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Archives Novembre 2013

Diario di viaggio: la mia festa del Ringraziamento con Ronnie Jones

Rosario PipoloLa mia prima Festa del Ringraziamento. Pensavo di essere finito in un music club del Village tra i polmoni della Grande Mela. Invece mi sono infiltrato al Memo a Milano. Cena assieme a Ronnie Jones, voce black trapiantata In Italia una miriade di anni fa. Rigorosamente senza “tacchino”, ma tra un boccone e l’altro, mi faccio raccontare le atmosfere del ThanksGiving Day. Lui è stato troppo “vagabondo” per essere un cronista impeccabile della landa che lo ha partorito. Ronnie Jones è il tipico musicista randagio, ma gli brillano gli occhi quando ricorda la sua Springfield, sperduta nel lontano Massachusetts.
“Ringraziare sempre, tutti i giorni per il grande dono che abbiamo ricevuto: la vita”
, dice Ronnie. Sembra un ringraziamento laico, invece è la condensa dello spirito di un discjokey che, nell’Inghilterra degli anni ’60, non smise mai di flirtare con un il soul, spiaccicandolo sulle piastrelle incollate con il funk.

Mi va un boccone di traverso quando, prima di arrivare al secondo, mi racconta che, cinquanta anni fa, pure i Beatles andarono ad ascoltarlo. I quattro sbarbatelli di Liverpool, che avrebbero tatuato la pelle della musica, si fecero trovare in un locale dove Ronnie suonava. Era il 1963, lo stesso anno in cui fu fatto fuori JFK. Morì l’America quel 22 novembre? No. Per Ronnie anche John Kennedy fece i suoi errori, ma quel giorno fu doloroso per tutti, americani e non. Dove viveva allora si fermò tutto e sentiva come “se le gambe si fossero paralizzate”.

E la musica? Non va mai fuori moda. Ormai sono finiti i tempi della tutela della grandi case discografiche. I dischi si vendono durante i concerti in Italia come negli Stati Uniti. Mannaggia, il sorbetto lo mangiucchio da solo. Ronnie Jones è già sul palco. Si spengono le luci. Dal buio il primo sussurro della sua voce. Sono al Memo music club a Milano, ma mi sento a New York.

Stop alla violenza: “donna come l’acqua di mare, c’è chi invece la prende a botte!”

Tina Turner

Rosario Pipolo“Donna come l’acqua di mare, chi si bagna vuole anche il sole, chi la vuole per una notte, c’è chi invece la prende a botte”, cantava Mia Martini. Oggi 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, ci ricordiamo che una donna può finire al macello, con o senza il benestare del maschilismo vigliacco. Ci sono modi e modi per ferire e spesso gli schiaffi vanno oltre le ferite fisiche.

In Italia le riflessioni hanno bisogno delle ricorrenze per far rumore. Stamattina, prima di uscire a lavoro, sono sbucate dal mio archivio delle fotografie che mi hanno riportato a due incontri significativi degli anni ’90: Tina Turner e Franca Rame. Tina glissò in conferenza stampa, ma il film autobiografico What’s Love Got to Do with It accennava alla figura del marito “cattivo” Ike. Franca invece avrebbe condiviso il dolore della deplorevole violenza nell’intenso monologo Lo stupro.

A distanza di tempo ho ancora impresso lo sguardo di quei due temperamenti diversi, due donne così distanti che si saranno incrociate nel grembo della sofferenza. Quanto facciamo in Italia per la prevenzione? La scuola investe poche risorse per affrontare questo argomento a più livelli, senza un fattivo contributo per eliminare l’ignoranza in cui sono affogate le generazioni precedenti: le stesse che misero “il burka sociale e culturale” alle donne, che dovevano subìre senza fiatare. Ne ho sentite di storie, appartenenti alla generazione dei miei nonni, che con il passare del tempo hanno preso la piega dell’indifferenza infame.

“Donna come l’acqua di mare, c’è chi invece la prende a botte”. Qualcuno lo sta facendo in quest’istante, mentre sopravviviamo nella ricorrenza. Il 25 novembre non scade a mezzanotte.

