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Archives Gennaio 2013

Bufera Monte dei Paschi di Siena e il ritorno della banda Bassotti

Rosario PipoloQualche mese fa mi capitò uno spiacevole episodio in una filiale campana del Monte Paschi e inoltrai un reclamo formale, visto che il famigerato istituto di credito fugge dal confronto sui social network. Mi hanno inviato indietro le scuse con l’algida “formalità” che fa incacchiare ancora di più l’utente comune. A distanza di tempo, come ho già tweettato, la vicenda mi è sembrata quasi profetica: “i numeri” che non rilasciava la filiale per mettersi in fila, li hanno dati a Siena “a sorpresa” in questo gelido Gennaio.

Questo non è lo spazio adatto né per ricostruire lo scandalo che sta facendo affondare il Monte dei Paschi né per radiografare le malefatte di Mussari e compagnia bella. Metterei tra virgolette “compagnia bella” perché “nel mezzo del cammin di nostra campagna elettorale” si incrocia malvolentieri la combriccola di scellerati che avverte di non strumentalizzare il caso. Come se poi il legame subdolo in Italia tra politica e istituti di credito fosse la grande scoperta dei Servizi Segreti.

Nella bufera che investe la banca più anziana del mondo – e pensare che era stata messa in piedi per dare aiuto alle famiglie disagiate di Siena venti anni prima che Colombo finisse per sbaglio in America – si nasconde l’ennesimo vezzo ipocrita del politico medio italiano: non prendere mai una posizione netta di fronte ad uno scandalo di tale portata, per paura di passare come lo scolaretto di Montecitorio della Prima Repubblica. E’ più facile pensare che lo “smemorato” sia Mussari e che non ci sia assieme a lui una “banda Bassotti”, da far invidia al Belpaese del tempo in cui era un vanto il legame pappa e ciccia tra potere politico ed economia occulta.

La sede centrale del Monte Paschi di Siena mette soggezione. Ci sono passato davanti l’estate scorsa. Mi scappava la pipì ed ho evitato di farla lì. Ho evitato per non passare come il turista cafone che oltraggiava un santuario dell’economia italiana, senza sapere che “l’oltraggio al pudore civico” è un altro: l’attesa interminabile dei parenti delle vittime di Ustica per avere il risarcimento dallo stesso Stato che, con l’altra mano inguantata, copre le malefatte interminabili della banda Bassotti. La stessa gang ladra della dignità dei piccoli risparmiatori, che quasi sempre ci rimettono la tasca.

Campagna elettorale: La goffaggine dei nostri politici su i social network

Rosario PipoloLe tipografie piangono e in giro, soprattutto nelle grandi città, non tira aria di campagna elettorale: niente santini, pochissimi maxi cartelloni con gli abominevoli faccioni lustrati. I politici e gli aspiranti candidati sono in fuga dalla carta stampata –persino nelle edicole sono scomparsi gli espositori con le prime pagine da campagna elettorale – e stanno sgomitando per ritagliarsi un posto su i social network.

In Italia se ne sono accorti troppo tardi che una condivisione facebukiana o una tweettata lungimirante potevano essere un boomerang contro la solita promessa, il contratto ingiallito o l’orazione funesta. C’è stato pure chi si è sforzato di scimmiottare Barack Obama, ma la nostra classe politica in veste “social” è davvero goffa. E il misuratore di tale goffaggine non sta tanto nel modo in cui si presenta il canale social presidiato , ma come si tenti di portare l’elettore dalla piattaforma social all’unico posto, testimonial della grande illusione del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: la televisione.

Nei ridicoli profili di Google+, spuntati come funghi da un giorno all’altro (Il gigante dei motori di ricerca ricambia la fiducia accordata con uno speciale elettorale), l’unico update più frequente è: “Stasera ti aspetto in tv”. Il teatrino cambia poco o niente: l’altro ieri c’era il salottino di Vespa con il contratto degli italiani, ieri l’agorà di Santoro con il duello da 9 milioni di telespettatori, in cui a parte sguazzi di istrionismo e le solite accuse, non si intravede all’orizzonte nessun programma.

