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La grande lezione di Nick Cave, esploratore sofisticato di dolore e sofferenza

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che dolore e sofferenza sono un cosa seria e possono starci, senza pregiudizi, in un gomitolo di canzoni. La musica è specchio della nostra vita, delle notre scelte, di fallimenti e vittorie e i gusti personali ne sono latitanza da ciò che non ci appartiene, o meglio da ciò che ci illudiamo non ci tocchi.

Quando ero ragazzo Nick Cave & i Bad Seeds erano roba da “Dark”, quei ragazzetti vestiti di nero da cui negli oratori di perferia dicevano di stare alla larga.
Lì non ascoltavano il gospel ma il Gen Rosso, la band cattolica nata prima delle turbolenze sessantottine, il cui canzoniere era diametralmente opposto a quei “brutti ceffi vestiti di nero”.

Nick Cave ci ha ricordato, durante l’ultimo meraviglioso concerto di Milano, che dolore e sofferenza non hanno né colore politico né religioso perché appartengono all’esistenza umana. Nick aveva capito che per esplorarli non bastavano più la rabbia del rock o l’idiosincrasia del punk.
Un stupratore, un condannato a morte o un assassino non vanno raccontati più tra bagni di sangue splatter, piuttosto visti dal di dentro con l’occhio dell’anima del poeta.

Osservare Nick Cave per oltre due ore avvolto tra il suo pubblico, nella continua ricerca del contatto che riscrive lo psicodramma collettivo e misura gli stati d’animo sulla falsariga di un ritiro spirituale nella fuga dalla porta del tempo, ci convince che la poesia contemporanea giace nella parola che si fa performance, nella teatralità che scuote la musica.

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che i poeti sono sul cammino di noi mutilati dalla merda spalata dalla globalizzazione.

C’è sempre dolore intorno. Questa è una cosa su cui puoi giurare nella vita: ci sarà sempre un eccesso di dolore. (Nick Cave)

Io piango: Josè Saramago lo scrittore che volle farsi “blogger”

O lo amavi, o lo detestavi. Non c’erano vie di mezzo. Io sono stato sempre un lettore volubile e scapestrato. Una volta mi è capitato tra le mani Il bagaglio del viaggiatore. L’ho letto con avidità – non perché portasse la firma di Josè Saramago –per la data di pubblicazione: il 1973,  anno della mia nascita. Saramago è scomparso alla veneranda età di 87 anni e a lui devo una cosa, molto prima che mi mettessi lo zaino in spalla per andarmene a zonzo in Europa. Uno spudorato amore per i portoghesi e per la loro terra, che da Porto verso Lisbona, continua a suggerirmi fugaci suggestioni del mio Sud. Quando vado in Portogallo non parlo né in inglese né in italiano, ma in napoletano.  Riesco sempre a farmi capire.
Ho avuto la fortuna di conoscere di persona l’altro grande portoghese, il regista Manoel de Oliveira, ma dello “scrittore scomodo” mi rimane il ricordo di quel libro e, soprattutto, gli interventi da blogger nel marasma della rete. O caderno de Saramago è l’ultimo atto coraggioso del Premio Nobel alla letteratura: un irregolare e poetico diario on line che non risparmia nessuno, neanche il premier italiano Silvio Berlusconi definito “una cosa pericolosamente simile a un essere umano”. Nessuno più di José è riuscito a somministrare una galanteria letteraria su più fronti, dalla poesia al teatro, coinvolgendo a suo fianco i grandi nomi del pianeta, da Chomsky a Pinter, quando c’era da gridare a voce alta.
E’ stato lo scrittore “polemico” per eccellenza, in esilio volontario alla Canarie, ma sempre voce di quel Portogallo che oggi deve riconoscergli un merito: aver innalzato la liricità della lingua portoghese, oggi più di ieri, ad arma di denucia delle balbuzie di questo tempo tenebroso.

L’innocenza del male e i versi di Antonio Lillo

pendolari150“Ci siamo cresciuti noi con questo dolore pendolari/ci abbiamo fatto il callo/ci siamo arrangiati sfogliando i giornali”. Leggo questi versi  ad alta voce in treno e i pendolari mi guardano sbigottiti. Significa cominciare la settimana in un modo insolito, decifrando le poesie di Antonio Lillo. Mi incuriosiscono i versi raccolti nel volume L’innocenza del male (LietoColle,2009) perché questo giovane pugliese ha il pregio di racimolare gli istanti della realtà dal vivere di tutti  i giorni. A parte le digressioni in dialetto e le citazioni, ci sono “le parolacce”, ci sono “i Pink Floyd”, c’è “il kebab”, c’è “la bici alla moda dei Cinquanta”,  c’è la smania di prenotare i “bed & breakfast”, ci siamo tutti noi.  Il lunedì mattina voglio prendere la sana abitudine di affidarmi ad una “speranzella” – avrebbe cantato il mio compaesano Renato Carosone – senza le melodrammatiche notiziole di “Leggo” e “Metro”. I pensieri che ti sbatte Lillo sulla lastra del cuore aiutano a ritrovare noi stessi, le nostre radici, senza andare troppo lontano, fermandoci nei paraggi del quotidiano.  Ritornando ai versi iniziali dell’intensa Beltà dei pendolari, penso al “pendolarismo” come condizione dell’essere. Tra coloro che lo hanno scelto a vita ci sono io. Da “pendolare”  mi sento libero di uscire in qualsiasi momento dalle gabbie sociali e culturali che mi circondano. E la poesiola di Lillo me ne ha convinto ancora di più, in un istante fugace, di lunedì mattina.