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Archives Settembre 2013

Cartolina da Rimini: La città di Fellini negli occhi di Ethan

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Rosario PipoloRimini ha smesso da un bel pezzo di essere la Las Vegas italiana, fatta delle luci lampeggianti delle discoteche che fecero furore sulla riviera romagnola negli anni del riflusso. La piadina viene servita in alcuni posti come se fosse cibo da ricchi. I Russi con il peso dei loro rubli si sono impossesati delle cittá di Fellini come fecero a suo tempo sulle coste del Montenegro, dall’altra parte dell’Adriatico.

Basta staccarsi da Marina Centro e rovistare tra le vie del centro cittá per scovare i riminesi, accoglienti e con gli occhi zeppi di dignità come quelli di Tonino Guerra. Gianluca ha le radici piantate qui: i suoi genitori sono riminesi come i nonni e i bisnonni. Gianluca ha un hobby. Mettere a posto vecchie Vespe e farle diventare nuovi gioielli a motore verniciati di vintage che riportano Rimini al bianco e nero di La dolce vita di Federico Fellini. Gianluca mi racconta di aver risistemato un vecchio Ape della Piaggio, il treruote che fece sognare i riminesi a cavallo degli anni del Boom economico. Ed era proprio su uno di questi che una ventina d’anni fa girava l’ambulante che mi fece mangiare la piadina più buona della Romagna.

Nonostante le invasioni barbariche, la Rimini dei miei ricordi vive negli occhi vispi del piccolo Ethan, il cui nome di romagnolo non ha niente. Eppure Ethan si sente riminese quando cammina a piedi scalzi sulla sabbia. In fondo al litorale c’è una ruota panoramica che ha poco a che fare con quelle dei Luna Park. E’ una ruota magica perché ad ogni giro evoca i mondi fellinani di Otto e mezzo, Amarcord e i Vitelloni. Se Rimini imparasse a proiettare i film di Fellini in ogni angolo della città – come già accade nello sguardo vispo del piccolo Ethan – forse saprebbe ritrovare la strada giusta per tornare ad essere più romagnola, più autentica, meno esterofila.

Il videomessaggio di Berlusconi come su un vecchio nastro VHS

Rosario PipoloNella landa dei social network e della viralità il videomessaggio di Silvio Berlusconi sembra venuto fuori da un vecchio nastro in VHS, sepolto in chissà quale soffitta impolverata della Prima Repubblica. Assomiglia ad un fuori onda montato sulle ceneri del primo video che vent’anni fa alzò il sipario sul berlusconismo in Italia. Tra gli sfottò in formato social, le analisi degli intellettuali, gli editoriali dei giornalisti e le opinioni degli avversari politici, il Cavaliere e i suoi cortigiani, che non si sono sentiti mai a proprio agio su Internet, hanno puntato ancora sulla scatola magica televisiva, quella che fece la fortuna di Forza Italia.

Tanto rumore per nulla, urlerebbe in sordina la vecchia canaglia di Shakespeare, per una sequenza di immagini che inciampano su contenuti prevedibili – il solito attacco ai giudici – scivolando sulla buccia di banana nel finale nazionalista. Un bollito di rancido populismo, con quella mano sul petto dedicata ai fedelissimi nostalgici che hanno associato erroneamente in questi lunghi anni il liberalismo al berlusconismo.

Quando nel 1990, grazie alla legge Mammì fatta su misura per il Cavaliere, i Socialisti craxiani si preparavano ad occupare il suolo dei nascenti notiziari della tv privata, chissà se avevano imparato a pappardella la predizione di Nostradamus: il monarca assoluto della Seconda Repubblica sarebbe stato un ometto, deus ex machina dell’invasione delle antenne nel Belpaese del Pentapartito che giocava a nascondino dietro le tette e i culi di “Drive in…”.

Nostradamus non si era lasciato scappare il finale della profezia. L’Italia, traghettata verso il berlusconismo, sarebbe stata abitata da una classe politica incapace di sconfiggere l’avversario alle urne elettorali e con proposte di legge in grado di rendere questo Paese vivibile e civile. E tra coloro che oggi sezionano il videomessaggio di Berlusconi come un cadavere ci sono anche i parolai di quella Sinistra pantofolaia a cui il berlusconismo ha fatto comodo su diversi fronti.

Alice e Renato: Felicità è…tenere lontani i bimbi dalla babysitter digitale!

