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Il regalo di papà: La copia autentica del primo numero del Corriere della Sera

Rosario PipoloDa bambino mi lamentavo del fatto che i regali di mio padre arrivassero per commissione. Una ventina d’anni fa papà mi tirò un colpo basso e mi fece rimangiare i pregiudizi infantili. Tornò da lavoro e, sotto la tuta, non aveva la solita cartellina con la ricevuta del fax del mio articolo, che tutte le mattine si preoccupava di inviare in redazione.

Tirò fuori quattro pagine di un quotidiano ingiallito e mi disse: “Spero ti porti fortuna per il lavoro”. Pensavo fosse una stampa, invece era la copia autentica del primo numero del Corriere della Sera, datata 5 marzo 1876.
Un dono tirato fuori da vecchie scartoffie in soffitta. Papà è un tipo taciturno, ma in quell’occasione avanzò tra i presenti: “Se non vi spiace la prendo io, mio figlio ha iniziato a scrivere e pare faccia sul serio”.

Nel lungo arco di tempo legato alla mia professione, questa copia del quotidiano milanese mi ha accompagnato come una sorta di amuleto. Senza inciampare nel solito luogo comune che fa di noi napoletani i malati cronici della superstizione, più che trattarlo da feticcio mummificato nel mio archivio, l’ho vissuto come interlocutore della memoria, leggendo e rileggendo articoli e titoli, orfani dell’arroganza delle immagini e della prepotenza dell’inserzione pubblicitaria nel marasma online dei nostri tempi.

“Pubblico, vogliamo parlarti in chiaro…”, esordiva il quotidiano neonato che in abbonamento costava, per tutto l’annata del 1876, L.12. Ho smesso di chiedermi per quante mani fosse passata questa copia, portandosi dietro la refurtiva del tempo che traccia la storia della professione del giornalista, dall’alba al tramonto, senza dimenticare i ricordi dei tanti inviati e collaboratori minori che hanno fatto camminare il Corriere della Sera per 140 anni.

Sabato 5 marzo, in occasione dell’emissione filatelica, appiccicherò il francobollo commemorativo sulla tuta da lavoro di mio padre, ripiegata in un cassetto alla periferia di Napoli, per ricordare a chi lo avesse dimenticato che questi fogli ingialliti, sopravvissuti ai traslochi della mia vita, ricompongono la storia di ciascuno.

Lodo Alfano, il Belpaese perde il pelo o il vizio?

Silvio Berlusconi

Rosario PipoloStropicciato nella centrifuga del caos mediatico, il pensiero dell’italiano medio vacilla dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Consulta. Il lettore arguto smanetta su Internet e si appella all’oracolo della stampa straniera. Il quotidiano inglese Times picchia duro contro Silvio Berlusconi e, senza troppi raggiri di stile, scrive con fermezza: “Silvio Berlusconi ha gettato vergogna su se stesso e sul suo paese con le sue buffonate sessuali e i suoi tentativi di evitare i processi. Ora si deve dimettere”.  Quale è il destino del Premier e del suo governo adesso che le quattro cariche più alte dello Stato perdono l’immunità temporanea? I fantasmi e gli orrori della Prima Repubblica tornano a fare toc toc alle nostre porte, mentre un’indagine parla di crisi nera e povertà alimentare: quasi 4 milioni di italiani non hanno abbastanza soldi per fare una spesa adeguata. Adesso l’Italia ha un semaforo rosso sul suo cammino politico e sociale, e non può stare più con due piedi in una scarpa. Questa vicenda mi fa tornare in mente un episodio di tanti anni fa. Passando in piazza Giovanni Leone a Napoli, mi chiedevo tutte le volte perchè la mia città avesse intitolato uno spazio pubblico ad un Presidente della Repubblica, travolto dallo scandalo Lockheed e  costretto a lasciare il Quirinale. Ahimè, gli eroi della mia generazione erano “un partigiano come Presidente” (Sandro Pertini) e un Papa rivoluzionario che sognava il dialogo delle religioni (Karol  Wojtyla). Non sempre il significato di “eroe” o “martire” sta dalla parte giusta!  

Il mio addio “in ritardo” a Domenico Di Meglio, direttore del quotidiano IL GOLFO

domeni-di-meglio-ischia150Ho sempre snobbato la stampa locale campana e i motivi sarebbero troppo lunghi da spiegare. Quando ho iniziato a fare questo lavoro, il mio destino mi ha portato al Golfo anziché al Giornale di Napoli. Ho preso il traghetto per Ischia e mi sono presentato dal direttore per un colloquio dicendogli: “Voglio fare questo mestiere, ma non sono né figlio né nipote di un giornalista”. E lui mi ha dato una pacca sulla spalla, replicando: “Sei coraggioso, ma da noi non c’è bisogno della raccomandazione.”. Qualche giorno fa a Milano, per un beffardo gioco del destino, ho scoperto che Domenico Di Meglio, esemplare giornalista e direttore del quotidiano Il Golfo, se n’è andato poco più di un mese fa: giusto il tempo di finire l’ultimo editoriale e la sua penna si è fermata per sempre. Di Meglio o lo adoravi o lo detestavi. Lo detestavano coloro che non gradivano “i militanti dell’informazione” combattivi e senza peli sulla lingua. Lo adoravano quelli come me che, al di là degli allineamenti ideologici, erano esterefatti dalla sua tenacia. Non ho mai subìto alcuna “censura” sotto la sua direzione: una volta ho scritto un lungo elogio al teatro-canzone di Giorgio Gaber e lui col suo modo sornione mi ha sussurrato: “Da qualsiasi parte sei, la grande arte resta sempre tale”. Conoscendo Domenico Di Meglio ho imparato a voler bene agli “isolani” e il rammarico è quello di non esserci stato all’ultimo saluto. In ritardo gli scrivo: “Direttore, mi spiace essermene andato perché tu dicevi sempre che noi giovani eravamo la salvezza del Sud. Ho mollato, sono stato un vigliacco”. Addio a Domenico Di Meglio, giornalista di trincea che ha trasformato un quotidiano locale in una voce forte del golfo di Napoli e delle sue Isole.