Ricordare John Fitzgerald Kennedy nel “mio viaggio” 50 anni dopo

Rosario PipoloVoglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy con uno scatto ingiallito del ’92 che mi ritrae a Washington di fronte a quella fiamma che arde su pezzi di marmo gelido. Voglio ricordarlo attraverso un viaggio: da fresco diplomato, figlio di una casalinga ed un operaio, che sognò di diventare Forrest Gump per mettere piede alla Casa Bianca e stringere la mano al Presidente, ammazzato a Dallas il 22 novembre di 50 anni fa.
L’anziana signora, che portava al guinzaglio un barboncino bianco nel cimitero di Arlington, aveva stretto la mano a JFK. Me lo raccontò quel pomeriggio. Era rimasta affezionata al Presidente e, appena poteva, passava a fargli un salutino al camposanto.

Voglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy, senza scomodare il mio archivio e tirare fuori alcuni ritagli di riviste che misi via una marea di anni fa. Nel 2005, durante i settemila chilometri di traversata in USA con un autobus, feci tappa a Dallas. Non fu casuale.  Cercavo persone che avevano assistito al tragico corteo texano, volevo memorie, ricordi. Non trovai niente. Pochi rimasugli erano assiepati al Museo del Sesto Piano, sorto nell’edificio da dove JFK  fu ammazzato.
Me ne tornai a mani vuote, ma con il peso in valigia delle contraddizioni che sobbarcano la coscienza degli Stati Uniti d’America. Il Presidente più mitizzato d’oltreoceano era stato partorito dal grembo delle lobby e del potere, per giunta cattolico, ma pur sempre un democratico. Finì come un martire, dando spunti a giornalisti, sceneggiatori e scrittori per sostenere la legittima teoria del complotto, che andava oltre il perimetro semplicione della Guerra Fredda.

I colpi che fecero fuori JFK, riflessi nel volto spaurito di Jackie nelle sequenza più celebre della tv in bianco e nero, spazzarono via l’idillio degli “Happy Days” degli anni ’50 e infilarono tanti bottoni nel tunnel della guerra del Vietnam, nel diktat dei petrolieri texani, nel ghigno del rivale di sempre Richard Nixon.
L’America canterina mise al tappeto l’America sognatrice nello stesso giorno in cui, per ironia della sorte, in Gran Bretagna usciva l’album musicale “With the Beatles”. La colonna sonora dei Kennediani doveva essere il fronte del palco che si spartivano Bob Dylan e Joan Baez. Fu invece la canzoncina sensuale Happy Birthday, Mr. President di Marilyn Monroe, che affrescò la Casa Bianca con le prime pennellate di impeachment, prima ancora che la volgare Monica Lewinsky venisse al mondo.

Dopo mezzo secolo ancora mistero, fiction, menzogne, complotti, rimorsi, rimpianti. Allora non c’era Wikileaks per beffeggiare la CIA o l’FBI. Ci restano un mucchio di foto ingiallite con in cima quella in cui John John saluta il feretro del papà Presidente. E pensare che c’era il figlio di un operaio e di una casalinga che voleva stringere la mano a JFK. Forse ero io.

Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia: basta allo sproloquio su Facebook!

Rosario PipoloPiù di cinquant’anni fa sui rotocalchi di mezzo mondo circolavano gli scatti degli inquilini della Casa Bianca con i propri pargoli. Questo di JFK è uno dei tanti. Chissà se oggi, nell’epoca del consumismo usa e getta dei social network, le stesse immagini cadrebbero nella trappola che fa dell’infanzia “la merce” dell’egocentrismo di mamma e papà.
Il 20 novembre si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Sarebbe “cosa buona e giusta” far pulizia nel marasma di Facebook e rottamare l’abuso di immagini e racconti che trasformano i nostri figli in piccoli super-eroi.

I primi a farsene promotori dovrebbero essere insegnanti ed educatori. Si sa però che è arduo intromettersi, perché la paternità e la maternità si alimentano di piccole soddisfazioni che vanno assolutamente condivise. Ai tempi del telefono SIP si chiamava la suocera e si raccontava che “il pupo aveva fatto il primo caccone”.
Ai tempi di Facebook si inizia dalla gravidanza con un racconto quotidiano. Poi arrivano le foto della nascita e gli status dei primi mesi di vita, finché scatta il campanello d’allarme: le immagini del bimbo seminudo e il primo bagnetto.