Tornando alla smania social dei nostri politici, mi vien da dire che l’Italia continua ad essere un paese di minestre riscaldate: per certi versi lo sono pure i rottamatori, gli urlatori e gli ammalati di vendolismo. E’ un paese di minestre riscaldate quando il gossip delle veline candidate oscura l’alta percentuale di poveri in Italia; è un paese di minestre riscaldate quando il piagnucolio della banda dei disonesti esclusi dalle liste prende il sopravvento sulle lacrime dei giovani che non trovano un lavoro; è un paese di minestre riscaldate quando il più piccolo dei luoghi comuni diventa una voragine e sgomita con la rassegnazione dei più disagiati che pagano le tasse dei ricconi; è un paese di minestre riscaldate quando i camaleonti vorrebbero darci la lezioncina che non fa più gola a nessuno.

Se questa campagna elettorale avesse davvero una sostanza più “social” e uno sguardo allargato sulla presa di coscienza di una solitaria resistenza da “indignados”, noi elettori non saremmo trattati più come una ciurma di numeri amorfi in balia delle onde.

Graph Search: Professione investigatore con il motore #kazziemazzi di Facebook

Rosario PipoloChissà se quelli di Facebook con il nuovo Graph Search ce la faranno fare addosso. Il motorino social, al momento disponibile per pochi eletti in versione beta, sarà l’aggeggio cool per farsi “kazziemazzi” degli altri. E se community come Badoo già lo temono perché potrebbe essere una scorciatoia per mettersi a caccia dell’anima gemella, noi invece ci chiediamo: chi di noi resisterà alla tentazione di violare la privacy per vestire i panni di un segugio vigile?

Beh, con un po’ di astuzia e manualità, non c’è bisogno di Graph Search per mettersi a caccia di notizie. E a dirla tutta non sono tanto gli status, perlopiù protetti, ma gli album fotografici che restano quelli più vulnerabili. Magari tra giri e lunghi raggiri, passando dall’amico dell’amica, ti trovi in mano quella foto e quel commento datato, capaci di metterti la pulce nell’orecchio: verità di mesi prima che diventano improvvisamente bugie surgelate. Adesso con il nuovo motore social messo a punto da Mark e compagni sarà più facile avere una planimetria della popolazione faisbucchese – neologismo troppo kitch? – soprattutto di quella parte di utenti che si sbottona fino alle mutande.

Da una parte ci sono le rassicurazioni in merito alla privacy perché nell’occhio del ciclone ci saranno solo i contenuti pubblici, dall’altra le vecchie volpi social che storcono il naso. Il modo per spostare muri di gomma si trova prima o poi, perché dopotutto nella piazza di Facebook “chi cerca, trova”. Tuttavia, anche quando finiremo per essere vittime dell’autolesionismo investigativo, Graph Search sarà l’ennesimo buco nell’acqua per ciò che riguarda il valore dei legami. Mica la sintonia e il plusvalore di un legame di coppia o d’amicizia si riduce al numero dei “like in comune” o di una manciata di foto condivise, in puro stile esibizionista?
I più miopi sguazzeranno nelle acque torbide del motore #kazziemazzi, illudendosi di riscattare legami scaduti da tempo. Rinunceranno per l’ennesima volta all’unica affinità che solo la realtà può restituirci: quella del tempo che non abbiamo svenduto pur di stare assieme.

I miei dieci anni a Milano: dalla tribù al nomadismo

Milano

Rosario PipoloIl 16 gennaio di dieci anni fa mi trasferii definitivamente a Milano. Arrivai in auto di domenica sera, con lo stretto necessario che ingombrò tutta la macchina. Ricordo il momento in cui mi coricai: da un letto che non era mio, osservavo nella penombra della stanza un mucchio di scatoloni. Non mi faceva effetto il contenuto, piuttosto il peso dei sogni che vi avevo messo dentro. Tutti mi dicevano che Milano mi avrebbe “tirato il pacco” con il vento di crisi che tirava. Da una parte del capoluogo lombardo girava il jazz del neonato Blue Note, dall’altra il vuoto musicale per la perdita recente di Giorgio Gaber. Tra le bancarelle della fiera di Sinigaglia ritrovai le atmosfere del mercatino della Duchesca di Napoli. Escogitavo sempre il modo per lasciare in tasca 5 euro da investire lì per un libro o un disco. Prima di lasciare Napoli, zio Mimmo da Firenze mi aveva donato un consiglio che mi ha accompagnato in tutto questo tempo: “Sforzarmi di trovare sempre i miei piccoli spazi ovunque, senza permettere ai nuovi luoghi di cambiarmi”.