Rosario PipoloGuardandomi intorno vedo decine e decine di bambini, nella fascia di età che non supera i quattro anni, affidati alla cura lampo di quella che io stesso definisco babysitter istantanea: La tecnologia. Una volta per tranquillizzare un bimbo irrequieto bastava un ciuccio zuccherato, oggi è sufficiente un iPhone o un tablet. Li osservo con gli occhi sgranati sulle iconcine delle app come se avessero trovato nel riflesso di quelle diavolerie la finestra per scoprire il mondo.
Tuttavia, il mondo non può essere raccontato né da un’applicazione né dalla nostra insistenza a convincerci che il virtuale possa stimolare il pargolo. Senza tirarla troppo per le lunghe, una fattoria animata su iPad potrà mai sostituire quel pomeriggio in cui mio padre mi portò in una fattoria, presentandomi galline, cavalli ed asinelli?

I ruoli potrebbero invertirsi. Cosa accade invece se un bimbo coglie in flagrante un quarantenne come me rapito da app, check-in e idiosincrasie da social network? Succede che ti guarda di sbieco come per dire “Il marziano sei tu o sono io che mi tuffo nell’erba, non so cosa sia un televisore o escogito un modo per ampliare la mia casetta di legno?”. La piccola Alice mi ha dato proprio una bella lezione che richiama una convinzione di Rudolf Steiner: “C’è una sola via per arrivare alla saggezza. Si chiama amore”.
E forse il ruolo di adulti dovrebbe essere quello di tenere alla larga i nostri bimbi dalle prigioni in cui siamo finiti con il passare degli anni. Alice si considera una “bimba adulta” perché ha nove figli, ovvero nove bambolotti di pezza senza volto, perché è la sua immaginazione che li restituisce l’anima. Via le maschere imposte dalle multinazionali che qualche volta mortificano la libertà del paradiso infantile? Perchè no!

Alice potrebbe far merenda con il piccolo Renato, tre anni e mezzo, che conosce a memoria mezzo repertorio di Bob Marley. Il papà lo ha tenuto lontano dal babysitteraggio digitale, cantandogli all’occorrenza con la chitarra i brani del re del Reggae. Alice e Renato sono bimbi felici perché chi sta accanto a loro ha compreso che “amore” e “saggezza” sono due facce della stessa medaglia e che non sono i riflessi di un touchscreen.

Diario dell’11 settembre: Rosalba Caruso, la prof. antiborghese che mi portò nel Cile senza Allende

Rosario PipoloIn un pomeriggio autunnale del 1986, nelle ultime ore del tempo prolungato a scuola, prese una ciurma di ragazzotti brufolosi per portarli a vedere un film. Rosalba Caruso, professoressa antiborghese di una scuola media alla periferia Napoli, prenotò il laboratorio e fece ingoiare al videoregistratore il film “Missing” di Costa-Gravas. Fu un atto coraggioso. Gli altri insegnanti si preoccupavano di rispettare i programmi ministeriali, lei trasformava la sua passione di docente in stimoli per noi alunni di provincia tra le mura di una scuola pubblica. Le sequenze della pellicola con Jack Lemmon fecero ammutolire tutti, persino i miei compagni più irrequieti, gli stessi che gettarono la maschera da bulli per bagnarsi gli occhi di lacrime davanti al dramma delle madri dei desaparecidos.

Rosalba Caruso, di estrazione cattolica cresciuta tra quattro mura borghese, aveva un’intelligenza e un sensibilità tali da svestirsi di qualsiasi etichetta, quelle che il sottobosco paesano avrebbe voluto metterle addosso. All’uscita da scuola, passeggiammo assieme e mi ricordò che le rivoluzioni non si fanno con i bagni di sangue, ma con la forza delle idee. Persino la penna e l’inchiostro potevano essere nel silenzio più efficaci di una spada. Mi mise tra le dita una Bic blu. L’ho conservata in tutti questi anni. La tirai fuori solo nel ’94 – l’anno in cui una brutta malattia me la portò via – per scrivere sul suo feretro “Grazie, professoressa. Ti ho amata come il figlio che non hai mai avuto”.

Oggi, 11 settembre 2013, a quarant’anni dal Golpe in Cile che sfregiò il volto di una parte del Sud America, ho tirato fuori la penna che mi regalò Rosalba Caruso. Non è più la penna di un alunno, ma quella di chi scioglie i suoi 40 anni in un urlo di rabbia e di dolore nell’11 settembre che si prolungò nella dittatura militare di Pinochet, tra la complicità dell’America di Nixon e l’omertà del Vaticano.
La mia intervista a Jorge degli Intillimani nel 2005 fu una scusa per esplorare, attraverso la musica, le ferite del Cile e dei suoi esiliati. Quando uscì il film 11 settembre 2001 ero in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia e contribuii ai lunghi applausi che accompagnarono l’episodio firmato da Ken Loach. La sequenza si chiudeva con uno scrittore cileno che scriveva agli americani: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”.

