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Archives Marzo 2016

Il ferroviere Gianmaria Testa e le dimestichezze d’amor

Rosario Pipolo

Siamo diventati tutti balbuzienti quando si parla d’amore tra gli emoticon di WhatsApp e sfilate di chat accorciate dalla voglia di essere sgrammaticati per il timore di essere noi stessi. Ci vuole dimestichezza in amor come ha sussurrato Gianmaria Testa sugli accordi di una chitarra fischiettante.

Eravamo drogati dal furibondo tam tam quotidiano per accorgerci che un ex ferroviere, attraversando i binari degli acquerelli musicali di Paolo Conte sfumati nella ballata di Sergio Cammariere, ci aveva svelato il piccolo segreto: le dimestichezze d’amor sono andare oltre “la notte che si arrende”. E così lasciamo passare storie, legami, condivisioni, baci belli come la refurtiva di un tesoretto ritrovato in fondo al mare.

E’ come quando ti godi la tua estate on the road, lasciandoti dietro le carezze della borina di Trieste, pensando che quella sia la prima di tante altre. Invece no, è l’ultima estate insieme e la fine ti coglie di sorpresa come la morte che giunge senza convenevoli o preavvisi.

Ci vogliono le dimestichezze d’amor cantate da Gianmaria Testa perché, senza fare chiasso o inutile baldoria, tracciano lungo un filo di spago la vita e i sentimenti di noi gente semplice, gente comune, gente ordinaria che possiede una sola ricchezza: diluire la quotidianità in una canzone, spingerla nei suoi abissi, farla ritornare a galla e poi asciugarla al sole.

I francesi ci hanno invidiato Gianmaria Testa fin dal primo momento. Si erano accorti che le parole imbrigliate tra le corde della sua chitarra tenevano lontani i sentimenti dai fuochi pirotecnici del nostro tempo, in cui l’eternità si ammazza nel tempo di una stagione.

Ci vuole dimestichezza in amore. Il treno ha fischiato. Grazie, maestro.

L’attacco a Bruxelles e il seme dell’odio in Europa

Rosario PipoloNon abbiamo fatto in tempo ad inghiottire lo sgomento per gli studenti dell’Erasmus in Spagna, che ci siamo ritrovati nell’orrore al risveglio del 22 marzo: Bruxelles attaccata, assediata, terrorizzata. La matita di Plantu, in questo disegno che spopola in Rete, non solo unisce simbolicamente Francia e Belgio come compagni di sventura, ma perimetra il calendario dal 13 novembre 2015 al 22 marzo 2016.

Questo è il lasso di tempo che ha permesso al terrorismo della jihad di affilare le armi e tornare a colpire l’Europa in due punti nevralgici, l’aeroporto e il metrò della capitale belga, a pochi passi dal Parlamento Europeo. I terroristi schiacciano il pulsante del rewind e scatta l’incubo di Madrid 2004.
La risposta dell’ISIS all’arresto di Salah Abdeslam, uno dei responsabili degli attacchi di Parigi di novembre, è giunta rispettando i tempi canonici di una pellicola che mischia thriller e film dell’orrore.

Non mi hanno impressionato né il fanatismo dei kamikaze né tanto meno le minacce dell’Isis, pronta a continuare questa sporca e sanguinosa guerra a viso scoperto. Per me il pugno allo stomaco è stato assistere al germoglio del seme dell’odio nei piccoli orti dei social network: “Un nostro morto vale mille dei loro. Basta stare a guardare”.

Mi vien da dire che con questo atteggiamento ci arrendiamo con viltà al terrorismo che vuole piegare fino allo sfinimento le nostre democrazie: Bruxelles dopo Parigi; Parigi dopo Tolosa e Madrid. Questa volta non basterà accendere i monumenti delle capitali con i colori del Belgio. L’Unione Europea dovrà dimostrare con azioni congiunte ed efficaci che non è un’accozzaglia di staterelli in piena lotta fratricida.