Ai tempi delle scuole elementari, in attesa che suonasse la campanella, origliavo discorsi raccapriccianti. “Il mio secondo è davvero un genio. Fa la cacca profumata”, proclamava il papà di un mio compagno di classe. E l’altra mamma, dallo sguardo invidioso, replicava: “La cacca deve puzzare, altrimenti che maschio è?”.
Oggi ai tempi dei social network, i pupi si ritrovano in prima elementare un bell’account di Facebook tutto per loro, con gli elogi di mamma e papà, che li vogliono tutti bravi “cantanti, ballerini, musicisti, calciatori” e la promessa di spedirli presto dalla regina del talent show Maria De Filippi, che farà di loro una vedette.

Il primo passo potremmo farlo proprio in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: spegnere tutto questo e mandare in corto circuito la giostrina virtuale. Potremmo rincasare prima, goderci in privato il sorriso dei nostri cuccioli. Non sono “supereroi” perché sono bravi in questo o in quello, ma semplicemente perché sono la meravigliosa espressione della generosità della vita nei nostri confronti.

Diario di viaggio: la pizza di Raffaele ‘o veloce a Tavernola per sentirmi a casa

Il giorno in cui Raffaele ‘o veloce lasciò Maiori per andare a cercare fortuna nel Nord Italia, si ricordò cosa gli aveva detto una volta il papà con gli occhi sgranati sulla costiera amalfitana: “Rafé, meglio un piatto di minestra guadagnato con onestà che tutto il resto”. E lui, finito ai confini tra le province di Bergamo e Brescia, se lo ricordava tutte le volte che infornava e sfornava una pizza.

Non le ho contate tutte le pizze che Raffaele De Rosa ha preparato negli ultimi quarant’anni. Tuttavia, quando passo a Tavernola bergamasca, mi fermo da lui perché è qui la tana sul lago d’Iseo per sentirmi a casa. Corre voce che la sua pizza sia la migliore del lago. Per me è molto più, perché azzanno tutti gli ingredienti del mio Sud, non solo sulla pizza, ma anche intorno a me. I figli di Raffaele mi trattano come fossi uno di famiglia e la moglie mi offre puntualmente un liquorino alle erbe fatto in casa.
Una volta addirittura mi hanno offerto un posto per dormire, temendo che al ritorno potessi avere un colpo di sonno alla guida.

Il randagismo è indispensabile per un viaggiatore, perché scaccia via i pregiudizi per cui certi luoghi sono spogli di atmosfere. Il Sud non è prigioniero della geografia dei luoghi, ma vive libero lì dove le persone piantano con nuove storie le proprie radici. L’ultima volta che sono partito da Tavernola, Raffaele mi ha regalato un paio di pagnotte di pane fatte con le sue mani. Quella farina e quell’impasto hanno lasciato sotto il mio palato il sapore genuino che chi emigra lascia nel posto in cui va. Per questo motivo la famosa pizza di Raffaele ‘o veloce a Tavernola Bergamasca ha un grande merito: disegna i contorni dell’itinerario che ci riporta sulla via di casa, strada maestra per essere sé stessi.

Dalla terra dei cachi alla terra dei fuochi: ‘e legnasante avvelenate

Rosario PipoloI loti li chiamavano ‘e legnasante nella striscia di terra che a ridosso della periferia di Napoli si spingeva fino alle alture dei paesotti vesuviani. Era la terra dei cachi, quelli saporiti, ai tempi in cui il potere della Nuova Camorra Organizzata ruttava dal quartier generale alla falde del Vesuvio.
‘E legnasante erano un’altra cosa, robusti come il potere dei papponi democristiani di allora, affiliati con i clan che iniziavano a seppellire veleno nelle campagne. ‘E legnasante non avevano niente a che fare con “i cachi molli”, quelli che mangiavano gli uomini di buona volontà, sognatori di una terra diversa per i propri figli. ‘E legnasante circolavano in parrocchia per zittire i preti pronti a denunciare piuttosto che a far finta di non vedere o a far sermoni sulla parola di Dio.
‘E legnasante erano il frutto dei poteri forti e occulti che, nel giro di quarant’anni, hanno messo in piedi un impero, prima di trasferirsi al Nord Italia e continuare a fare business.