Ho conosciuto una marea di persone in questi 3.650 giorni vissuti qui: siamo rimasti in pochi, gli altri hanno mollato il colpo e sono andati via. I motivi erano vari: chi non aveva trovato un lavoro dignitoso; chi non si era adattato ai ritmi della metropoli; chi non resisteva lontano dagli affetti e dalla famiglia. Gli ultimi due motivi sembravano far parte del corredo genetico dell’emigrante. Io me ne ero andato di punto in bianco, dalla sera alla mattina, senza provare questo senso di sdradicamento e mi infastidiva sentire il solito luogo comune “Lì al Nord”. Mica ero finito su un altro pianeta?
Fino ad allora pensavo che forse per tutti fosse facile e naturale trasferirsi da una città ad un’altra. Davo per scontato che la necessità di nuove esperienze e la rinuncia al perimetro della “tribù” per “il nomadismo” fosse naturale per tutti. Mi ero sbagliato. Ho girato e rigirato, raccogliendo piccole storie e testimonianze di chi ha tenuto nascosto dentro questo disagio. Una sofferenza per alcuni davvero insormontabile, perché si commetteva un errore grossolano: rinchiudersi in una nuova tribù e condividere la nostalgia di casa.

Nomadismo non significa né rinnegare le proprie radici né trascurare i propri affetti, ma aprirsi alle opportunità che ogni luogo, diverso da quello in cui siamo cresciuti, ci offre. In questi dieci anni Milano mi ha dato,ma allo stesso tempo ha tentato in più occasioni di sottrarmi qualcosa. Ciò che mi ha tolto Milano, me lo hanno restituito le decine e decine di persone con cui ho condiviso migliaia di pagine del mio diario milanese. Questa non sarà mai la mia città, ma lo diventa ogni volta che porto qualcuno in giro con me e gli racconto che, anche in una metropoli come questa, dove ho conosciuto personalmente milanesi della vecchia città come Alda Merini, Roberto Vecchioni, Sergio Bonelli, Enzo Jannacci, Fernanda Pivano e tanti altri,  possono germogliare i piccoli sogni di un ragazzo di periferia del Sud.

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Addio a Mariangela Melato. In un camerino mi diede una gran bella lezione…

Mariangela Melato

Rosario PipoloLa prima volta che la incontrai in camerino, tremavo come una foglia. Accadde al teatro Diana di Napoli. E non perché fossi un giovane alle prese con le prime interviste, ma perché Mariangela Melato a teatro mi confermava sempre la stessa impressione: in quel corpo trovavo l’eleganza di un cigno che avvolgeva la sensibilità, la semplicità, l’intelligenza, l’ironia di una donna autentica ed indipendente.

Il camerino era illuminato. Mi mise ad agio. Chiacchierammo. Non parlammo di cinema, solo di teatro. Teatro, tanto teatro. L’audiocassetta terminò e il registratore smise di girare. Stavo per cambiare nastro. Lei mi fermò con la coda dell’occhio e disse: “Continuiamo noi due. Questi aggeggi danno un tono troppo meccanico agli incontri.” La Melato diede una gran bella lezione ad uno sbarbatello come me. Trasformare un’intervista in un incontro arricchiva l’intervistato, offrendogli il grande privilegio di intravedere l’altra prospettiva di un attore.

Fino a quel momento Mariangela Melato era stata per me la sottoproletaria Fiore in Mimì Metallurgico di cui mi ero infatuato, attraverso un piccolo televisore in bianco e nero in cucina, attaccato alla gonnella di mia madre. Dopo quell’intervista – pardon, incontro – Mariangela Melato si rivelò l’unica donna del palcoscenico italiano a vestire la nudità delle generazioni degli Anni di Piombo e del Riflusso in Italia. I suoi personaggi memorabili, al cinema, in televisione o a teatro, ci hanno aiutato a difenderci dalla mediocrità della quotidianità.

