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Diario di viaggio: ritorno sui Quartieri Spagnoli

Tornare da viaggiatore nella propria città a fine agosto non so se sia un privilegio o uno svantaggio. Da una parte paghi lo scotto di sentirti un girovago nella tua terra natia, ma dall’altra il tuo sguardo si posa su particolari che prima ti sfuggivano. Napoli è Napoli, ma recarsi su i quartieri Spagnoli è un modo come un altro per tracciare le origini. Certo che questa zona – nel XVI secolo diede non pochi grattacapi al vicerè Don Pedro di Toledo alla prese con malavita e prostituzione – resta una delle aree più seducenti del capoluogo campano. I buoni consigli di mia madre erano “non ti avventurare nei quartieri”, ma io nei primi anni ’90 percorrevo anche al buio via Montecalvario per arrivare a Galleria Toledo, dove mi aspettavano gli spettacoli di Annibale Ruccello, Enzo Moscato e Francesco Silvestri. Una volta ci sono finito per sbaglio pure con la mia prima auto, una 127 bianca, ed è stata un’impresa uscirne.
Ritornarci adesso ha avuto un valore diverso, ripercorrendo quelle strade che non ti capitavano mai sottomano, da via Speranzella fino all’arrampicata di via de Deo, che con disinvoltura volge lo sguardo verso il corso Vittorio Emanuele. Il terrore di tutti: attenzione che adesso arriva lo scippatore di turno! A me nessuno ha messo mai un dito addosso, sarà perché camuffo la mia parlata, sarà perché gioco a fare il pazzariello ambulante che stona vecchie canzoni napoletane. Anche qui le cose sono cambiate: diverse attività commerciali sono gestite da extra-comunitari, in giro ci sono pochi “femmenielli” e dai bassi spuntano gli sguardi spioni di donne di colore. Vincenzo è seduto sulla sua seggiola e fuma l’ultima sigaretta prima del pranzo: mi racconta dei sette figli e dei nipotini; degli sforzi fatti per tenerli lontani dalla malavita (il suo motto è “amico ‘e tutti, ma ‘a distanza ‘o mumento juste”); dei nuovi scugnizzi che rinunciano alle vacanze, fanno i fancazzisti e se ne vanno a giocare al Bingo nei pressi di piazza Carità; dei cinesi che hanno preso in pugno il controllo delle attività clandestine; degli affitti che sono arrivati alle stelle: “Dottò, e mmo mettene ‘a dieci nire dinto e fanne ‘e sorde”. E poi dopo, con aria sospettosa, mi chiede se sono un investigatore privato.
Io sorrido e la butto sull’ironia: “Don Vincé, se fossi un investigatore non sarei uno squattrinato”.  Mi guardo intorno, alzo la testa e mi soffermo sulle lenzuola stese, su i balconi, sulle finestre semichiuse, chiedendomi il perché lì sotto non ci sono mai capitato. Forse venti anni fa sarebbe stato diverso, avrei incontrato altra gente. Prendo una bottiglia d’acqua fredda da un fruttivendolo e da una radiolina una voce canta: “La paura di dividerci per niente, anche fermi volavamo con la mente”. Chiedo alla signora se si tratta di Gigi Finizio, cantante partenopeo molto seguito da quelle parti. E lei mi chiama l’esperta della famiglia, una ragazza prosperosa di una ventina d’anni, che mi rimprovera: “Vuje ‘e musica nun capite niente. Chiste è Natale Galletta, l’idolo mio. Jate ‘ncopp ‘a Youtub…”.  Così scivolando via, mi sono portato come souvenir il motivetto neomelodico di “Vivi”. E pensare che c’ero andato per prendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono arrivato troppo tardi. Tutto cambia, ma per restare come prima.

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Las Vegas, un museo per quelli come Roberto Saviano!

Per chi ha in programma un viaggio a Las Vegas, conviene temporeggiare almeno fino al 2011. Ai resort di lusso e alla febbre del gioco dei casinò si aggiungeranno un paio di attrazioni “inutili”, due musei dedicati al crimine organizzato. Insomma, la capitale della perdizione del Nevada celebra a modo suo la Mafia e, tutto sommato, non le dà noia ravvivare la memoria del suo passato losco. In Italia c’è chi si è convinto che Gomorra, il libro di Roberto Saviano, abbia contribuito ad infestare la nostra immagine, nella logica della massima andreottiana – censoria nei confronti del Neorealismo cinematografico – che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Piuttosto tirerei in ballo la trilogia cinefila di Il padrino di Francis Ford Coppola, che ha propagandato quella ambigua mistificazione, portando don Vito Corleone sulla via dell’eroismo. E chissà se il progetto “pseudo-culturale” di Las Vegas rafforzerà lo stupido stereotipo del popolo yankee di considerare l’Italia come patria di “mafia, pizza e mandolino”. Forse sarebbe il caso di dedicare un museo a tutte quelle vittime o a coloro che si sacrificano in prima linea per combattere la malavita organizzata, in America come in Italia. All’entrata, più che una maxi riproduzione di Al Capone, mi piacerebbe vedere il faccione di Roberto Saviano accompagnato da una scritta: “La nuova gioventù italiana vuole assomigliare a lui perché la sua penna graffiante ci toglie di dosso il cattivo odore, quello infognato dell’omertà ”.