vari modi di colpire il gentile sesso. Lo facciamo anche noi, nella frenetica quotidianità, quando allunghiamo quell’occhiata sconcia con l’irremovibile sospetto del maschio arrapato.

C’è un altro modo di “ridimensionare” il valore delle donne nella società. Ce lo ha insegnato Ryan Air in questi giorni, con uno stralcio di volgarità che può rendere persino un irlandese un gran cafone. E il colosso dei voli low cost non può darci alcuna lezione in termini di buone maniere. Poco tempo fa l’imperdonabile gaffe dell’annuncio su volo per il capoluogo pugliese: “Benvenuti a Bari, la città della Mafia e di San Nicola”. Adesso invece tornano le hostess “in bikini”, “le donne piccanti”, con lo scopo benefico sotto “il sex-appeal”. Pare che le assistenti di volo di Ryan Air facciano pure a gara per apparire sul calendario che le rende “modelle per un giorno”. Pardon, c’è sempre la scusa della solidarietà.

Il banner sul sito italiano insinua il solito pregiudizio d’oltremanica: Mica siamo solo il Belpaese delle veline volgari, che hanno mandato a far benedire le lotte dei movimenti femministi in Italia?

Che senso ha un sequel di “Dallas”? Forse meglio un prequel…

Torna Dallas, di martedì e su Canale 5. Per la generazione 2.0 rappresenta forse solo la città dove assassinarono John Kennedy; per le nostre mamme invece è il titolo di uno dei serial televisivi più famosi al mondo. Spopolò negli anni ’80 e si contese con l’altra saga, Dinasty, lo scettro del prime time.

Torna il malefico J.R., interpretato dall’impeccabile Larry Hagman, ma ormai i tempi sono cambiati per loro come per noi. Torna lo stesso giorno, proprio di martedì come allora, ma in una tv che affoga nell’ingordigia e nello spaesamento del digitale terrestre. L’America degli Ewing, sciabordante dal tubo catodico, rifletteva l’irrefrenabile rampantismo del repubblicano hollywoodiano Ronald Reagan.
Quell’America è roba da libri di storia ormai: siamo in piena recessione, la classe media è stata spazzata via e il Presidente dalla pelle nera, icona del “New American Dream, sta rincorrendo con il fiatone il rivale repubblicano, pronto a scippargli il trono alla Casa Bianca tra meno di un mese.

Il Southfork Ranch di Dallas, location del serial, che ho visitato nel 2005, si è trasformato in un mini resort per cerimonie e meeting, nonché meta di pellegrinaggio per i più fanatici. I curiosoni, attratti dalla mega piscina in cui Bob e Pamela si tuffavano, si sono dovuti ricredere. Tanto rumore per nulla. Si trattava di piccola pozzanghera nel cemento, simile alla piscina gonfiabile della mia vicina di casa.

Nelle nuove puntate la famiglia Ewing è quasi decimata e dei nuovi rampolli forse non ce ne fregherà più di tanto. Forse più di un sequel, sarebbe stato proficuo scrivere e mandare in onda un “prequel”, per capire come i petrolieri più famosi del piccolo schermo yankee fossero arrivati al potere e con quali appoggi. Avremmo riletto l’America degli anni ’70, flagellata dai traumi post-Vietnam, dando una bella lezione anche all’oratore Clint Eastwood. Il monologo della sedia vuota, inscenato alla Convention Repubblicana, avrebbe dovuto dedicarlo a Richard Nixon. E un prequel di “Dallas” gli avrebbe dato indicazioni precise.

Breakfast al McCafè di Porta Romana: Quando lo staff fa la differenza

Quando si va a bere un caffè in un franchising, non è come andare al bar sotto casa. Pertanto, il gadget può pure starci. In questo periodo ad esempio il McCafè di McDonald’s propone una raccolta punti per un mini set di tazzine da caffè.
L’omaggio può attirare, ma non valorizza una location in particolare, perché in questo caso a far la differenza ci pensa lo staff. Ci affezioniamo al barista simpatico, perché non potremmo farlo anche con quello di un McCafè?

