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Prendi l’arte e mettila da parte? No, se c’è Miriam Prato

Rosario PipoloPapà mi ripeteva continuamente: “Prendi l’arte e mettila da parte”. Era il tipico consiglio che si tramandava da genitore in figlio, soprattutto dove vigeva il luogo comune che l’arte non ha mai dato da campare a nessuno. Mentre la maggior parte delle gallerie d’arte piccole ha scelto di trasformarsi in supermercato, pur di sopravvivere ai tempi della feroce crisi, c’è ancora chi si dà all’ascolto di voci artistiche interessanti.

Avevo avuto modo di conoscere ed apprezzare l’arte di Miriam Prato nella galleria piacentina Jelmoni e poi me la sono ritrovata a diverse mostre tra Londra, Milano e Pavia. In un momento in cui i social network deprezzano il valore del nostro tempo libero con un surplus di futilità, mi ha incuriosito dedicarne un po’ del mio a questa estrosa signora di Stradella, sul confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna.

Miriam, vissuta in quella zolla di frontiera tra il pavese e il piacentino, ha un passato da restauratrice di libri antichi. Chi ha fatto di questo mesterie un’arte non può che avere una grande dote, rarissima di questi tempi: l’occhio vigile sul dettaglio della memoria.
In questa traiettoria la Prato sequestra un dettaglio di vecchio libro, finito per sua sfortuna in una soffitta impolverata, e lo riporta alla luce nel perimetro di una bella opera d’arte.

Osservare i suoi lavori è come annusare un libro antico che possiede, nelle vecchie incisioni, i germogli di un campo aratro tra passato e futuro. Se vi mettete a caccia di una vecchia stampa di Durer del XVI secolo – mi riferisco al famigerato Rinoceronte – vi accorgerete che Miriam Prato ha la capacità di riproportelo senza farci perdere l’olfatto autentico.

E’ irresistibile quell’impronta di colori equilibrati, capace di condensare le radici di una biblioteca sulle pareti, in una cornice in cui l’olfatto della visione è direttamente proporzionale all’interpretazione personale e originale della memoria.

Prendere l’arte e metterla da parte? Non ci penso proprio.

Cartolina da Cameri: Immaginarci

In Italia straripano le mostre, grandi e piccole che siano. Il vantaggio di quelle piccole sta già nell’itinerario che fai per raggiungerle, magari allestite in un piccolo centro. Come quella di Cameri, un piccolo paese piemontese del novarese, che raccoglie scatti di aspiranti fotografi o di coloro che si dilettano con l’obiettivo.
Incrociando per caso “Immaginarci”, mi è venuto da pensare che la fotografia ha davvero il potere inespugnabile di farti sentire in più luoghi nello stesso tempo. Come questo scatto malinconico di Maria Cioffi che mi ha riportato nei miei sopralluoghi dei cimiteri da guerra. Una ventina d’anni fa ero di ritorno da Cassino e ne ho visitato uno.

Certo non uno di quei posti dove vai a fare una scampagnata, ma il luogo che ti fa avvistare la crudeltà della guerra, attraverso l’apparente geografia dell’anonimato riservata ai caduti. I veri eroi non hanno bisogno della notorietà. La cerchiamo noi nel folclore di alcuni nostri cimiteri civili, dove sostituiamo la semplicità di una lapide all’ostinazione di rendere pacchiana persino la caducità della morte, abbassando il capo al tornaconto per far spazio alle cappelle-bunker private.

La morte è una cosa seria. E il fiore sulla tomba di questo soldato, seppellito nel cimitero di Minturno, ci ricorda che l’eroismo si nasconde tra i petali di un fiore.

  Immaginarci