Noi, dall’altra parte, dobbiamo continuare a seminare civiltà nel nostro quotidiano, nel nostro piccolo, senza regredire verso quella forma di odio o, peggio ancora, verso la meschinità di alcuni nostri politici che, giocando al gatto e alla volpe, trovano sempre il modo insidioso per strumentalizzare il dolore.

La tentazione di barricarci in casa fa la prepotente appena si insinua il dubbio: dopo Bruxelles a chi toccherà?
Dopo Parigi abbiamo smesso di sentirci sicuri nei luoghi del vivere da persone normali, al ristorante così come allo stadio. Dopo Bruxelles, mettiamo nero su bianco il prezzo della nostra vulnerabilità. La cambiale da versare è più alta di quanto ci faranno credere.

L’Erasmus in Spagna finito nel bus del terrore in Catalogna

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Rosario PipoloL’Erasmus è il sogno e tappa indispensabile per tanti studenti. Vivere un’esperienza di studio all’estero era e resta un momento di confronto culturale per qualsiasi generazione. Quando apprendi che quel sogno viene deturpato da un tragico fatto di cronaca, scatta la rabbia senza dare tregua a nessun tipo di rassegnazione.

La domenica delle Palme in Spagna è stata lo schianto di un pullman con 57 studenti dell’Università di Barcellona al ritorno da Valencia. A bordo c’erano ragazzi e ragazze di 22 nazionalità diverse, tra cui sette italiane. La causa dovrebbe essere l’errore umano, ovvero un colpo di sonno da parte del conducente.

Cosa fa l’Unione Europea in questi casi, fuori dal perimetro dell’austerità distribuita a larghe intese ai Paesi che ne fanno parte? Dove sono le regolamentazioni per chi gestisce il trasporto di studenti e non mette a stecchetto, se non è nelle condizioni psico-fisiche, chi si mette a volante? Non scopriamo l’acqua calda se confessiamo che gli autisti fanno turni di lavoro disumani.

Due giorni di lutto nazionale lasceranno dubbi incolmabili. Forse è il caso che l’Unione Europea investa più soldi non in Borse di Studio quanto nella sicurezza delle attività svolte dagli studenti durante il periodo dell’Erasmus.

Qui non si tratta di avere una copertura assicurativa che risarcisca le famiglie delle vittime: La morte non può essere una beffa dietro l’angolo.

Oggi 21 marzo l’Europa ha perso la Primavera di chi sognava il futuro.

19 marzo: Tale padre, tale figlio

Foto di Jorge Brian Di Monte

Foto di Jorge Brian Di Monte

Rosario PipoloLa pizza fritta è l’orgoglio della cucina popolare napoletana ed è una pietanza che può tessere un filo tra padre e figlio, soprattutto quando si tratta della condivisione del mestiere di pizzaiolo. Assaggiarla in un posto lontano da Napoli mi lascia sovrappensiero, per giunta a ridosso della Festa del Papà.

Distante da chi vive l’impolverata sindrome dell’emigrante alla Massimo Troisi, sono convinto che la reginetta dello street food parteneopeo sia ancora più saporita se, oltre la ricotta, cigoli, provola e pomodoro ci mischi ricordi e ritagli di una vita, per giunta in una città non tua come Milano.

Nell’impasto della pizza fritta di Luigi Capuano ho ritrovato la tenacia di chi si è fatto portatore sano altrove della napoletanità laboriosa, che riscatta il luogo comune dello sfaticato e lavativo all’ombra del Vesuvio.
Ricordo quella pizza fritta, premio di nonna Lucia, preceduta da un monito: “Tu non devi riportare i fatti di noi grandi, altrimenti ti diranno che tiene ‘na vocca comme Porta Capuana. Ora consolati con questa pizza”. Io ridevo a crepapelle per questo slang colorito.

