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Archives Aprile 2014

Roncalli e Wojtyla, “i due Papi santi” senza né tonaca né altari

Rosario PipoloLa fumata di inchiostro per raccontare, commentare e giudicare la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II ce la lasciamo alle spalle. E’ l’effetto misantropo del lunedì che rende più sobria l’euforia della domenica appena inghiottita dal calendario. Messo in castigo dai saggi sermoni di prelati, vaticanisti e storici, mi sono tenuto al sicuro due ricordi che mi legano ad Angelo Roncalli e Karol Wojtyla.

Il primo riguarda mia nonna Lucia che, recandosi a Roma alla fine degli anni ’50 per una commissione, rischiò di morire insieme a mia madre ragazzina. La Seicento su cui viaggiavano fu travolta da una tromba d’aria e un albero si piegò sulla loro direzione. Nonna Lucia addebitò questa salvezza al neo Papa Giovanni XXIII e pensò bene di cambiare destinazione e recarsi a ringraziarlo. Giunti a San Pietro, si trovarono in una chiesa gremita con Roncalli tra la folla che, incrociando i loro sguardi, voleva dire qualcosa del tipo: “Sapevo che sareste arrivate. Vi stavo aspettando”.

Il secondo riguarda i miei vagabondaggi. A Cracovia ho conosciuto diverse persone che ricordavano il viceparroco don Karol e tra le cime della Valcamonica uomini e donne che avevano visto il Wojtyla, figlio delle montagne, incluso quel Lino Zaino che da mestro di sci del pontefice polacco divenne famoso per le testimonianze lasciate nel libro “Era santo, era uomo”. Tutti concordavano sul carisma di Wojtyla: riuscire a spogliare l’anima con un solo sguardo.

Vengo al dunque. Con la canonizzazione di questi “due Papi”, che legano sullo stesso filo la mia alla generazione dei miei nonni, non è forse arrivato il momento di svincolare la santità dalla religione cattolica?
Angelo Roncalli e Karol Wojtyla ci hanno convinti, attraverso le loro rivoluzioni in momenti storici e su fronti opposti, che la santità non necessita di tonache ed altari, così come di quel fanatismo verso le reliquie che intrappola la storia tra ragnatele medievali. Una volta passavano secoli prima delle canonizzazioni, oggi “i nuovi santi” li nomina il nostro tempo, spesso avido di miracoli e visioni. Roncalli e Wojtyla ci hanno dato una bella lezione, già prima di indossare quella tonaca che li avrebbe condotti verso l’altare.

I nostri cent’anni di solitudine iniziano oggi, senza Gabo!

Disegno di Jaime Molina

Rosario PipoloSul mappamondo non c’è Macondo, ma i luoghi raccontati attraverso la magia del realismo e l’immaginazione fissano una loro geografia. E’ la geografia che schiaffeggia il riverbero del tempo, nonostante tutto. José Arcadio Buendía è troppo impegnato a custodire sogni e illusioni patriarcali per accorgersi che la penna di Gabo ha smesso di sputare inchiostro.

I nostri cent’anni di solitudine cominciano lentamente proprio oggi, in questo venerdì, ai piedi delle tante “croci” su cui, nel secolo scorso, hanno inchiodato i sogni della Colombia e dell’America Latina tutta. L’inchiostro di Gabo ha annerito con poesia e impagno civile il sangue versato dai sudamericani per il proprio riscatto; storie dense e personaggi dalla forte identità hanno mandato al patibolo i “Giuda” che volevano la Colombia culla di mercenari e trafficanti di droga.

Gabo diede il ben servito ai “Pilato” americani che si lavarono le mani mentre i golpisti cileni scelsero il loro “Barabba”. La spada affilata di Gabo fu quella del combattente contro gli orrori della dittatura di Pinochet; il suo manifesto letterario era impregnato di valori del socialismo, fatto passare da tanti per comunismo, vista l’amicizia stretta con Fidel Castro.

Per il mondo è morto un gigante della Letteratura del ‘900. Per gli intellettuali è scomparso un Nobel. Per chi ha passato una vita a leggere i suoi libri, se n’è andato Gabriele Garcìa Marquez.
Per alcuni di noi non è successo nulla di tutto questo, perché i sogni fatti di parole di carta e passione civile non si fermano mai. Perciò oggi saremo a Macondo, con gli occhi puntati al cielo insieme alla famiglia Buendia, per sentirci liberi e orgogliosi di essere sudamericani.

Il cuore batte ancora per Gabo. Semplicemente, grazie.

Backstage di Milano Marathon 2014 nel jumping di Giulio Tolli

Rosario PipoloQuando ritagliavo tramonti sulle spiagge di Montesilvano nella prima vacanza da fresco diplomato, Giulio aveva a malapena quattro anni. Il suo Abruzzo appartiene in parte anche a me, su quel litorale che da Pescara si spinge verso Nord, nelle casette di Manoppello dove era cresciuto mio zio Mimmo o tra le pagine del mio romanzo, pubblicato da un editore di Teramo. La vita è fatta di cerchi concentrici in cui frame di vita di generazioni diverse si sovrappongono.