Mariangela Melato se n’è andata proprio in un momento storico in cui la mediocrità è all’ordine del giorno. Soprattutto quella più insidiosa, con cui a volte ci troviamo gomito a gomito nella routine, quella che trapela dalle persone mediocri, di cui dobbiamo imparare a disfarci nella vita privata e lavorativa.
E sono proprio le donne anti-dive alla Melato a restituire al teatro l’inossidabile funzione di depuratore dell’intelletto, del pensiero, dell’anima. Joan Baez disse: “Non si può scegliere il modo di morire e nemmeno il giorno. Si può decidere soltanto come vivere”. Mariangela Melato ha vissuto nel teatro e per il teatro.

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Per il CES di Las Vegas un 2013 tra smartphone e tablet. E l’anima?

Rosario PipoloIn questi giorni al CES di Las Vegas “i Maya della tecnologia” stanno mettendo nero su bianco la profezia per questo 2013: Smartphone e tablet affolleranno le nostre vite e i netbook, sostituiti dai phablet (phone+tablet), ci sembreranno diavolerie preistoriche. Ovunque mi giri vedo adulti, adolescenti e, spesso anche bambini, con gli occhi abbassati. Non ti degnano più di uno sguardo curioso perché sono rapiti in preda al panico da touchscreen. Durante le ultime vacanze natalizie mi è capitato di assistere a episodi imbarazzanti: una chiacchierata in cui ogni membro in quella stanza aveva l’occhio rivolto al pc, telefono o tablet. Da una parte le illuminazioni stradali ridotte ai minimi storici dalla spending review, dall’altra le palline verdi della chat di Facebook in aumento come su un albero di Natale gigante.

Mentre gli indigeni digitali come me si crogiolano con il giustificativo alla mano – chi lavora nel digital deve essere un “animale social ad ogni costo”? – gli altri sono imprigionati dalla nuova tendenza che “la socializzazione” debba scendere allo sporco compromesso con il virtuale. Non siamo contenti del posto in cui ci troviamo e cerchiamo la fuga. Nei buoni propositi dell’anno nuovo mettiamo a capo lista l’impegno di ridurre il tempo da dedicare al totem touchscreen. Lo ripetiamo in mille salse, ma poi facciamo un buco nell’acqua. In fin dei conti “la piazza digitale” ci ha consegnato il superpotere più illusorio dell’epoca social: lo “sharing” del nostro piccolo mondo come pozione magica per essere ciò che nella realtà non riusciamo ad essere.

Lo storytelling nel più grande reality che sia mai stato visto sarà ancora la strada maestra che ci ostineremo a percorrere nel 2013? I guru del CES ci vedono come esseri bionici dall’anima “phablettizzata”; gli strizzacervelli ci mettono in guardia perché questa dipendenza ci condannerà a svuotare la nostra personalità per far spazio ad ansia e frenesia. E noi come ci vediamo? Il primo passo del cambiamento sarebbe schiacciare il bottone della nostra interiorità. Spegnere l’interruttore di uno smartphone non significa morire, ma riprenderci il vero superpotere che ci è stato donato dalla vita: accettare noi stessi con difetti e virtù, recuperando la bellezza di un legame vero – sentimentale, amichevole, familiare – e lottare perché resti testimone nella realtà del significato delle nostre esistenze*.

  In vetrina al CES la tecnologia del futuro


*Con questo post il 10 gennaio 2013 Autore del Giorno su Paperblog Italia!

Diario di Viaggio: Il riscatto della periferia di Napoli sul palco del Teatro Rostocco

Le prove al teatro Rostocco

Rosario PipoloQuando meno di una ventina di anni fa a Parigi mi rintanai in un teatrino off da una trentina di posti, mi apparvero spazi enormi i miei nascondigli napoletani come il Teatro Nuovo o Galleria Toledo, dove ero stato svezzato dalla nuova drammaturgia di Ruccello, Moscato, Silvestri. Tornare alla periferia di Napoli e mettere piede in un rifugio teatrale simile a quello parigino, mi ha fatto fare una riflessione: c’è stata finalmente una giovanissima generazione di periferia che ha schiaffeggiato il dilettantismo e il divismo che spesso si riduce a spavalderia sfacciata nei piccoli luoghi di provincia. Un gruppo di appassionati ha messo in piedi una bottega teatrale. Il Teatro Rostocco di Acerra, in provincia di Napoli, è l’unico luogo che oggi lega, attraverso un sotterraneo mistico, la provincia alla metropoli. Ci sono finito perché mi hanno organizzato in anteprima un reading di alcuni passi del mio romanzo. Mi ha fatto effetto ascoltare la voce dei miei personaggi attraverso l’anima di giovani attori, mentre il pubblico era assorto nella sua intimità.