E non c’era bisogno della profezia di un boss per sostituire l’insegna “benvenuti nella terra dei cachi” con quella “bentornati nella terra dei fuochi”. Non era necessario l’uragano mediatico, accompagnato dalla fastidiosa punta di commiserazione e pietà nei riguardi del Meridione sofferente, per urlare con il megafono “la vostra terra è zeppa di veleno”. Non è stato confortante scovare nel corteo delle recenti fiaccolate tante facce note. Sono le stesse che decenni fa avevano barattato ‘o posto fisso per i propri figli in cambio dell’omertà, del silenzio fradicio, di una mazzetta che toglieva sangue e sudore ai propri risparmi.

Oggi dalla pendici del Monte Somma, lo schienale del Vesuvio ancora dormiente, si scorge la terra martoriata in cui è stato fatto un piccolo genocidio di uomini, donne e bambini. A dieci, a venti, a trenta o a sessant’anni non si muore per uno “stile di vita scorretto” – come ribadì un ministro miope – ma per le sostanze tossiche ingoiate da più generazioni, stordite dall’elettroshock del “cumpà, tiramme a campa’”.

Dove sono finite ‘e legnasante saporite? Ne voglio mangiare a bizzeffe, strozzandomi con il  “mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa”. Ciascuno è stato assassino nel suo piccolo ed è inutile giocare a nascondino con i capri espiatori.

Facebook e lo stupore di ritrovarsi sui social network

Rosario PipoloIn principio Facebook era “il libro delle facce” che fece ritrovare vecchi compagni di scuola e di università. Oggi è una macchina complessa tra business e voglia di “apparire” a tutti i costi, riuscendo anche a condizionare le nostre vite. Nonostante tutto, gli algoritmi del social network più amato e odiato del pianeta non hanno rinnegato le origini e così capita raramente di incappare in quell’insostenibile leggerezza dell’essere “social”: lo stupore di ritrovarsi.

Qualche tempo fa è sbucato dal mio archivio un biglietto su cui era scritto: “Grazie per questa bella esperienza che ci hai fatto vivere. Continua a rincorrere i tuoi sogni”. Risaliva ai giorni sepolti in cui racimolavo qualche soldo lavorando come animatore. La firma in fondo era della più timida del gruppo. Il mio occhio era caduto proprio lì, ripensando a dove fosse finita quella bambina che periodicamente la mamma accompagnava alle prove.

Ci sarà stato un corto circuito di natura “social” e così Facebook mi ha suggerito un contatto. Interessi in comune? Forse lo studio delle Lingue straniere. Stessa generazione? Assolutamente, no. Amici in comune? Qualcuno forse sì. La foto è un incanto e sembra un remake della natività. Una donna, con il profilo e il sorriso identici a quell della piccola Paola dei tempi che furono, sorride ad un neonato. Lo scatto condensa la gioia di una zia che sta dando il benvenuto al suo nipotino. E’ il futuro che vuole farsi coccolare dal presente? Forse sì.

Lo stupore di ritrovarsi ci rende tutti più autentici, persino quando un algoritmo si veste di umanità, molla il virtuale dei social network, allarga lo sguardo su un vecchio bigliettino ingiallito e ti restituisce un soffio tra i capelli della tua vita.

Storie di casa mia: 50 anni di assistenza a ritmo di Rap

Rosario PipoloIn una sera del 1963, mentre dalla radio i Beatles cantavano Please Please me, papà mi raccontò di aver illuminato un intero quartiere di un paesotto alla periferia di Napoli. Aveva fornito assistenza ai sogni di tutti coloro che mai avrebbero immaginato di vedere illuminata una strada con l’energia elettrica.

La notte tra il 16 e il 17 luglio 1973, mentre in un jukebox girava Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, mamma fu portata in fretta e furia in clinica perché io scalpitavo nel suo pancione. “Accipicchia!”, le disse la zia Carmelina che le prestò assistenza. E aggiunse: “Margherita, con tutto il ben di Dio che stasera hai mangiato per il mio onomastico, tuo figlio nascerà a stomaco pieno!”.

In una mattina di ottobre del 1983, mentre Micheal Jackson si arrampicava nella hit parade con Billie Jean, fui punito e spedito dalla classe direttamente dal direttore. La segretaria mi offrì una caramella, segnale di un conforto o assistenza. Ed io sfacciato risposi: “Sono fiero di essere qui. Finalmente una volta che non viene lui in classe, ma io vengo a trovare il direttore. Mi sta simpatico. E poi si chiama Domenico come mio zio”.