Rileggere “La Califfa” ad alta voce è il miglior elogio funebre per Alberto Bevilacqua

Rosario PipoloDovremmo rileggere La Califfa di Alberto Bevilacqua, scomparso poche ore fa a Roma all’età di 79 anni, per indossare di nuovo quella sottoveste che il Belpaese ha bruciato nell’ultimo ventennio di malessere politico e sociale. Ritrovare la sensualità di Irene, la protagonista del bestseller di Bevilacqua, diventato un celebre film, ci farebbe bene per scampare il subdolo pericolo di scambiarla con le nuove vedette alla Ruby che popolano la pattumiera della Seconda Repubblica tutta “Sex and Politics”.

La sottoveste è quella “operaia”, senza fronzoli o doppi merletti, che il Belpaese rinnegò durante i fasulli “happy days” del regime democristiano. La bella Califfa di Bevilacqua, cresciuta nell’Italietta di provincia delle rivolte operaie, protegge lo charme anche quando l’amore la porta in una direzione opposta, verso l’industriale cinico e avaro, che vorrebbe profumarla per toglierle di dosso l’odore sbriciolato di fabbrica.

Alberto Bevilacqua, figlio della Parma che dai granduchi fini nel palmo della mano operaia, ci ha lasciato un bel ritratto femminile, che oggi mette in evidenza lo squallore delle nuove dee della bellezza femminile, sottomesse e svendute agli orchi dei Palazzi di lusso. Vorremmo che da una di queste stanze uscisse l’erede della Califfa, con lo sguardo impavido di chi non si fa sottomettere al potere ed è pronta a ritornare nella terra che l’ha partorita, senza rinnegare le proprie origini.

Alberto Bevilacqua è morto e nessuno riuscirà più a smuovere quella penna per convincerlo che il tanfo operaio della protagonista del suo romanzo sia robaccia di altri tempi. Anzi no, di un solo tempo, quello in cui L’Italia rinnegava di essere stato un paese operaio, mentre noi uomini ci appostavamo ancora all’uscita degli stabilimenti per innamorarci di quelle donzelle che sapevano esprimere la propria femminilità anche sulla catena di montaggio.

L’ultima neve alla masseria tra i faraglioni di Capri

Assieme a Manuela Schiano al Garden di Capri

Ospito sul mio blog Manuela Schiano di Capri Studium – Comunicazione e Cultura, che lo scorso luglio ha organizzato la presentazione a Capri del mio romanzo. Ringrazio Manuela per questa analisi del mio racconto e per la dose di passione e amore che sa mettere in tutto ciò che fa.

Nella splendida cornice del Capri Garden Bar, il 13 luglio 2013 ho avuto il piacere di presentare il libro “Ultima neve alla masseria” del giornalista Rosario Pipolo.
Una piacevole chiacchierata che ha visto partecipi giovani studenti del liceo e adulti appassionati di lettura.
Il profilo dell’autore si è delineato attraverso le sue parole e attraverso una lettura critica del suo romanzo che io ho operato, da moderatrice della serata, cercando di individuare nella storia di Pietro tracce del vissuto di Rosario.

Rosario ama presentarsi con queste parole: “Ci sono le mie radici del Sud a cui appartengo, intorno al Vesuvio che mi ha partorito. Le mie radici però “hanno le gambe lunghe”, se ne vanno in giro e si trascinano dietro i mondi da cui sono stato allevato: la musica di John Lennon e dei Beatles; il teatro in cui mi sono rifugiato, che mi ha trattato come un figlio d’arte; il cinema delle migliaia di pellicole divorate; le letture di Shakespeare, Kerouac e Bukowski. Il viaggio dentro il viaggio, sempre, da quando in sella ad una Vespa rossa PK50XL esploravo la periferia di Napoli, i suoi contorni, i suoi dintorni umani, raccogliendo storie, senza sapere ancora che scrivere sarebbe diventato il mio lavoro.”

Una presentazione che a mio parere ci dice molto anche del suo romanzo, che ha come vero protagonista proprio il viaggio, filo conduttore della sua vita.
Pietro-Rosario fa ritorno alla terra natìa per risolvere un enigma che ossessiona il suo presente. Un ritorno alle origini attraverso trenta momenti (i capitoli), ciascuno dei quali è dedicato all’incontro con un personaggio del passato che fa riaffiorare alla memoria di Pietro ricordi indelebili la cui metabolizzazione sarà determinante per il futuro.
Fondamentale è il richiamo alla figura del nonno paterno, di cui Pietro porta il nome e anche il peso della reputazione. Quel nome lo spinge a voler ritrovare un pezzo di passato che lui credeva fondamentale per il completamento del puzzle della storia familiare. Quasi come se la visione sfuocata del passato fosse da ostacolo al futuro.