Io e Giulio Tolli della community degli Instagramers siamo in giro per raccontare la Milano Marathon 2014 in stile social, nella cornice del backstage di un documentario in video. Eppure tra foto postate su Instagram e twittate scattanti nella rincorsa dei rimbalzi febbrili dei social network, restano brevi momenti per soffermarsi nel backstage del nostro privato. Le scorribande universitarie di Giulio ad Ancona mi restituiscono i vagabondaggi nelle mie adorate Marche.

Buttando l’occhio su Instagram e soffermandomi su uno dei tanti jumping fotografici di Giulio mi sembra di riconoscere la mano che lo tiene sospeso nell’aria. E’ quella di Anisa, che nel suo sguardo luminoso raccoglie i contorni dei paesaggi dell’Albania. Io faccio l’impiccione e Giulio sta al gioco. Ripenso al mio viaggio a Tirana, alla generosità degli albanesi sul posto e a tutta quella generazione arrivata in Italia con le tasche dei pantaloni zeppi di sogni.

I runner corrono e i volti si deformano nello spirito di squadra della Staffetta, mentre io e Giulio ci sediamo sul marciapiede della complicità, che va al di là dei ciuffi della nostra capigliatura. Rovistando nel backstage di due generazioni, infatti, troviamo la stessa modalità di accarezzare la vita: una scanzonata leggerezza che fa delle passioni l’involucro delle emozioni per catturare i dettagli, che sfuggono ai frenetici e ai distratti.

Io scatto, Giulio salta, il jumping della Milano Marathon è fatto, proprio sotto il traguardo. Qualcuno avrà pensato che “i salti indiavolati” di Giulio Tolli siano una stravaganza. Quando Giulio scompare per tornare a casa nel suo Abruzzo e, in lontananza il suo ciuffo assomiglia alla cresta scapigliata di Beep Beep, rifletto. I jumping di Giulio invitano le nostre generazioni a  tagliare i traguardi della vita “con le gambe sospese all’aria”, perché con i piedi per terra, come cantava anche Lucio Dalla, “un vincitore vale quanto un vinto”.

Il finto incentivo di 25 mila euro per il matrimonio: sull’altare mi sposo con un Pesce d’Aprile!

Rosario PipoloFino a ieri pensavo che il Pesce d’Aprile più simpatico fosse quello architettato dalla Casa Bianca: Robby, il Presidente Obama in formato kid, che con la sue smorfie alla “Arnold” ha fatto sorridere mezzo mondo. Mi sono ricreduto quando mi hanno segnalato la news di un fantomatico Giornale del Corriere: 25 mila euro di incentivo da parte della Comunità Europea a chi si sarebbe sposato entro il 2015.

Una volta per sposarsi bastava un prete, invece oggi davvero vale il detto della nonna: “Senza soldi non si cantano messe”. La notizia bufala ha fatto venire “la voglia dell’altare” persino agli indecisi, perché il contributo non sarebbe stato malvagio visto i costi esorbitanti di un matrimonio al giorno d’oggi. Ho pensato subito al “mio caro Sud” dove vince il detto “Cumpà, facimme a chi mette ‘a copp!”. In vista delle nozze gli sposini subiscono lo stress dei costi e la minaccia del business gonfiato intorno al “fatidico sì”. Dalle parti mie non provate a far incazzare ristoratori, fotografi, parrucchieri e fioristi che hanno imparato a memoria la solita filastrocca: il giorno più bello per gli sposi si paga.

Venticinque mila euro di incentivo ci farebbero comodi per soddisfare anche il divimo modaiolo dei fioristi, che oggi marciano in passerella e propongono cifre da capogiro per tappeti di fiori che dalla casa della sposa arrivano fino alla chiesa. Bisognerebbe avere il coraggio di dire no a tutto questo tam tam. Non per puntiglio, bensì per la dignità che ci hanno donato i nostri “nonni contadini”.

Il matrimonio felice della contrada, in una cartolina in bianco e nero del Secondo Dopoguerra, con il monello di mio padre e i suoi amichetti che passavano da una festicciola all’altra per mangiare qualche dolcetto. La sposa era bellissima con l’acconciatura fatta dalla vicina; lo sposo era radioso nell’unica foto in posa che veniva scattata; gli invitati erano soddisfatti del banchetto nunziale preparato in casa; la festa era indimenticabile nella cornice dei fiori del giardino tra petali profumati.

Lo scherzo dell’incentivo di 25 mila euro è stato un Pesce d’Aprile utile a farci riflettere. Svendere la magia di un giorno speciale calza la stessa taglia della meschinità.