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#Laquilasiracconta e il coraggio di cinque videomaker italiani

Rosario PipoloAbbiamo memoria corta in Italia e ne siamo consapevoli. I social network come Facebook ci ricordano “il selfie cazzuto” scattato esattamente un anno prima e gli algoritmi stritolano la reminiscenza legata allo storytelling della catastrofe finita nel dimenticatoio.

A sei anni dal terremoto di L’Aquila, il capoluogo abruzzese, oltre a piangere le vittime finite sotto le macerie, subisce e patisce il dramma di una ferita aperta ancora. Se una parte della politica italiana sfruttò la tragedia a livello mediatico per fare ai tempi campagna elettorale, oggi si sa poco o niente.

Una comunità si ricostruisce anche facendo in modo che le sequenze di un documentario siano il riflesso  della voglia di ricominciare. Aldo Ricci, Paolo Baccolo, Riccardo Andreaus, Fulvio Greco ed Emanuel Paliotti, cinque talentuosi videomaker italiani, si sono messi insieme per portare avanti il progetto #Laquilasiracconta.

Il mese scorso le loro videocamere hanno iniziato ad invadere L’Aquila per raccogliere testimonianze, storie di vita, ricordi che faranno parte di una serie di videoclip, disponibili sul sito Laquilasiracconta.com. I cinque moschettieri videomaker ricuciranno il girato che, nell’aprile del 2016, diventerà un docufilm, seguendo le orme di un giornalismo d’inchiesta che ahimè in Italia diventa ogni giorno una rarità.

Leo Longanesi scrisse: “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”. Questa riflessione affila nel suo sarcasmo un aspetto tragico del nostro Paese, rimasto immutato nel tempo. Purtroppo non solo gli aquilani sono vittime di questa arretratezza culturale che serpeggia in Italia e che sa come farci sentire, di fronte all’ennesima tragedia, mediocri sbandieratori di inciviltà.

8 marzo, festa della donna: Volevo raccogliere un mazzolino di mimose a L’Aquila

Volevo fiondarmi per le strade diL’Aquila e raccogliere un mazzolino di mimose per questo 8 marzo. Non era una scusa per allontanarmi da Milano e dal solito tamtam, ma il desiderio di riflettere sulla festa delle donna nel capoluogo abruzzese.
Che illuso sono stato. Neanche il tempo di tracciare un itinerario decente che mi ricordo in che Paese io viva: una parte dell’Italia che sa come lavarsi le mani sottobanco, dopo che un terribile sisma ha seppellito i sogni e gli averi di tutta una comunità.

A tre anni dal terremoto che ha messo in ginocchio l’Abruzzo, pensavo di calpestare prati fioriti e invece ci sono macerie. La primavera non arriverà neanche questa volta. E se provassi a scavare come un forsennato, perché mai dovrei trovare l’ultimo ciuffetto di mimosa?
Mi affaccerò nelle case sventrate per raccogliere ritagli di diario delle donne che sono state vittime del terremoto: mamme che scrivevano di come fosse complicato restare punti di riferimento per i figli ; mogli in attesa che i mariti, vittime della scappatella maledetta, tornassero al nido per ammettere che l’amore vero dormiva ancora sotto le lenzuola rinnegate; nonne dagli occhi lacrimanti persi negli scatti di gioventù; bambine, a ridosso dell’ultimo respiro, schiacciate sul volto sfigurato delle proprie bambole di pezza; studentesse universitarie sul terzultimo ripasso prima del grande esame.

Mi sento un uomo inutile in questo 8 marzo. Oggi, spalancando la finestra sotto il cielo di L’Aquila, non vedremo il manto di rose rosse germogliato al posto della memoria oltraggiata. Accadrà tutto sotto le macerie.

Sabina Guzzanti, Draquila e il post-terremoto dell’Abruzzo

E’ riuscita a far tremare l’Italia, per fortuna senza vittime innocenti, facendo imbarazzare le cariche più alte delle istituzioni, facendo affacciare dalla finestra anche papà Guzzanti (Paolo), “fiero” o “rassegnato” di avere come figlia una piccola peste.  Mi riferisco a Sabina Guzzanti, superstar al Festival del Cinema di Cannes con Draquila, il suo film-documentario  sul terremoto che ha messo in ginocchio l’Abruzzo l’anno scorso. La scena mediatica e televisiva di allora finisce in soffitta, perchè la Guzzanti, dietro e davanti la macchina da presa, ci dà dentro con un pesante controscena documentaristico tra irriverenze e denuncia, dove il backstage della tragedia ci fa vedere il dramma vero degli aquilani. Qui c’è poco da ridere, anzi forse c’è da piangere. L’uragano Guzzanti trionfa alla Croisette, riporta l’Italia al centro dei riflettori con un cinema-verité molto più francese di quanto non sia quello di largo consumo che ci propinano nelle nostra sale. Mi riferisco a quei film “cazzutti” che ogni tanto tirano fuori, come per dire agli italiani che possono permettersi il lusso di non pensare, tanto stanno tutti bene (citando una pellicola di Giuseppe Tornatore). Non stiamo bene, e non va bene un bel niente.  Il Ministro della Cultura Sandro Bondi ha disertato Cannes e questa assenza ha rialzato il polverone. Corre voce che la Guzzanti sia “una svergognata”, così come lo erano i padri del Neorealismo italiano, testimoni di cosa fosse davvero l’Italia di quel tempo. E se i veri “svergognati” fossimo noi, rassegnati ad un’Italia addomesticata dal populismo e dalla volgarità?

Terremoto in Abruzzo, si dimetta Bertolaso

terremoto150In Italia siamo pronti a piangerci addosso quando il guaio è fatto. Il terremoto in Abruzzo è sicuramente un altro brutto colpo che riporta a galla una nozione dimenticata. Io me la ricordo ancora la mia maestra in cattedra a ribadire che “l’Italia era un paese sismico”. C’è stato qualcuno a ricordarcelo per evitare la catastrofe ed è stato pure denuciato. E’ un paradosso in stile Belpaese da far rabbrividire. Giampaolo Giuliani, ricercatore sul Gran Sasso, aveva annunciato un “sisma disastroso” e il capo della protezione civile Guido Bertolaso lo aveva etichettato tra “gli imbecilli che si divertono a diffondere notizie false” (la notizia è sul Corriere.it del 6 aprile).  E’ davvero grave se un terremoto si può prevedere e non si fa niente per tutelare i cittadini, nemmeno in un disastro di così larga misura. Mentre l’Abruzzo piange le vittime, l’Italia dovrebbe indignarsi di fronte a questa vicenda spiacevole  e il capo della protezione civile chiedere le dimissioni. In un paese civile succede così, ma nel Belpaese cialtrone la tendenza è incollare “il culo” sulle proprie poltrone.