Al di là degli spettacoli della compagnia, che rappresentano una specie di laboratorio per far vivere il teatro anche a chi non lo fa come professione, l’atto coraggioso è la rassegna proposta dal Rostocco: un cartellone che spilucca nelle micro proposte interessanti del panorama teatrale off italiano, che spesso non hanno la visibilità meritata. Ed è così che la “bottega” di cinquanta posti diventa fortino privilegiato di incontri drammaturgici. Gli stessi che sulla scena si trasformano nelle schegge impazzite di cui abbiamo bisogno per tornare a vivere: usciamo dalla prigionia virtuale dei social network e torniamo a teatro, una volta e per tutte!

Nei luoghi dei miei viaggi in Italia, cerco sempre un nesso con i miei vagabondaggi in Europa. E sono contento di essere finito lì perché è una sorta di spazio magico che ti fa sentire un navigante, senza appartenere ai soliti cliché del territorio. Nel paio d’ore trascorse al Rostocco di Acerra sono tornato a convincermi che gli uomini e le donne di buona volontà, giovani e meno giovani, possono fare nel loro piccolo ciò che spesso le istituzioni non sono all’altezza di compiere: far uscire le radici della nostra memoria collettiva da musei e santuari locali per esportarle attraverso le gambe della memoria. In questo piccolo teatro di periferia abbiamo una grande opportunità: riappropriarci di una coscienza collettiva e della nostra civiltà. E me lo ricordò Giorgio Gaber, scomparso dieci anni fa in questi giorni, nell’ultimo nostro incontro: “Libertà è partecipazione”.

Teatro Rostocco

Dottore, il mio Capodanno 2013 in un ospedale lontano da casa

Rosario PipoloDottore, l’anno scorso ero a casa alle prese con il pranzo di Capodanno e, andando a fare la spesa, avevo pensato allo stretto necessario per i miei ospiti. Quest’anno la mia preoccupazione è un’altra: dare indicazioni a telefono a mia figlia. Io non sarò seduta a tavola con loro e dovrò accontentarmi della minestra della vostra mensa.

L’amarezza non è tanto il sapore che galleggia in questa scodella, ma non essere riuscita a farmi curare dove sono nata e cresciuta. Non c’erano strutture pubbliche disponibili e mi chiedevano tanti soldi. Non avevo capito che il valore della vita si riducesse ad un portafoglio. Ho lasciato il mare per le montagne. Signor dottore, è la prima volta che sono arrivata quassù.
Mi dicevano che da queste parti la gente fosse fredda. In questo ospedale ho conosciuto persone e storie che mi hanno riscaldato il cuore. E gli infermieri non mi hanno fatto sentire un’inutile ammalata, ma mi hanno riempito di coccole e di attenzione come faceva mio padre, tenendomi in braccio.

Signor dottore, mi hanno assicurato che la terapia finirà in tempo e miei capelli ricresceranno. Torneranno ad essere lunghi. Voglio essere bella al matrimonio di mia figlia. Si sposerà il 13 giugno, nel giorno di S. Antonio. È una vita che aspetto questo momento. A quanti pacchetti di sigarette ho rinunciato per farle un bel corredo, con quelle lenzuola color d’avorio che avvolgeranno due corpi innamorati.
Signor dottore, a volte ho paura, ma mi trattengo. Volgo lo sguardo e mi nascondo nel tramonto oltre le montagne. Mi chiedo quanto sarà fitto il buio. Mi consolo tutte le volte io la chiamo semplicemente Signor(e) e lei si volta.

Dedicato a tutti coloro che in queste ore stanno lottando contro il tumore. Non basteranno neanche queste parole a far sentir loro la mia presenza.