Il mio cornetto & cappuccino mattutino l’ho dirottato al “solito posto”, in un McCafè di Milano. E ad attirami lì non è né la raccolta punti né la posizione comoda – fronteggia la fermata metro di Porta Romana – ma la simpatica combriccola che ci lavora. Ogni mattina gestiscono con garbo e professionalità una coda di clienti, inclusi tanti stranieri, ai quali sanno regalare anche un bel sorriso. Loro non ci fanno caso, ma io in coda, con la scusa di sbirciare il mio Time, li osservo: Fernanda con il suo accento partenopeo mi riporta alle mie colazioni a Napoli; Massimo è lì alla cassa beato tra le donne; Erika, appassionata sfegatata di Biagio Antonacci, sa già che sono allergico al cappuccino troppo schiumoso; Katia lascia la sua firma con uno spruzzo di cacao.

Quando mi siedo a godermi la colazione, mi sembra di essere finito nella vecchia sitcom americana Alice in cui, alla tavola calda di Mel, a dar gusto al cafferino americano erano le storie dello staff che vi lavorava. A furia di fare file e bere cappuccini, con alcuni di loro condivido via social pezzetti della mia quotidianità.
Questo per dire che con me il marketing cervellotico farebbe un buco nell’acqua, se la mattina al McCafè di Porta Romana non trovassi più Fernanda, Massimo, Erika, Katia e gli altri dell’allegra brigata. Grazie a loro mi sembra di rivivere la mia traversata di settemila chilometri in autobus attraverso gli USA: raccoglievo storie con la scusa di mettere qualcosa sotto i denti. Queste storie invece sono tutte italiane e mi danno il buongiorno nel verso giusto.

  Alice (CBS TV, 1976-1985)

Parole di rabbia: Dieci anni senza Pierangelo Bertoli

L’Italia ha bisogno di anniversari per offuscare la lucida smemoratezza che la rende insopportabile. Le mie sono “parole di rabbia” oggi, in una puntualità che assomiglia a quella di un orologio svizzero. Sono dieci anni esatti senza Pierangelo Bertoli, uno dei cantautori più dimenticati dal Belpaese. Al diavolo gli anniversari, le belle parole dell’Italietta che storse il naso quando vide “il poeta musicista” in carrozzella al Festival di Sanremo, in contrasto con i filantropi dell’estetica e delle veline dell’Ariston. I più cafoni pensarono che il duetto con i Tazenda fosse un esordio; i più arguti si commossero a rivederlo, perchè sapevano la lunga strada discografica di Periangelo Bertoli.

Nei dieci anni senza il cantautore di Sassuolo, l’Italia non è cambiata. Continua a mentire, ad essere più corrotta di prima. Bertoli lo urlò a squarciagola venti anni fa, con “Italia d’oro”, pochi mesi prima che annegassimo nel letamaio di Tangentopoli. Intanto gli intellettuali di carta pesta si ostinavano a politicizzare musica e canzoni: Fabrizio De Andrè era di Sinistra; Lucio Battisti era di Destra. Il pregiudizio è la malattia cronica del Belpaese, incapace nel tempo debito di valorizzare – tranne qualche rara eccezione – colui che seminò senza fronzoli la ballata folk nella terra modenese, che lo aveva allevato e nutrito.
Pierangelo Bertoli aveva capito che la canzone, per restare “popolare”, non dovesse essere “musica leggera”, ma entrare nel cuore della gente con uno stile intimo. Bertoli impastò storie di vita vissuta e paesaggi sfuggiti alle nostre distrazioni; riabilitò riflessioni sociali sfuggite dal qualunquismo degli anni del riflusso; scaraventò “a muso duro” la verità in faccia ai bugiardi per cui i deboli, gli emarginati, gli ultimi potessero essere gettati nel fuoco del dimenticatoio. Il coro di voci amiche che lo ha ricordato a Campo Volo lo scorso 22 settembre impugni una promessa: incidere nel prossimo album una canzone di Bertoli per far conoscere il suo verbo tra le giovani generazioni.

