Quando su Linkedin e Twitter vogliamo passare per ciò che non siamo

Rosario Pipolo“Strateghi del digitale”, “social media manager”, “giornalisti enogastronomici”, “creativi”, “guru P.R.”, “fashion blogger” sono soltanto alcuni termini di cui abusiamo ogni santo giorno. Tutti siamo o abbiamo l’arroganza di sapere far tutto, soprattutto nel campo dell’intrattenimento e della comunicazione digitale. Insomma, mentre per fare il meccanico, l’idraulico o il fresatore occorre essere specializzati, basta mettere il naso tra Linkedin e Twitter per capire che l’illusione di massa può essere vista così: tutto sommato ci sono delle professioni che possiamo inventarci dall’oggi al domani e la sindrome del “tuttologo” imperversa. Prendi l’arte e mettila da parte? No, mi invento una posizione lavorativa extra-large.

E così l’impiegata strozzata dalla routine vorrebbe farsi passare per mente creativa; il bancario in prepensionamento, da “buona forchetta” che era a casa di mammà, (s)vende frustrazioni improvvisandosi giornalista enogastronomico; il piazzista del paese mette giù il megafono da “arrotino” e fa le digital P.R.; l’infermiera, dopo una vita nelle corsie degli ospedali, apre un bel blog e diventa stellina fashion tra i cosmetici che vendeva sottobanco per arrotondare lo stipendio.

Chissà quante risate si fanno quelli delle Risorse Umane sbirciando tra i profili e quanti mal di pancia diventano incurabili per le medie e grandi aziende quando scambiano piccole botteghe a gestione familiare per startup. Ah, ci fossero le vecchie botteghe di una volta, abitate dal mastro che conosceva il suo mestiere!

Finita l’epoca dei maxi bigliettini da visita, affollati di titoli e mansioni, comincia quella dell’about us nella giungla confusionaria dei social network. Le job title bizzarre durano il tempo di una stagione, perché a confermare la professionalità sono la storia e l’esperienza che ognuno di noi si ritrova alle spalle. A ciascuno il suo… mestiere!