Nel libro ho trovato accenni al sapore tipico della narrativa verista: i riferimenti ai luoghi, ai vecchi mestieri, al cibo semplice di una volta, alla terra, al peso della storia. La Masseria è come La Casa del Nespolo verghiana, uno stato mentale oltre che un luogo, il nido dove rifugiarsi o la prigione da cui fuggire.
E ho scorto anche qualcosa di Pavese: Pietro è novello Anguilla che analizza il presente con gli strumenti del passato offertigli dalla sua memoria, confondendo inevitabilmente i contorni della realtà con la poesia del ricordo.

Nel libro si respira l’atmosfera della società del sud Italia ai tempi della Grande guerra e della ricostruzione del dopoguerra: c’è lo stupore di fronte al cinematografo e la consapevolezza di come l’illuminazione pubblica abbia fatto cambiare la prospetti va con cui guardare la realtà; c’è la paura di fronte allo sviluppo industriale e lo straniamento causato dal lavoro in fabbrica; c’è la rabbia per il clientelismo come molla e freno della politica del Sud ; c’è tanta povertà, ma c’è anche tanta solidarietà umana; c’è il quadro nostalgico di relazioni umane fondate sulla garanzia della parola data, sull’onore familiare.

Tutto il racconto viene costruito sul rapporto simbiotico tra due elementi primigeni, la terra e l’acqua(neve), simboli dei valori su cui è fondata la vita del protagonista: l’importanza delle proprie radici (la terra) e il valore della memoria come magistra vitae (la neve). La neve di Rosario è come la madeleine di Proust: è il trait d’union tra presente, passato e futuro; è il correlativo oggettivo dei sentimenti di Pietro che nel ritorno a casa, in occasione del suo quarantesimo compleanno, diventa finalmente uomo, ed è finalmente pronto ad afferrare la sua vita a piene mani, senza più il rischio che la neve si sciolga di nuovo tra le dita.

Una piacevole lettura, un piacevole scambio di idee. Questa la vera ricchezza e semplicità della cultura che intendiamo promuovere in un’epoca di apparenze e colpi di scena. Grazie Rosario!

Manuela Schiano

Album fotografico della presentazione

Storie di casa mia: Se al ritorno dalle vacanze, il tuo vicino Silvio è partito per sempre…

Rosario PipoloI luoghi comuni recitano che i rapporti di vicinato siano quasi inesistenti al di là del Po e siano un’esclusiva del Sud. A dire il vero non ho mai amato “le comunelle” del vicinato chiassoso che nutrivano il folclore delle zone in cui sono cresciuto. Ho riconosciuto però, in diverse occasioni, il valore aggiunto di un buon vicino di casa.

Quando più di quattro anni fa ho cambiato casa, Silvio è stato il primo che ho incrociato. Il signore ottantenne conosceva ogni angolo della palazzina dove mi ero trasferito e mi offrì le giuste indicazioni, da come aprire il cancello alla gestione della raccolta differenziata. Nel giro di pochi mesi Silvio si rese conto che, oltre ad essere il condomino più giovane, ero anche quello più sregolato, che non aveva mai orari. Appena capitava l’occasione di incrociarmi, mi sussurrava: “Quando sento la musica ad alto volume, so che si aggira da queste parti”.

Il mio vicino sapeva porgerti persino un rimprovero con garbo ed era una piacevole sorpresa ritrovarmelo all’improvviso, come fosse l’ombra di mio nonno, accanto al garage o alle prese con il suo orticello. Spuntava nel momento in cui meno me lo aspettavo. Avrei conosciuto il suo passo lento ovunque. Al ritorno dalle vacanze, non ho sentito più i suoi passi e il bidoncino della spazzatura, che lui puntualmente mi metteva dentro, era rimasto lì.

Mi hanno avvertito che, proprio nelle stesse ore del mio rientro, Silvio se ne era andato per sempre: con garbo, senza far rumore, nel suo stile. C’eravamo salutati prima delle vacanze e, osservandolo mano nella mano con sua moglie, dicevo tra me e me: “Spero di arrivare alla sua età con tanto amore negli occhi per le mia donna”. Sì, perché Silvio nascondeva nel suo sguardo sterminato amore.
Rincasando stasera mi sentirò più solo, perché non ci sarà più l’anziano signore del piano di sopra che a modo suo si preoccupa per me. Allora metterò ad alto volume su un vecchio vinile una canzone dei Beatles, aspettando che Silvio bussi al campanello per chiedermi di abbassarlo. E se ciò non accadesse, sparerò ad alto volume un concerto Brandeburghese di Bach, l’unica musica che può arrivare in fretta alle orecchie di Dio. Sono convinto che da lassù Silvio dirà al Padreterno: “E’ il mio vicino di casa. Anche qui riesce a farsi sentire. Questa volta però non lo rimprovero perché questo è il suo modo stravagante di salutarmi”.*

*Dedicato a Silvio Minoli (1925-2013)