Venticinque anni fa, in una sera d’inverno, giravo per Napoli con cinquemila lire in tasca. Le spesi tutte per acquistare un vecchio disco di Bertoli: l’Album. Lo aprii, c’erano foto in bianco e nero di lui assieme alla sua famiglia. Mi venne voglia di marinare la scuola, fuggire a Sassuolo, bussare al campanello e farmi raccontare altre storie, come quelle infilate in quel vinile del 1981. Non l’ho mai fatto. Voglio farlo. Restare in silenzio a casa sua e farmi raccontare dai figli il significato di aver avuto un papà straordinario.

In questa notte guerriera, rispunterà la luna dal monte. E’ la luna di Pierangelo, che continua a farci sognare e sperare.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=PtQuHFJkYAM]

50 anni con i Beatles oggi: Perchè un minorenne scappò a Liverpool

Non c’è nessuna icona della musica contemporanea che sia legata ai luoghi natali come i Beatles. In giro ci sono tante città-santuario, come la Graceland di Elvis Presley, ma non fanno altro che imbalsamare il mito. Per Liverpool invece è tutt’altra storia: quei posti sono vivi, Penny Lane o Strawberry Fields concimano nel territorio urbano la working-class di un tempo, tra dock e “ red bricks on the wall”.
Almeno lo erano fino a vent’anni fa, prima dell’invasione dei pellegrini del low cost di Ryan-air, prima che il comune optasse per la scelta infelice di cambiare alcune strade, di abbattere edifici fatiscenti, di dedicare ai Beatles tributi kitch qui e lì.

Io mi sono perso invece proprio tra quegli edifici fatiscenti, nell’estate del 1990, ancora minorenne, alla ricerca di posti e persone che avevano ruotato attorno ai quattro ragazzotti di provincia anglosassone: dalla vicina di casa di Paul alla birra con Williams, il primo manager; dall’abbraccio con un fantomatico zio di John alla passeggiata assieme ad una donna, figlia di una Anne che in gioventù aveva pomiciato con Pete Best.
Mezzo secolo fa, proprio oggi con il singolo “Love me do”, i Beatles entrarono nella storia personale di più generazioni; venticinque anni fa bussarono alla porta della mia adolescenza: ci sono entrati, ci sono rimasti per sempre, con costanza.

Sono stati la colonna sonora di gran parte della mia vita, ma non mi sono bastate le canzoni, gli album, i cimeli racolti nel tempo. Volevo guardarli da vicino, da giovanotti grezzi di periferia, prima che la Londra di Abbey Road li risucchiasse, trasformandoli in quattro baronetti metropolitani e sofisticati.
Mi accaparrai una mappa e scovai una cinquantina di posti, anche minori, che spesso parlavano più di quanto magari facessero Menlove avenue o il Cavern Club: una scalinata dove John e George si era fermati; il letto di un ospedale pubblico dov’era nato Ringo; un incrocio qualunque che aveva strappato via a John la madre Julia.

Le canzoni dei Beatles sono venute prima e dopo. Giusto in mezzo però c’è Liverpool, quella di vent’anni fa, che aveva raccontato un miracolo avvenuto nella Gran Bretagna del secondo dopo guerra: la classe operaria andò in paradiso con quattro sbarbatelli, cresciuti nell’Inghilterra “cafona”, che mischiarono sogni, poesia e musica come se fosse un gran bel gioco, destinato per volontà degli dei a non finire mai.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_xuMwfUqJJM]