In un pomeriggio d’inverno del 1993, sul nastro dell’audioradio Terence Trent d’Araby cantava Do you love me like you say. A quasi un anno dalla patente, si bucò la ruota dell’auto. Mi vergognavo: non ero capace di cambiarla. Chiesi alla ragazza che era con me di fornirmi assistenza in maniera bizzarra. “Chiedi aiuto a qualcuno, fingendo di essere da sola in macchina. Esisteranno ancora i cavalieri?”, le dissi. Il piano funzionò. Un tizio si fermò e tolse di mezzo la ruota bucata, mentre io finsi di arrivare in ritardo sul posto.

In una sera d’estate del 2003, i Muse se la davano a gambe con Hysteria. Durante una delle mie prime affacciate nel Sud della Francia, chiesi delle indicazioni ad un carroattrezzi. Il logo non mi era per niente familiare. Eppure mi dissero che oltre il confine, se ti fermavi con l’auto non potevi che chiamare quelli con il logo rosso e blu. Quello era il simbolo dell’assistenza.

Oggi 4 novembre 2013, io ci lavoro in un brand che fornisce assistenza e che per giunta spegne 50 candeline. Meno male che i miei capi non leggono mai ciò che scrivo! Non sanno che volevo fare il dj rap. Allora mi sono detto: quasi quasi mi invento disc-jokey, fingendo di aver composto la colonna sonora di questo video a cartoni animati. Perchè? Per ritrovare qualche faccia familiare che ha girato intorno alla vita mia.

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Professore Elia, sapete che il 2 novembre vi aspetto sul balcone per ascoltare “Imagine”?

Rosario Pipolo“Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina presa tranquillamente qui fuori… con un simpatico dirimpettaio… Voi siete simpatico, professò”. Il monologo capolavoro di Questi Fantasmi di Eduardo De Filippo fotografa i legami che si creavano nella Napoli che aveva fatto di un “balcone” il luogo privilegiato della socievolezza.

Mentre sbuffavo sulle noiose versioni di greco e latino, sentivo la voce del professore Elia che dava ripetizione ad uno studente di un istituto professionale. Mi affacciavo e mi appoggiavo alla ringhiera. Dall’altra parte del balcone c’era lui che mi sorrideva. Mi intrattenevo volentieri, qualche chiacchiera. Poi arrivava la moglie del professore che gli portava una tazzina di caffè. Saranno state le quattro di un pomeriggio d’autunno.

Ai tempi dell’università, il professore Elia mi chiamò dal balcone. Mi affacciai. Pensavo volesse rimproverarmi perché avevo il volume della musica troppo alto. Invece no. “Mi piace come suoni il pianoforte. Eseguila più spesso questa canzone”, mi disse con la sua voce composta e pacata. Io spiegai al professore che non era merito mio, ma del vinile di “Imagine” di John Lennon. Da allora tutte le volte che lo sentivo dare ripetizione, mettevo il disco. Ero orgoglioso che piacesse al mio dirimpettaio. A casa mia non apprezzavano mai la mia selezione musicale.

Quando mi sono trasferito a Milano, ogni volta che tornavo giù dai miei, mi appostavo sul balcone per incrociare il professore Elia. Con il passare degli anni, purtroppo lo incontravo sempre più di rado. Mi ricordo la sera in cui ero in partenza, con una marea di bagagli, per il trasloco definitivo. Mi diede una pacca sulla spalla, accompagnata da una carezza. A suo modo mi aveva detto: “Va’ e coraggio”.

La parete della mia camera a casa dei miei confina ancora con quella del professore. Stanotte torno a coricarmi nel letto dove sono cresciuto e mi sentirò solo senza il respiro di notte del professore Elia.
Ah, professore Elia! Siete stato più di “un simpatico dirimpettaio”. Avete attraversato con me un pezzo della mia vita, vedendo volare da un balcone, come uno sciame di palloncini, i sogni di un ragazzaccio di periferia. Il pomeriggio del 2 novembre vi aspetto sul balcone per farvi riascoltare il disco che piaceva tanto a voi. Sarà allora che le nuvole prenderanno la forma di petali di margherite. “Professò, vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo?”. Me lo avete insegnato attraverso la ringhiera di un balcone*.

*Dedicato ad Antonio Elia (1941-2013) in occasione del 2 novembre.