Luigi ha imparato l’arte di un mestiere popolare da mastri dalla portata di Magno e Di Napoli, trasmettendola al figlio Enzo, in questi giorni in trasferta a Las Vegas insieme a tanti altri pizzaioli napoletani, per tenere alta la bandiera del Vesuvio oltre oceano.
Ci sono figli che mai farebbero il mesterie del papà; ci sono papà che, invece di sognare figli astronati sulla luna, lasciano in eredità la passione di una professione. Questa volta è il caso di dire: Tale padre, tale figlio. E forse un giorno anche i figli più piccoli, Maurizio e Thomas, seguiranno le sue orme.

Tutta colpa di una pizza fritta? No, dell’amore che ci sta intorno, che ci aiuta a fare meglio, come  quello di Alessia, la moglie innamorata del suo pizzaiolo. Nel frattempo, finisco la mia pizza e ripenso a donna Anna, la mamma novantenne di Luigi Capuano, che non smetterà mai di ripetere: “Giggì, ti ricordi quando ti accompagnavo da Pizzicato a piazza Municipio perché da bambino volevi imparare a fare la pizza? Non te lo dicevo, ai tempi ero già fiera di te”.

La vita unta di ricordi come una pizza fritta? Perché no, ha un buon sapore. Stasera voglio  essere il garzone di questo pizzaiolo, tornare indietro nel tempo e fare assaggiare la pizza fritta di Luigi Capuano alla regina che diede il nome alla famosa pizza Margherita: “Maestà, le ho portato questa pizza dal futuro. La assaggi, sotto il palato sentirà anche una punta di sentimentalismo, quello che nel mio tempo è stato offuscato dalla volgarità”.

Buona Festa del Papà a tutti i pizzaioli napoletani come Luigi Capuano che, in giro per il mondo, infornano e sfornano pizze ogni santo giorno senza dimenticare di essere prima di tutto papà.

Il regalo di papà: La copia autentica del primo numero del Corriere della Sera

Rosario PipoloDa bambino mi lamentavo del fatto che i regali di mio padre arrivassero per commissione. Una ventina d’anni fa papà mi tirò un colpo basso e mi fece rimangiare i pregiudizi infantili. Tornò da lavoro e, sotto la tuta, non aveva la solita cartellina con la ricevuta del fax del mio articolo, che tutte le mattine si preoccupava di inviare in redazione.

Tirò fuori quattro pagine di un quotidiano ingiallito e mi disse: “Spero ti porti fortuna per il lavoro”. Pensavo fosse una stampa, invece era la copia autentica del primo numero del Corriere della Sera, datata 5 marzo 1876.
Un dono tirato fuori da vecchie scartoffie in soffitta. Papà è un tipo taciturno, ma in quell’occasione avanzò tra i presenti: “Se non vi spiace la prendo io, mio figlio ha iniziato a scrivere e pare faccia sul serio”.

Nel lungo arco di tempo legato alla mia professione, questa copia del quotidiano milanese mi ha accompagnato come una sorta di amuleto. Senza inciampare nel solito luogo comune che fa di noi napoletani i malati cronici della superstizione, più che trattarlo da feticcio mummificato nel mio archivio, l’ho vissuto come interlocutore della memoria, leggendo e rileggendo articoli e titoli, orfani dell’arroganza delle immagini e della prepotenza dell’inserzione pubblicitaria nel marasma online dei nostri tempi.

“Pubblico, vogliamo parlarti in chiaro…”, esordiva il quotidiano neonato che in abbonamento costava, per tutto l’annata del 1876, L.12. Ho smesso di chiedermi per quante mani fosse passata questa copia, portandosi dietro la refurtiva del tempo che traccia la storia della professione del giornalista, dall’alba al tramonto, senza dimenticare i ricordi dei tanti inviati e collaboratori minori che hanno fatto camminare il Corriere della Sera per 140 anni.

Sabato 5 marzo, in occasione dell’emissione filatelica, appiccicherò il francobollo commemorativo sulla tuta da lavoro di mio padre, ripiegata in un cassetto alla periferia di Napoli, per ricordare a chi lo avesse dimenticato che questi fogli ingialliti, sopravvissuti ai traslochi della mia vita, ricompongono la storia di ciascuno.