Cartolina da Seyne-sur-Mer: Michel è partito senza il bicchiere di Pastis

Ricordo un sabato mattina d’estate, al mercato. Il brusio delle persone, lo schiamazzo dei bambini, i venditori ambulanti che gridavano “Bon prix, bon prix!”. Sembrava di essere a casa, nel mio Sud. Invece ero in Francia, a la Seyne-sur Mer, un paesotto avvinghiato tra Provenza e Costa Azzurra. Gente semplice, alla buona, tanti emigranti sbarcati dal Sud dell’Italia.
Passai davanti a una brasserie. Mi chiamavano. Erano Michel e Vincenzo, i miei zii. Il primo un emigrante italiano; il secondo un francese di quelle parti. Si conobbero negli anni sessanta, diventarono cognati e anche due buoni amici.

Mi offrirono da bere. Mancava ancora un bel pezzo all’ora di pranzo e mi fecero ubriacare con il Pastis, l’irrinunciabile aperitivo alcolico dal profumo d’anice che scioglie Marsiglia e le sue strade sotto il giaccone di un bicchiere. L’anice del Pastis si confondeva con l’odore del pesce fritto venduto in strada e con la salsedine accantonata dal porticciolo poco distante. Michel era un tipo alla buona, alla mano: il suo francese aveva l’inflessione marsigliese; il suo sorriso quello di uomo del Sud che si accontentava di cose semplici.

Michel e Vincenzo mi raccontarono di quando se ne andavano in campagna, laggiù nel cuore della Provenza, a fiondarsi sotto un albero, a bere vino. Condividevano i colori del loro Sud, quello che Nino Ferrer dipinse nella sua splendida canzone.
Michel se n’è andato ed ha lasciato mezzo vuoto il suo bicchiere di Pastis. L’altra parte del bicchiere la riempio io, allungandola con il ricordo di un sabato d’estate in cui, assieme a zio Michel, francesizzai la mia anima meridionale.

[youtube=http://youtu.be/RAKgO2e6rME]

Troppo rumore per nulla: Fidanzarsi su Facebook

In tv non c’è niente di buono, solita pappa riciclata. Nei feed di Facebook troppo ciarpame, ovvero il qualunquismo social che si sforza di essere “sociale”. A lato della pagina Facebook c’è un cuore rosso e si alternano gli status che raccontano le relazioni d’amour: impegnato, fidanzato ufficialmente, relazione aperta, vedovo. Basta mattersi a giocherellare con il tastino, cambiare status improvvisamente e finire nell’occhio del ciclone.

Roba da “Chi” o “Novella Tremila”? No, siamo gente normale e ci godiamo i picchi della nostra timeline di Facebook, passando da uno status all’altro. Uno scherzetto?
“Vedovo/a” è usato ironicamente dai teenager che sanno come metterci una pietra sopra, quando una storia finisce a puttane. Non tiriamola per le lunghe: Morto un Papa, se n fa un altro. “La relazione aperta” esprime l’ambiguità della globalizzazione: Ci frequentiamo, non sappiamo, tanto sesso e rock ‘n’ roll, poi si vedrà. “Impegnato/a” è mettere le mani avanti, ma con discrezione: son cazzi nostri. E poi arriva “fidanzato/a ufficialmente” in cui “l’ufficialità” si colora in base all’area geografica di appartenenza. Nel Belpaese in canottiera e ciabatte sarebbe stato il “festino” di fidanzamento, pasticcini, qualche scatto delle famiglie dei rispettivi consorti che si conoscevano; nel Belpaese social è togliere da mezzo ogni ombra di dubbio.

Insomma questo status fa notizia come una volta accadeva sulle pagine di Grand Hotel, quando le nostre mamme curiosavano nella rubrica dedicata ai cuori solitari. Nell’epoca dello schiamazzo social, la coppia dovrebbe ritrovare fuori dal bunker facebookiano la fragranza del sentimentalismo, in una relazione che non è stata “annunciata”, ma “costruita”. Comunque vada, possiamo fare ancora a meno del benestare altrui, quello codificato nel clamore di “Stanno proprio bene assieme”.